Le radici della crescita della destra in Italia – 1

Abbiamo già argomentato in un articolo scritto “a caldo”, subito dopo la pubblicazione dei risultati elettorali, il nostro giudizio su quei risultati, che abbiamo definito “non sorprendenti ma comunque dirompenti”. Vogliamo ora tentare di analizzarne le radici, sui vari piani. Iniziamo cercando di analizzare quella che è ormai diffusamente chiamata la “crisi della democrazia”.

La crisi della democrazia

di Fabrizio Burattini e Umberto Oreste

Il termine “democrazia” è universalmente uno dei più abusati. Si arriva al paradosso di partiti che dietro questo termine espongono culture politiche e progetti esplicitamente autoritari. L’esempio di ciò che più corre alla mente, proprio per la sua attualità politica, è quello del partito dei “Democratici Svedesi” (in svedese Sverigedemokraterna) fondato nel febbraio del 1988 da un gruppo di attivisti dichiaratamente neonazisti e “suprematisti bianchi”, i più anziani dei quali erano stati attivi nei partiti nazisti svedesi prima della Seconda guerra mondiale e che, addirittura, si erano arruolati come volontari nelle SS tedesche. 

Questo abuso si basa sulla difficoltà a rispondere alla domanda “Che cos’è una democrazia”, dato che la risposta semplicistica secondo cui essa sarebbe un sistema di governo in cui a tutti i cittadini è concesso di votare ha ampiamente mostrato la sua inefficacia: peraltro nella storia sono numerosissimi gli esempi di regimi ultra-autoritari che sono stati inizialmente “legittimati” dal voto popolare. 

Al di là del richiamo alla presunta “democrazia” ateniese (in realtà un modo di produzione maschilista e schiaviasta), la “democrazia” nella storia non è mai stata la forma di governo più diffusa. Gli storici ci dicono che nel 1941 i paesi che più o meno legittimamente potevano definirsi “democratici” erano solo 11: Finlandia, Islanda, Irlanda, Svezia, Svizzera, Regno Unito, Australia, Canada, Nuova Zelanda, Stati Uniti e Cile.

Il trionfo del “modello democratico”

I successi conseguiti nei decenni successivi dal “modello democratico” sono dovuti in particolare al fatto che questo “modello” si è in genere associato all’immagine di società mediamente più ricche, meno sconvolte da guerre, generalmente o almeno apparentemente meno corrotte, con cittadine e cittadini che diffusamente potevano sperare in una dinamica di “crescita” e di “miglioramento” delle condizioni di vita per loro stessi e per i loro figli, società che, in maniera più o meno efficace, riuscivano a cancellare il fatto che il loro relativo benessere si basava anche su secolari esperienze di sfruttamento coloniale o neocoloniale di altri paesi “meno fortunati”.

Nel corso della seconda metà del XX secolo, la “democrazia” ha sconfitto la Germania nazista e l’Italia fascista, si è insediata in paesi precedentemente autoritari, come la Spagna, il Portogallo, la Grecia, o come  l’India postcoloniale, ha eliminato l’odioso apartheid sudafricano, ha raggiunto molti paesi in Africa e Asia e ha “garantito” nell’Europa occidentale per più di 70 anni una pace stabile e duratura. Verso la fine del “secolo breve”, poi, ha riportato il successo per lei storicamente più significativo, con la caduta dell’URSS e degli altri regimi “comunisti” dell’Europa dell’Est.

La democrazia come effetto delle lotte

Dopo la Seconda guerra mondiale i sistemi democratici dell’Occidente nel governare lo sviluppo capitalista, sotto la spinta delle classi lavoratrici, ne distribuivano parte dei benefici ai ceti popolari, le società sembravano più prospere, più colte e più libere, le disuguaglianze sembravano ridursi lentamente ma apparentemente in modo irreversibile e si assisteva ad una mobilità sociale dal basso verso l’alto certamente limitata, ma senza precedenti nella storia. La straordinaria stagione delle lotte operaie e di massa degli anni Sessanta e Settanta è coincisa con il periodo del “trionfo” della “democrazia liberale”. 

Dunque, quel “trionfo storico” del modello “democratico” si è affermato in un periodo di un avanzamento delle masse popolari sia in Occidente che nei paesi coloniali e l’affermazione di quel modello è uno dei risultati della lotta di classe e non un evento storico indipendente, dovuto alla “forza intrinseca” della “democrazia”. 

Sono state proprio la progressiva sconfitta delle lotte operaie dagli anni Ottanta in poi e la ripresa di controllo da parte delle forze capitalistiche che hanno determinato la crisi e il declino di quel modello. E la ricerca da parte del capitalismo della ricostituzione dei margini di profitto a scapito dei lavoratori determina un ulteriore e grave regresso del “modello democratico”. 

La rivoluzione passiva anche sul piano della democrazia

In Italia, il discredito della classe politica ha trascinato con sé il discredito della politica stessa, senza essere contrastato dai partiti “di sinistra”: è a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta (proprio quando sul campo venivano travolti alcuni fondamentali bastioni della lotta delle classi popolari (la scala mobile dei salari, l’organizzazione operaia nelle grandi fabbriche, ecc.) che prende piede l’idea di una “riforma istituzionale” e costituzionale in senso efficientistico. Certo, il “sogno” di “un uomo solo al comando” che riesca a dominare la dialettica politica aveva già conquistato il “socialismo” craxiano con il suo “decisionismo”, ma ha fatto breccia in primo luogo nella destra (Berlusconi, Fini, ecc.), che rispolverò, “modernizzandolo”, il progetto presidenzialista funzionale ai poteri forti custodito per lungo tempo dal solo Movimento sociale di Almirante. Il presidenzialismo diventò allora il cavallo di battaglia di Forza Italia, ma i “postcomunisti” non si tirarono indietro e, soprattutto con D’Alema, mostrarono tutta la loro disponibilità a discuterne. Il modello gollista francese (pur con tutte le correzioni italiche possibili) cominciò a fare proseliti, assieme ad argomenti come la necessità di dare “maggiori poteri al primo ministro”, la “sfiducia costruttiva”, il superamento del “bicameralismo perfetto”, ecc.

E’ così che si è arrivati in Italia alla diminuzione del numero dei parlamentari, al “pareggio di bilancio” in Costituzione, a leggi elettorali sempre più truffaldine, ai progetti presidenzialisti, alla voglia di monocameralismo, al disegno della “autonomia differenziata”, in un’unica e contestuale sequenza di attacchi ai diritti dei lavoratori e alla democrazia. Attacchi alla democrazia che disgregano la società nel suo complesso, contrapponendo i vari settori produttivi, finanza e produzione, territorio e territorio, nonché individuo e individuo e creando individualismi violenti, alienazione, irrazionalismo. 

Non a caso emergono ipotesi autoritarie “a fini democratici”. Si prende atto del fatto che le masse non sono più in grado di esercitare la democrazia e sono sempre più numerosi coloro che si chiedono se sia “giusto” far dipendere il “prezioso e delicato” governo del paese da un elettorato in larga parte volubile, distratto, demotivato e disincantato. Con il risultato di introdurre argomenti che negano alla base la stessa idea del suffragio universale.

Paradossalmente, anche il sostenitori più lucidi del capitalismo si rendono conto che in questo contesto il sistema rischia di conoscere una patologia distruttiva.

Dal trionfo alla crisi

Oggi, dunque, la famosa frase di Woody Allen (“Dio è morto, Marx è morto… E anch’io oggi non mi sento molto bene”) può essere non abusivamente riscritta: “il socialismo è morto, ma anche il liberalismo non si sente tanto bene”.

All’inizio dell’attuale secolo, in tutto il mondo “capitale dopo capitale” (lo scriveva l’Economist in un noto articolo del 2014) “la gente si riuniva a protestare nelle piazze. I regimi dittatoriali o comunque non pienamente democratici reagivano con violenza, ma perdevano il controllo di fronte alla fermezza popolare e alle proteste”. Si riferiva alle “primavere arabe” (in Tunisia, in Egitto, in Libia, in Siria e, in qualche modo anche in Yemen, nel Sudan, in Libano, ecc.) e a quelle “colorate” in vari paesi delI’ex blocco sovietico (Georgia, Kirghizistan, Azerbaigian, Bielorussia e perfino in Mongolia, oltre che, quella “arancione”, la più nota, in Ucraina).

Sono state tutte vicende, naturalmente con storie e protagonisti diversissimi, condotte nel nome della “democrazia”. E, in modo brutalmente diretto (l’esempio più sanguinoso è quello siriano) o in maniera più subdola, sono state tutte sconfitte, con economie ancor più disastrate delle precedenti, disuguaglianze peggiori, governi non molto migliori, speranze crudelmente frustrate. Con il risultato che molti di coloro che si erano battuti contro le dittature per creare nuove “democrazie” hanno legittimamente raggiunto la conclusione di aver sbagliato strada.

Questo bilancio negativo viene avvalorato dal fatto che, anche in quei paesi in cui la “democrazia” è più solida e longeva, il “modello democratico” più che fondatamente non è più identificato con un benessere e una giustizia sociale diffusa e in crescita, ma viene associato a crisi e fallimenti economici, a sistemi politici disfunzionali e inefficienti, a corruzione e a prepotenze. Di fronte alla devastante crisi economica e finanziaria del 2007-2008, i sistemi politici dell’Occidente hanno ovunque e platealmente dimostrato tutta la loro incapacità e perfino la loro non volontà di affrontare la situazione, hanno appoggiato e aiutato il sistema economico e bancario responsabile della crisi, minando agli occhi dei propri cittadini e del resto del mondo l’immagine di forza e di efficacia di quel “modello”.

L’affermarsi di altri “modelli”

E questo, peraltro, non si è prodotto nel vuoto, perché contemporaneamente (sempre in quegli anni) il “modello” cinese ha dimostrato l’inconsistenza dell’associazione tra crescita economica e democrazia, accumulando tassi di sviluppo molto superiori a quelli degli Stati Uniti dei tempi migliori, rafforzando l’idea che il “modello autoritario” (rigido controllo dall’alto sull’economia e su tutta la società) sia meno impotente e più efficiente della democrazia. Peraltro non dobbiamo nasconderci che, nonostante le limitazioni delle libertà personali, il controllo sul diritto di opinione, la censura, la repressione del dissenso, e nonostante i poco conosciuti episodi di lotte sindacali, e i ricorrenti episodi di ribellione che spuntano ogni tanto qua e là nella sconfinata società cinese, il consenso di quel popolo verso il sistema politico che lo governa non sembra affatto scemare, anzi.

Marx in “Forme economiche precapitaliste” parlava di un “modello di produzione asiatico” (storicamente molto diffuso in Asia e nell’America precolombiana, parzialmente presente negli “imperi ottomano e russo”. Una forma di produzione basata su una formale comunità dei mezzi di produzione, ma sul trasferimento di prodotti ad una centrale estremamente autoritaria, che, in qualche modo, ricambiava le masse produttrici espropriate gestendo un sistema amministrativo centralizzato e estremamente efficiente, che assicurava la circolazione dei beni e il sostegno in caso bisogno. Quel modello è oggi rintracciabile nelle moderne autocrazie che poggiano i loro “successi” e comunque la loro esistenza su di un consenso, o quanto meno sull’indifferenza delle masse popolari fintanto che non intervengano elementi sconvolgenti come ad esempio una guerra (come avvenne in Russia con la guerra con il Giappone nel 1905 e poi con la Prima guerra mondiale nel 1917).

L’Economist, nell’articolo citato, arriva a dire che “la democrazia sta distruggendo l’Occidente, perché istituzionalizza l’impasse decisionale, impoverisce i processi di decisione e promuove leader mediocri come George W. Bush … la democrazia complica cose semplici e permette ai politici di ingannare la gente”. Il modello cinese fa proseliti in giro per il mondo, soprattutto in quello che un tempo veniva definito “terzo mondo”, ben sapendo che quel modello può funzionare anche se lo strumento politico di potere non si richiama (d’altra parte ormai del tutto abusivamente) al “comunismo”.

I clamorosi fallimenti delle guerre statunitensi in Afghanistan e in Iraq, guerre che vennero motivate con lo slogan della “esportazione della democrazia”, hanno convinto il mondo di quanto quella “democrazia” fosse solo un alibi per le ambizioni imperialiste a stelle e strisce. E il caos in cui sono ancor più precipitati l’Afghanistan e l’Iraq spingono a pensare che la democrazia in fin dei conti genera instabilità, che essa non sia affatto quella “aspirazione universale” a cui tutto il mondo tenderebbe come predicavano Bush e Blair. O perlomeno che la democrazia sia un “lusso” riservato ai popoli “benestanti” e che non possa funzionare in determinati contesti.

Un declino che sembra generalizzato

Ma anche in quei “determinati contesti”, le cose non vanno bene per niente. 

Negli Stati Uniti, la democrazia è diventata sinonimo di inefficienza politica e economica. La crescita del trumpismo si basa anche su questo. E, anche ignorando la crescita della destra negli ambienti dei “ceti medi” statunitensi, la disillusione verso la “democrazia” cresce anche e soprattutto negli strati sociali più disagiati, alimentando anche lì l’impressione che la democrazia sia una cosa in vendita a chi ha i soldi per comprarla.

Il discredito della “democrazia americana” è enormemente diffuso all’interno della società statunitense, come dimostrano da un lato gli avvenimenti di Capitol Hill del 6 gennaio del 2021 e dall’altro lo straordinario movimento di Black Lives Matter.

Né le cose vanno meglio nell’Unione Europea. L’euro è precipitato sui bilanci economici delle famiglie sulla base di decisioni prese da tecnocrati, mentre, in tutte le occasioni nelle quali i cittadini sono stati consultati, in maniera varia e con quesiti formulati in modo molto diverso (in Danimarca, in Svezia, in Francia, in Irlanda), hanno prevalso i contrari. A tutto ciò va aggiunto l’esito del referendum britannico sulla “brexit”.

Né va trascurato come la UE abbia del tutto trascurato il “suo” modello democratico quando ha costretto l’Italia (con l’imposizione del governo Monti e il diktat di Draghi e di Trichet del 2011) e la Grecia (nel 2015) a contraddire scelte democraticamente assunte.

Il modello un tempo trionfante della “democrazia occidentale” (“La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”) è entrato in lampante contraddizione con la globalizzazione che ha colpito e reso più deboli e meno indipendenti le politiche nazionali, il tutto a favore di istituzioni “sopranazionali” senza alcuna legittimazione democratica, o, peggio ancora, dei “mercati”. Il declino dello stato-nazione (sul quale la democrazia moderna era stata edificata a partire dal XVIII secolo, che prevedeva un’etnia dominante e minoranze etniche marginalizzate) ne ha accelerato e reso sempre più profonda la crisi. La gente capisce benissimo che i programmi che i partiti presentano per le elezioni sono un collage di promesse fatte su temi che ormai non dipendono più da loro.

E le cittadine e i cittadini sanno che, per quel poco che contano, gli strumenti per esercitare una qualche influenza sulle decisioni politiche sono molto più le lobby, le associazioni di interessi, i gruppi di pressione, perfino le petizioni online, piuttosto che la partecipazione ogni cinque anni alle elezioni. Il processo elettorale parlamentare, con le sue scadenze e i suoi riti, appare sempre più anacronistico e rigido. L’Economist (in un altro più recente articolo) afferma che “la democrazia rischia di fare la fine dei negozi di dischi ai tempi di Spotify e iTunes”.

L’incompatibilità con il capitalismo

Ma i colpi maggiori che minano la credibilità della “democrazia” sono strutturali, legati al “modello economico” capitalista e al suo carattere intrinsecamente non democratico, tanto meno democratico quanto meno tenuto sotto pressione dalle lotte dal basso. Il “modello” si è separato dall’idea di una società che fondatamente promette ai suoi cittadini, a tutti i suoi cittadini, un futuro migliore del presente. Si assiste ad una “democrazia” che si associa a povertà e disuguaglianze violentemente crescenti, ad una politica priva di fondi per rispondere ai bisogni della gente perché le risorse sono sempre più destinate al privato (banche, imprese, gruppi di interesse) piuttosto che al “bene pubblico”.

E’ stata persino criminalizzata l’acquisizione del consenso attraverso la proposta di politiche economiche particolari. E’ emblematica la grottesca accusa di “voto di scambio” avanzata nel corso della recente campagna elettorale italiana nei confronti del Movimento 5 Stelle a causa della sua volontà di “difendere a tutti i costi” il reddito di cittadinanza.

L’importanza della “questione democratica”

La sinistra, e in particolare quella che si è autodefinita “comunista”, nel corso della sua storia ha avuto sempre un rapporto difficile con la questione democratica. Ha condotto lotte fondamentali e sanguinose (a volte vittoriose a volte perdenti) contro regimi autoritari e dittatoriali. Basti pensare (per limitarsi al Novecento) alla guerra di Spagna o alla resistenza antifascista. Ma ha il più delle volte banalizzato la mortifera soppressione di ogni forma di democrazia nei paesi in cui era giunta al potere.

Con questo comportamento, stridentemente contraddittorio, ha avallato l’idea di un movimento comunista per il quale la lotta per la democrazia non costituisce un obiettivo in sé, per quanto collegato all’altro fondamentale obiettivo della giustizia sociale, ma è solo uno strumento per una più agevole lotta per la conquista del potere. D’altra parte, in quella sinistra ha cominciato ad essere usato il termine “democraticismo” per sottolineare il carattere “accessorio” e “illusorio” delle aspirazioni democratiche delle masse e per evidenziarne la subalternità alla propaganda e alla ideologia “democratica” delle classi dominanti.

I “classici” e la democrazia

Naturalmente non vogliamo qui trascurare la critica che Marx e tanti altri marxisti fecero della democrazia. Marx in particolare non sviluppò mai in maniera esauriente la sua concezione della democrazia. Nella Critica del Programma di Gotha, il regime politico tedesco viene caratterizzato così: “uno Stato che non è altro se non un dispotismo militare, mascherato con forme parlamentari, mescolato con appendici feudali, influenzato già dalla borghesia, tenuto assieme da una burocrazia, difeso con metodi polizieschi”. Nei suoi scritti sulla Rivoluzione francese del 1848, Marx segnalò che la democrazia era la forma migliore di dominazione della borghesia.

Ma nel Manifesto scrive: “Il primo passo nella rivoluzione operaia è l’elevarsi del proletariato a classe dominante, la conquista della democrazia”, indicando dunque quest’ultima come una delle finalità centrali del socialismo marxista.

Lenin stesso, nel suo Stato e rivoluzione, che è il suo scritto più completo contro le forme di dominazione politica sulle masse popolari, dice testualmente: “In regime capitalistico, la democrazia è ristretta, compressa, monca, mutilata, da tutto l’ambiente creato dalla schiavitù del salario, dal bisogno e dalla miseria delle masse”.

Ancora più chiara e polemica perfino nei confronti dei compagni rivoluzionari russi vittoriosi fu Rosa Luxemburg, che nel suo “La rivoluzione russa” scrisse: “Sicuramente ogni istituzione democratica ha i suoi limiti e i suoi difetti, come tutte le istituzioni umane. Ma il rimedio trovato da Lenin e Trotsky – sopprimere la democrazia in generale – è ancora peggiore del male che si deve curare, perché ostruisce proprio la fonte viva dalla quale possono venire le correzioni alle imperfezioni congenite delle istituzioni sociali”.

La Quarta Internazionale e la democrazia

Resta che il nodo dell’approccio alla questione democratica non è stato chiarito in modo esauriente dai “classici” e dunque, nel 1985, non casualmente mentre il “socialismo reale” si apprestava a soccombere, la Quarta Internazionale, su impulso soprattutto di Ernest Mandel e di Daniel Bensaid, aprì un approfondito dibattito sulla questione, che portò all’approvazione nel 12° congresso mondiale di un complesso documento (“Dittatura del proletariato e democrazia socialista” – qui il testo completo in francese, qui in inglese), nel quale si recita così:

“I diritti democratici di cui godono le masse sotto il capitalismo – dalla libertà di parola alla libertà di organizzare sindacati e partiti operai, fino al diritto al suffragio universale e all’aborto libero – sono stati conquistati attraverso la lotta di massa. I marxisti-rivoluzionari lottano per le più ampie libertà democratiche possibili sotto il capitalismo. Quanto più ampie sono queste libertà, tanto maggiori sono le possibilità dei lavoratori e dei loro alleati di lottare per i loro interessi, di migliorare i rapporti di forza tra le classi a favore del proletariato e quindi di ingaggiare la resa dei conti finale con i capitalisti nelle migliori condizioni. L’interesse di classe dei lavoratori implica quindi la lotta per difendere ogni conquista delle masse, compresa quella delle libertà democratiche, contro la reazione borghese. La storia ha dimostrato che la classe operaia è l’unica in grado di condurre questa lotta fino in fondo e che il fronte unito dei lavoratori è lo strumento migliore per organizzare con successo tale lotta contro la minaccia di dittature fasciste o militari … L’estensione dei diritti e delle libertà democratiche di cui godono le masse in un dato momento in un dato paese è determinata dai rapporti di forza tra le classi … La tendenza storica generale è quella di ridurre le libertà democratiche delle masse … la classe borghese si trova in una crisi economica e sociale più acuta e le sue basi e riserve materiali sono più ridotte”.

La conclusione del documento è il rigetto di qualunque concezione della società postcapitalista come una società nella quale le libertà democratiche siano soffocate, appaiano anche solo messe in discussione o comunque più ristrette di quelle che le masse sono riuscite a conquistarsi nell’ambito del capitalismo, quindi: no al partito unico, no ai sindacati di stato, no alla restrizione della libertà di autorganizzazione, di stampa, di riunione, ecc.

Rimettere la questione all’ordine del giorno

L’argomento è importantissimo in questa fase e deve essere affrontato nell’approfondimento teorico e nella pratica di lotta. Il vecchio rifiuto del “democraticismo” va profondamente riconsiderato, va evitata ogni idea di difesa della democrazia astratta, ma vanno denunciate puntualmente tutte le azioni che il capitale, di fronte alla sua crescente difficoltà di “gestione democratica”, assesta a tutte le conquiste democratiche delle lotte dei secoli e dei decenni scorsi.

La parola “democrazia”, l’abbiamo già detto, è abusata, in sé non significa niente, non a caso persino la destra ha cercato di recuperarla stravolgendola in senso “sovranista”. Occorre specificarne i contenuti, rispetto ai rapporti di produzione, nella dinamica dello scontro di classe e nella prospettiva di un’alternativa complessiva. 

La questione democratica deve, infine, trarre linfa di sviluppo dall’estensione della partecipazione dal basso in ogni campo dell’agire collettivo, a cominciare dal mondo del lavoro, dove deve essere ripreso il concetto di rappresentanza dei lavoratori nella produzione e dove le stesse strutture sindacali devono ritrovare regole di più ampia partecipazione. Lo stesso vale per le strutture politiche e per i movimenti sociali, anche a sinistra: i partiti sono gestiti in modo sempre meno democratico; prevale spesso un verticismo che esclude ogni protagonismo degli iscritti fino a cancellarne l’esistenza organizzata. Non si può lottare per la democrazia nelle istituzioni se non la si pratica nel profondo del corpo sociale.