“La burocrazia in Unione sovietica” di Aldo Bronzo, intervista all’autore

Dal riscontro di copertina
Più ancora della caduta del muro di Berlino del 1989, non c’è dubbio che la dissoluzione dell’Unione Sovietica, datata 1991, abbia lasciato incredule masse enormi di persone e non soltanto chi identificava sé stesso con il paese uscito vittorioso dalla grande rivoluzione socialista del 1917. Ma come è stato possibile che una grande potenza come l’Unione Sovietica, in grado addirittura di costringere all’annichilimento l’apparentemente invincibile esercito tedesco nel corso della seconda guerra mondiale, abbia potuto conoscere un simile processo involutivo?

Aldo Bronzo, con un’impressionante mole documentaria, affronta quella che resta una domanda cruciale tratteggiando la storia della burocrazia sovietica: un apparato che affonda le sue radici nella vecchia Russia zarista ma che, persino nel periodo post-rivoluzionario, ha continuato a difendere rendite di posizione destinate a sconfessare i dettami ideologici sovietici e finendo per preparare un destino di sconfitta in grado di sconvolgere i delicati equilibri geopolitici mondiali.

Aldo Bronzo, La burocrazia in Unione sovietica. Nascita, involuzione e crollo del paese dei Soviet, Red Star Press 2022

Intervista a cura di Fabrizio Burattini

Come mai hai ritenuto di dover affrontare di nuovo un argomento così lontano e soprattutto così già esplorato, in particolare nella letteratura del movimento trotskista e, più in generale, tra i marxisti rivoluzionari, con le opere di Mandel, di Broué, di Deutscher e di tanti altri e naturalmente dello stesso Trotsky?

Mi è sembrato opportuno riepilogare in maniera sistematica l’intera vicenda dell’Unione Sovietica, dalle origini fino al suo crollo, non fosse altro per sfatare l’assunto comunemente presente sul mercato secondo cui quella vicenda era destinata a finire inevitabilmente in maniera rovinosa per il carattere sostanzialmente utopistico dell’intero progetto. Di qui, centri di potere non proprio disinteressati invitano a getto continuo l’intero corpo sociale ad accettare “responsabilmente” l’ordine sociale e politico costituito e i conseguenti meccanismi produttivi in vigore, magari con l’impegno costruttivo a migliorare il tutto un po’ per volta. 

A me sembra invece che ai giovani che si battono per i problemi ambientali o occupazionali, o magari contro il militarismo, bisogna essere in grado di precisare che il loro impegno, per meritorio che sia, sarà effettivamente costruttivo solo se, in ultima analisi, saranno in grado di allargare il loro orizzonte politico, per delineare prospettive che comportino l’abbattimento dell’ordine costituito e la fondazione in sua vece di una società compiutamente nuova. Cioè una società autenticamente socialista. 

Ma per fare tutto ciò è indispensabile avvalersi di uno strumento critico radicalmente diverso da quelli correnti, cioè un’elaborazione che spieghi effettivamente perché l’Unione Sovietica che aveva conosciuto in termini complessivi un’eccezionale sviluppo delle forze produttive abbia dovuto registrare a partire da un certo momento in poi un arresto della sua crescita, e successivamente il tracollo. Chiarire questo, per me, è un dovere politico prioritario. Il mio lavoro vuole essere un contributo in questa direzione.  

Tu analizzi dettagliatamente il consolidarsi della casta burocratica alla metà degli anni Venti del Novecento e il parallelo imporsi della teoria del “socialismo in un paese solo”. Pensi che quel fenomeno abbia avuto una funzione determinante nell’uffuscamento di ogni prospettiva rivoluzionaria nei paesi a capitalismo sviluppato?

Assolutamente si. In concreto la burocrazia staliniana si forma come conseguenza del mancato scoppio della rivoluzione nei paesi a capitalismo avanzato. In pratica Stalin e soci avvertono come l’isolamento della rivoluzione vittoriosa in Unione Sovietica si configuri come l’elemento costitutivo basilare del formarsi dell’apparato burocratico in URSS. Di qui l’elaborazione teorica di sostegno, per così dire, relativa all’idea di costituire il “socialismo in un sol paese”, in aperta negazione di tutti i fondamenti teorici di fondo del marxismo e del leninismo. 

Ma di qui linee di tendenza estremamente contraddittorie: da un lato Stalin, a partire da un certo momento in poi, deve difendere lo stato operaio russo da quelle forze – come i kulaki o i nepmen –  che vorrebbero ristabilire il capitalismo in Unione Sovietica; dall’altro non vuole che la rivoluzione si affermi negli stati capitalisti perché questa generalizzazione minerebbe  le basi costitutive del potere burocratico in URSS. 

Questo spiega il comportamento che la dirigenza staliniana ha tenuto nel 1923 in Germania, in Cina nel 1927, in Spagna nel 1936 e nei confronti del movimento di resistenza antinazista. Nondimeno tutto ciò ha avuto nei tempi lunghi conseguenze catastrofiche per lo stato operaio russo, nella misura in cui proprio nel suo isolamento sono maturate le cause effettive del suo crollo.

Come mai un apparato come quello staliniano, che aveva avuto un ruolo assolutamente determinante nella sconfitta del nazismo, nell’allargamento della sfera di influenza russa dopo il 1945 e, seppur indirettamente, anche nelle vittorie rivoluzionarie in Jugoslavia e in Cina, e che dunque era all’apice della sua potenza, entra così rapidamente in crisi dopo la morte del suo leader, con il processo di “destalinizzazione”, con il XX Congresso del PCUS, con la crisi ungherese?

Stalin, dopo madornali errori di valutazione preventiva, fu costretto ad opporsi ad Hitler e, giovandosi di una straordinaria mobilitazione popolare, riuscì a sconfiggerlo, magari ricorrendo all’utilizzo di personale tecnico e militare che fu costretto a cavar fuori dai reclusori siberiani dove al momento dei processi moscoviti erano stati spediti in quanto possibili alternative all’autorità sufficiente del “Piccolo Padre”. 

Nondimeno i due grandi processi rivoluzionari che caratterizzeranno la fine del II conflitto mondiale – la Cina e la Jugoslavia – si realizzarono in aperto contrasto alle direttive staliniane. E questo perché l’isolamento in ultima analisi era assolutamente fondamentale per Stalin per difendere il ruolo privilegiato della casta burocratica entro i confini nazionali, magari preferendo allargare le proprie propaggini egemoniche nei paesi dell’Est europeo con l’ausilio dell’Armata Rossa dopo gli accordi di Yalta. Solo che alla lunga questo isolamento è stato letale, perché restringendo l’esperienza “socialista” nei soli confini nazionali si sono spaventosamente acuite le contraddizioni strutturali della gestione burocratica del potere. 

Più in dettaglio in tutta una prima fase caratterizzata necessariamente dallo sviluppo puramente estensivo delle forze produttive – cioè l’industria pesante – l’apparato burocratico veniva svolgendo un ruolo per così dire solo parzialmente negativo in relazione alla crescita economica che si manifestò in termini comunque estremamente accelerati. Tuttavia per la dirigenza poststaliniana questi problemi assunsero una valenza enormemente maggiore in quanto risultava indispensabile ora passare ad uno sviluppo “intensivo” delle forze produttive, cioè basato sull’applicazione di tecnologie avanzate che rendessero produttive le singole attività lavorative. E questo per la burocrazia era assolutamente impossibile. In pratica la burocrazia sovietica si è progressivamente trasformata da elemento solamente frenante dello sviluppo economico ed economico in un ostacolo in assoluto.

Quale nesso vedi tra la storia della burocrazia sovietica, di cui ricostruisci in modo così dettagliato il trionfo, il declino e la fine, e il comportamento attuale della leadership russa, negli ultimi trent’anni e, in particolare, nella attuale crisi ucraina?

L’attuale dirigenza russa ha motivazioni e collocazioni strategiche tutte proprie, derivanti dalla sua connotazione socio-politica. Tuttavia permane la totale opposizione nordamericana che ha analogie con quella della dirigenza di Washington nei confronti della leadership sovietica di Stalin e dei suoi posteri. A mio avviso in questa fase  presso la dirigenza americana permane il timore del costituirsi di un asse russo-cinese che mandi a monte – o determini vistose contrazioni – dell’abituale ricorso ad dollaro come moneta di scambio internazionale, con conseguente flessione della consolidata  egemonia USA. Di qui l’attivismo crescente e non proprio amichevole della NATO, le esercitazioni dei suoi eserciti in territorio ucraino in prossimità dei confini russi e la folle reazione di Putin e dei suoi.