Politica dell’identità o politica di classe?

Diversi movimenti si organizzano contro le forme di oppressione legate al genere, all’orientamento e all’identità sessuale. Al contrario di una diffusa visione soggettivista e individualista, noi pensiamo che alle discriminazioni e alle oppressioni fondate sulle caratteristiche personali sia necessario dare risposta con una lotta sociale intersezionale che coniughi genere, “razza” e classe.

Diversi movimenti si organizzano contro le forme di oppressione legate al genere, all’orientamento e all’identità sessuale. Al contrario di una diffusa visione soggettivista e individualista, noi pensiamo che alle discriminazioni e alle oppressioni fondate sulle caratteristiche personali sia necessario dare risposta con una lotta sociale intersezionale che coniughi genere, “razza” e classe.

Il difficile binomio classe/identità

Il femminismo marxista ha un assunto teorico fondamentale: esiste un rapporto strutturale tra il capitalismo e l’oppressione delle donne, perciò la contraddizione uomo-donna potrà essere superata realmente solo nel quadro di una rivoluzione sociale anticapitalista; ad essa dovranno partecipare, insieme alla classe operaia, tutti i soggetti sfruttati e diseredati che combattono per la loro liberazione. 

Quest’idea ha condotto ad affermare l’importanza strategica della convergenza tra le lotte delle donne, dei lavoratori e delle minoranze razzializzate che, in condizioni e modalità diverse, contribuiscono alla produzione e alla riproduzione del sistema capitalistico: ma questo è un obiettivo che appare tuttora lontano e difficile da realizzare. Il capitale differenzia e gerarchizza categorie di individui – la classe operaia ”bianca”, le donne, le persone di colore – non solo come espediente divisorio tra gli sfruttati – l’antico motto divide et impera fa sempre scuola – ma anche per poterli assegnare a sfere di ruolo distinte della divisione sociale del lavoro su presunte basi naturali.

Per quanto riguarda il femminismo contemporaneo, mentre è poco conosciuta in Italia la riflessione materialista sulla contraddizione di genere, dilaga invece una politica identitaria delle minoranze sessuali smaterializzata e subalterna all’egemonia neoliberista sulla base di correnti di pensiero radicate nelle filosofie post-moderne. 

C’è, dunque, una contrapposizione tra una “politica di classe”, che punta a ribaltare il sistema di tutte le oppressioni nella lotta contro il capitale, e una “politica dell’identità” che elude la lotta anticapitalista e preclude la possibilità di alleanza su larga scala tra diversi soggetti oppressi. 

In questa nota ricapitoliamo le riflessioni prodotte nella storia del femminismo sull’integrazione delle lotte delle donne, degli immigrati e dei lavoratori, mettendole a confronto con teorie identitarie di segno diverso.

L’intersezione di sesso, razza e classe

Una teorizzazione femminista e anticapitalista sul rapporto tra diverse categorie di oppressioni emerse negli Stati Uniti alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, nell’ambito del femminismo afroamericano. Di fronte al sessismo dilagante nel movimento per i diritti civili dei neri – gli uomini pensavano che la loro battaglia avesse bisogno di una riaffermazione di “virilità” –  si formarono nuclei organizzati (Black Women’s Alliance, Third World Women’s Alliance) che adottavano una visione insieme anti-razzista e femminista e, infine, l’espressione più chiara e completa di questa tendenza, il Combahee River Collective, un collettivo di femministe lesbiche nere, che mosse i primi passi a Boston nel 1974 per iniziativa di Barbara Smith. Nel suo Manifesto, pubblicato nel 1977, questa organizzazione sosteneva che la visione dell’oppressione delle donne di colore, sia nei movimenti antirazzisti, sia nel movimento femminista nordamericano e nella sinistra bianca degli anni Sessanta e Settanta, fosse insufficiente e dichiarava di sentirsi impegnata nella lotta contro l’oppressione razziale ma anche in quella anti-sessista e di classe, considerato che queste tre forme di oppressione erano presenti nella loro esistenza quotidiana e costituivano determinanti significative nella loro vita lavorativa.  

La sintesi di queste oppressioni crea le condizioni della nostra vita. […] Crediamo che la politica contro il sessismo sotto il patriarcato sia tanto pervasiva nella vita delle donne nere quanto la politica della classe e della razza. Troviamo anche spesso difficile separare la razza dalla classe e dall’oppressione sessista, perché nella nostra vita sono spesso vissute simultaneamente”.

Il principale nemico da combattere, affermava il collettivo, era il capitalismo ma finché il movimento di liberazione dei neri non si fosse accorto che sessismo, razzismo e classismo erano tre facce dello stesso dominio, la lotta non sarebbe stata completa e sarebbe risultata inefficace. Questo, però, richiedeva anche che la lotta di classe superasse il suo economicismo teorico tradizionale.

“Ci rendiamo conto che la liberazione di tutti i popoli oppressi richiede la distruzione dei sistemi politico-economici del capitalismo e dell’imperialismo così come del patriarcato ma il socialismo non basta, l’analisi di Marx deve essere ulteriormente estesa […]. Se le donne nere fossero libere, significherebbe che tutti gli altri dovrebbero essere liberi, poiché la nostra libertà richiederebbe la distruzione di tutti i sistemi di oppressione” (sempre dal Manifesto del Combahee River Collective).

Il Black Feminism degli anni Ottanta ha proseguito lo sviluppo di queste prime formulazioni del concetto di integrazione della lotta di classe, di genere e di “razza”. La maggior parte delle sue rappresentanti, Angela Davis, Audre Lorde, Patricia Hill Collins, bell hooks e molte altre, ha una chiara prospettiva rivoluzionaria. Il saggio di Davis Donne, razza e classe , considerato uno dei testi seminali del femminismo nero americano, analizza l’interconnessione dei rapporti di classe, razza e genere non solo nella loro dimensione soggettiva, ma anche sul piano del loro sviluppo all’interno dei rapporti di produzione capitalistici.

A Colette Guillaumin, una figura importante nel femminismo materialista francese, si deve un’analisi della “razza” e del genere come due diverse forme di naturalizzazioni di un dominio di origine sociale: è l’oppressione a creare categorie sulla base di semplici attributi personali che non dovrebbero avere alcun riflesso sociale; è l’ideologia della classe dominante che fabbrica un’idea di “natura” immodificabile che nasconde l’origine sociale dell’asimmetria di rapporti tra i gruppi1. Allo stesso tempo Guillaumin critica la tendenza della classe bianca occidentale a considerare il resto del mondo una propria periferia e quella del femminismo bianco a ritenere universali i propri modelli di emancipazione. Questo spiega perché il suo pensiero non trova quasi spazio nell’istruzione universitaria e nei centri di ricerca accademica italiani (e non solo), negli studi di genere in cui, invece, la teoria essenzialista della differenza occupa posizioni predominanti2 .  

Sul finire degli anni Ottanta Kimberlé Crenshaw, giurista nera americana, ha usato il termine “intersezionalità” in un articolo scritto per il Forum legale dell’Università di Chicago per mostrare l’insufficienza della politica del governo americano a favore della minoranza nera, invitandolo a non guardare al genere e alla razza come aggregato informe ed omogeneo se voleva fare giustizia alle donne proletarie di colore, che sperimentano forme di discriminazione sovrapposte. Il saggio ha avuto un grandissimo successo, non solo negli Usa, e nei decenni successivi la terza ondata (o quarta, se consideriamo come terza il black feminism americano) del femminismo occidentale ha ripreso il concetto di intersezionalità, tuttavia con un significato profondamente diverso, corrispettivo di una visione del mondo mutata, senza più rapporto con la politica di classe. 

La visione del femminismo mainstream 

Con la mondializzazione dell’economia e l’affermarsi della politica neoliberale, un’ideologia pervasiva che mette al centro il libero mercato, il profitto, il culto dell’individuo, opera una svolta reazionaria nella lettura della società e del conflitto sociale. Tra crisi economiche e ristrutturazioni del sistema produttivo, il movimento operaio, senza più difese da parte delle rappresentanze politiche e sindacali tradizionali, rallenta la sua dinamica, l’identità di classe comincia ad appannarsi tra gli stessi i lavoratori. La classe è sempre meno un riferimento nell’analisi della realtà sociale.

In questo quadro nascono numerose mobilitazioni femministe contro l’ondata di violenza dappertutto crescente nel mondo, per la conquista o la difesa del diritto all’aborto gratuito in ospedale, contro le diseguagliane di genere; una grande spinta dal basso proietta sulla scena internazionale lo sciopero sociale delle donne e apre un nuovo capitolo di mobilitazioni in molti paesi. Alcune organizzazioni femministe si definiscono “intersezionali”. Che cosa vuol dire, per loro?  Nulla che faccia pensare ad una eredità teorica dell’idea di convergenza delle lotte di genere con quelle di “razza” e di classe, che si era delineata in precedenza.

A titolo di esempio, in un testo del 2017 dell’organizzazione italiana Nudm si afferma che le persone nella società sono divise sulla base delle loro caratteristiche di genere, razza, abilità, età ed altre variabili soggettive; ognuna di esse si colloca lungo l’asse di una relazione interpersonale tra dominante e dominata/o  su uno di questi terreni specifici e ogni persona può essere interessata da più di un asse di oppressione e, quindi, la sua posizione individuale nella società si trova nel punto della loro intersezione. 

 “… Per liberarci dall’oppressione allora è fondamentale prima di tutto riappropriarci della nostra identità, partendo dall’idea che il nostro vissuto è valido tanto quanto quello altruiEcco che l’identità smette di essere la nostra natura che ci porta necessariamente alla sottomissione, per diventare uno strumento attivo di lotta politica. Quest’idea moltiplicata per tutti gli assi di oppressione e le loro intersezioni dà origine al femminismo intersezionale: una prospettiva politica che abbraccia molteplici lotte contro tutte le oppressioni possibili, senza imporre una gerarchia fra di esse ma rivendicando le specificità di ciascuna.”

E’ facile rinvenire, in testi come questo, le teorizzazioni di alcuni filosofi politici post-moderni (Foucault, Derrida), l’idea di un “potere istituzionale reticolare” che attraversa l’intero corpo sociale nelle mille relazioni della vita quotidiana. Le lotte che i singoli conducono lungo il loro asse specifico di oppressione non si incrociano tra loro e, non essendoci gerarchia tra le forme di dominio, non c’è fattore esplicativo o motore dinamico del sistema né visione strategica unitaria. Ma come si può combattere contro la sopraffazione senza ricondurne le cause al sistema che la produce? D’altra parte la classe, pensata in termini liberali, non è l’insieme collettivo unito da un interesse antagonista a quello dei capitalisti, è un gruppo di individui stratificato secondo criteri economico-statistici. Nella lotta contro il potere, non ha centralità teorica e pratica. 

All’intersezione dei propri assi relazionali, le persone sono centrate su se stesse, piuttosto che nella possibilità di un percorso comune con tutti gli altri soggetti dominati. Lungo l’asse di oppressione del genere, più delle rivendicazioni di ordine materiale (salute, lavoro, abitazione ecc.) diventa centrale il tema dell’identità sessuale. L‘accento è messo sulle persone LGBTQIA+ e il movimento prende la denominazione di “transfemminismo”, facendo spazio ad ogni collocazione rispetto al genere, in un elenco a cui si aggiunge il segno + per indicare la sua potenziale espansione.  

“Il transfemminismo è un movimento di resistenza e una teoria che considera il genere, arbitrariamente assegnato alla nascita, una costruzione sociale, strumento proprio di un sistema di potere che controlla e limita i corpi per adattarli all’ordine sociale eterosessuale e patriarcale. Il transfemminismo muove dalla materialità delle vite e delle esperienze trans, femministe e queer, dalla complessità e dalla molteplicità delle collocazioni di genere e sessuali e riconosce l’intreccio tra la matrice patriarcale e quella capitalista delle oppressioni che colpiscono tutte le soggettività che non sono maschi bianchi eterosessuali” (Dal Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne”, Nudm).

Il background teorico è il queer, un insieme di teorizzazioni, non sempre coerenti tra loro, emerse negli anni Novanta in alcuni circoli accademici americani e diffuse nei gender studies di una pletora di cattedre universitarie di molti paesi dell’Occidente. 

Che il genere sia socialmente costruito per finalità di dominio, è un’idea conosciuta da diversi decenni, a partire dal famoso saggio di Simone De Beauvoir sul “secondo sesso” ed anche il movimento femminista degli anni Settanta, pur senza mettere in discussione il precetto eterosessuale, criticò fortemente il modello tradizionale di “femminilità”, affermando il diritto di controllo sul proprio corpo e sulla propria sessualità. Ma il queer radicale considera il genere indipendente dal sesso biologico e lo stesso sesso biologico “imposto alla nascita”, come afferma Judith Butler, considerata l’iniziatrice di questa posizione, ipotizzando che ciascuno possa liberamente scegliere la propria caratterizzazione sessuale e la propria identità di genere. Questa posizione si è diffusa nel dibattito politico corrente sempre più estesamente, tanto che – anche in molti settori della sinistra politica – sembra impossibile poter nominare il femminismo senza aggiungere anche il “transfemminismo”, come se le donne fossero sfruttate e oppresse per ragioni di identità sessuale e non per il ruolo strutturale che rivestono nella riproduzione della società capitalistica e nella generazione della specie.

Le istanze LGBTQIA+ e gli obiettivi storici dei movimenti femministi appartengono ad un diverso spettro politico. Certamente il femminismo marxista si schiera dalla parte delle persone che rivendicano la libertà di essere se stessi, fuori del tradizionale modello eterosessuale. Le loro lotte si sono sviluppate a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso; una data significativa è il 1969, i moti di Stonewall, per lo più ricordati come rivolta del movimento omosessuale ma in cui ebbero un ruolo determinante Sylvia Rivera e la comunità trans, che già era stata protagonista di una sollevazione anni prima a San Francisco, mentre il gruppo lesbico Lavender Menace protestava contro l’invisibilità e l’esclusione dell’esperienza lesbica dal movimento femminista maggioritario di quel periodo. Erano tempi in cui all’omosessualità maschile si applicavano “terapie di conversione”  o di “riorientamento sessuale”, oggi al bando nella gran parte dei paesi, mentre l’omosessualità femminile veniva semplicemente ignorata e occultata. Le espressioni di genere e i caratteri sessuali sono ancora oggi causa di discriminazione, esclusione sociale ed economica, perfino di violenza, in moltissimi stati del mondo. Quale azione politica la visione queer prospetta per questo movimento?

Queer  è un termine di autonominazione, inclusivo, trasversale, che si focalizza sulla identità sessuale non in quanto realtà oggettiva ma come terreno mutevole, transitorio. Insieme di teorie e pratiche che sovvertono le regole delle opposizioni binarie (binarismo di genere, binarismo sessuale, ecc). Le teorie queer intendono la sessualità come un intreccio di sesso, genere e orientamento sessuale che viene costruita socialmente e costantemente riprodotta dai soggetti.” (Ancora dal “Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne”, Nudm)

Anche queste teorizzazioni hanno radici nel pensiero filosofico post-moderno che – sia pure in una grande varietà di approcci ed elaborazioni – è caratterizzato dal rifiuto delle grandi ideologie otto-novecentesche, mette in discussione il presupposto della conoscenza razionale della realtà, individua nella relatività e nella provvisorietà il carattere proprio della condizione dell’essere. Di conseguenza il queer afferma l’idea che gli uomini e le donne siano il prodotto di costrutti culturali – tanto che alcuni usano mettere questi termini tra virgolette – si è uomini o donne a seconda che ci si comporti da uomini o da donne nella cornice eterosessuale. L’individuo non ha una collocazione definita rispetto al genere, in una transizione anche mutevole nel tempo, da un sesso convenzionale ad un altro. Il sesso e il genere non sono che un punto di vista soggettivo, in un rapporto di pura arbitrarietà nei confronti del reale.

Si spiega la straordinaria importanza che viene attribuita al linguaggio. “Chi dice che esista una realtà oltre il linguaggio? Il linguaggio è la realtà!” Il linguaggio costituisce la realtà, piuttosto che essere espressione di rapporti sociali costituiti. L’idea è preesistente, la materia è sostanzialmente un effetto derivato da essa.   

La negazione della realtà al di fuori dell’intelletto non è una novità nella storia del pensiero occidentale: il queer si presenta come una variante dell’idealismo, in vesti più aggiornate, e sarebbe un errore sottovalutarne le potenziali derive reazionarie sul piano politico. Il marxismo è nato a partire dalla critica di Marx alla filosofia idealista, che attribuiva allo Spirito il primato nella creazione del mondo e della realtà; molte volte Engels e Lenin nelle loro opere hanno dichiarato l’inconciliabilità del marxismo con l’idealismo, anche per quello che riguarda il dibattito intorno alle scienze. Il materialismo riconosce che le nostre idee sono espressione dell’interazione sociale e del nostro rapporto con la natura, della quale facciamo parte.

Ma eliminare le categorie biologiche di donna e uomo, non elimina lo sfruttamento e i divari della realtà sociale. Focalizzarsi su un solo ambito dell’esistenza – la sessualità individuale – non comporterà azioni politiche efficaci per un cambiamento del sistema di relazioni sociali entro cui si vive, che continuerà a riprodurre i suoi meccanismi coercitivi, tutt’al più ci si potrà rifugiare in un’area a parte all’interno dello stesso sistema che si critica. La politica dell’identità pensata all’interno di questa logica ostacola la possibilità di una alleanza costruttiva tra i gruppi oppressi, necessaria alla lotta contro un capitalismo che non solo ha imposto il suo modo di organizzare il lavoro e lo sfruttamento delle risorse naturali, ha reso i corpi mezzi di produzione uniformati ad una precisa disciplina, privilegiando il maschio bianco, cisgender ed eterosessuale.  

Il femminismo marxista non ha modelli di comportamento sessuale da indicare. Nella società che vogliamo costruire nessuno dovrà essere per forza o bianco o nero, ci sarà spazio per le molteplici espressioni della personalità umana, oggi costretta nella miserabile gabbia degli stereotipi del “maschile” e del “femminile”, come li intende la cultura patriarcalista, per produrre gerarchie sessiste funzionali al capitalismo.  

Perciò combattiamo ogni forma di discriminazione e stigmatizzazione sociale dei soggetti che non si riconoscono nel modello eterosessuale, e siamo dalla parte di chi vive un’esistenza segnata dall’ esclusione, marginalizzazione, precarietà e dalla violenza anche mortale, come le persone LGBTQIA+ soprattutto se di origine proletaria. Alcune di loro giustamente colgono la connessione tra disuguaglianza di classe e gerarchia di status nella società contemporanea, cominciano a mettere in discussione una politica identitaria limitata all’obiettivo del riconoscimento, perché una politica dell’identità che chieda semplicemente un’estensione della democrazia liberale non può essere sufficiente che per alcune élite privilegiate, a cui già guarda un settore di costose cliniche specializzate e di case farmaceutiche che mirano ad un nuovo settore di mercato.

Dalla battaglia identitaria a quella di classe

Il femminismo materialista rappresenta una piccola corrente testarda in un fiume di femminismo liberale e idealista che sembra invalicabile.

Noi chiamiamo “genere” il complesso delle qualità ideali e dei comportamenti attesi dagli uomini e dalle donne, spacciati per naturali ma instillati dall’educazione e dai modelli sociali.  In questo senso il genere è il prodotto di una relazione sociale che, nella storia, ha assunto forme diverse in seno a società differenti.  La famiglia monogamica ed eterosessuale, con la sua ripartizione di ruoli di genere, si è costituita in un momento del passato in cui la società si è divisa in classi ed è nata la proprietà privata. Questa forma di convivenza si è rivelata utile per il capitalismo, per la sua esigenza di non pagare la rigenerazione quotidiana della forza-lavoro, perché a questo provvedevano le donne, sottoposte ad un imperativo che ne faceva un corollario obbligato del compito (questo sì) naturale di produzione della specie umana. Trattandosi di riproduzione di persone e non di merci, il lavoro di riproduzione sociale comprende la cura delle menti, delle relazioni, degli equilibri psichici dei membri della famiglia, anche questo indispensabile alla conservazione della società. 

Tuttavia il processo che scarica sulle donne l’enorme peso della riproduzione sociale non è avvenuto nell’identico modo nello spazio e nel tempo, non riguarda allo stesso modo tutte le persone, articolandosi anche secondo le linee della divisione di classe, ma in ogni luogo il principio binario si è affermato, a garanzia della gerarchia familiare e sociale.

Nei fatti oggi, almeno nell’area occidentale, non sono pochi rispetto al passato i cambiamenti di personalità e comportamento delle donne: una conquista di libertà che spesso pagano con la vita, o con altre forme di violenza subita, quando rifiutano la soffocante dedizione totale che il ruolo tradizionale richiede. Ma il capitalismo mostra la sua flessibilità: è permesso ad una élite essere donna in un modo diverso dalle prescrizioni tradizionali, purché il problema della riproduzione sociale continui a ricadere sulla dimensione privata senza disturbare l’ordinata prosecuzione della produzione. Un alto numero di donne ha avuto accesso a lavori tradizionalmente maschili, in cambio impiegando un crescente numero di proletarie immigrate nel lavoro domestico familiare, e la cooptazione negli ambiti politico-istituzionali dello strato sociale più privilegiato ha aperto la strada all’idea riformista del possibile miglioramento della condizione femminile nell’ambito del capitalismo. Il divario di classe e di ruolo segmenta pesantemente l’omogeneità sociale della condizione di genere.

Ma il dominio sulla grande massa delle donne è sempre al centro del sistema economico capitalistico, è radicato nella natura del mercato del lavoro salariato, forma storica dello scambio tra lavoro e mezzi di sussistenza. Diverse forme di famiglie si affiancano a quella nucleare tradizionale  – la famiglia di coppia senza figli, monoparentale, arcobaleno, single – accettate o tollerate purché svolgano il lavoro della riproduzione sociale, mentre i continui tagli della spesa pubblica smantellano il welfare e aggravano il peso del lavoro non pagato che grava su di loro. 

Questa realtà ci spinge a misurarci con la reale condizione di vita di questa massa e con la necessità di unire tutti gli oppressi e gli sfruttati in una lotta contro il governo e il sistema capitalistico nel suo insieme. Nell’acutissima fase di crisi plurali che abbiamo davanti, questo è anche l’unico antidoto alle macellerie sociali, alle guerre, al degrado umano. 

Ignorare la teoria della riproduzione sociale, per il femminismo significa non avere difese dall’irruzione di ideologie smobilitanti, allontanarsi dalle aspirazioni del movimento storico delle donne il quale, lottando per le sue rivendicazioni, ha sempre prodotto cambiamenti importanti nella società. 

Resta da dire che, sul piano internazionale, le donne lottano contro la barbarie del nuovo ciclo politico globale, formalmente non affiliate ad una organizzazione femminista ma ricche di una nuova consapevolezza di sé. In questa nuova “ondata” le abbiamo viste guidare mobilitazioni contro il governo dei loro paesi, come nelle grandi manifestazioni delle indiane contro le leggi agrarie di Modi, delle americane contro il sessismo di Trump, delle afroamericane contro la polizia razzista, delle brasiliane contro il fascista Bolsonaro, delle iraniane contro l’oppressione sessista degli ayatollah. Nel sud-est asiatico le lavoratrici tessili hanno incrociato le braccia nelle fabbriche dal salario di 2 euro al giorno.  In Polonia e in America Latina ci sono state innumerevoli mobilitazioni contro l’attacco al diritto di aborto e in Tunisia, India, Algeria, Bangladesh contro femminicidi e stupri. E vediamo le sollevazioni dei popoli autoctoni del Sud del mondo, di cui sono protagoniste le donne, che si oppongono all’appropriazione delle terre da parte delle grandi imprese occidentali dell’agrobusiness e alla devastazione ambientale dello sfruttamento minerario e delle grandi opere infrastrutturali.  

Ormai parliamo di “femminismi”, al plurale, distinti e storicamente situati.

  1. Guillaumin, Colette Sesso, razza e pratica del potere. L’idea di natura, Ombre corte 2020. Il volume raccoglie testi scritti da Colette Guillaumin tra il 1977 e il 1992, colma un vuoto esistente in Italia nel dibattito attorno al femminismo e al razzismo da un punto di vista materialista. ↩︎
  2.  La teoria essenzialista interpreta la categoria “donna” come un insieme omogeneo, la cui soggezione è la diretta conseguenza delle differenze intrinseche tra uomini e donne sul piano del modo di essere e di agire. ↩︎