Il paese dei presidenti

di Fabrizio Burattini

Questo articolo è stato pubblicato in francese su alencontre.org

Il 3 febbraio, a distanza di sette anni esatti dal suo precedente insediamento alla presidenza della Repubblica italiana, Sergio Mattarella ha pronunciato il suo discorso di reinsediamento nella stessa carica per altri sette anni. Per lunghi anni Mattarella fu un esponente di secondo piano della corrente della cosiddetta “sinistra” democristiana, che dagli anni 90 in poi sostenne e partecipò ai governi di centrosinistra e che infine, nel 2007, confluì, assieme ai reduci dal disciolto Partito comunista, nel Partito democratico.

Quando nel 2015, il presidente Giorgio Napolitano (allora novantenne) si dimise dal suo secondo mandato, il PD, che in quella fase era dominato dalla corrente di Matteo Renzi, decise di proporre come presidente proprio Sergio Mattarella. 

Il ruolo di presidente della Repubblica è sì quello di capo dello stato e di “rappresentante dell’unità nazionale”, e di garante della Costituzione, ma costituisce un potere “neutro”, al di fuori della tripartizione dei poteri (legislativo, esecutivo o giudiziario). Il testo costituzionale circoscrive rigidamente i suoi poteri sul piano politico a ben precise situazioni eccezionali: è chiamato a sottoscrivere eventuali dichiarazioni di guerra, su mandato del parlamento,  e a detenere il comando formale delle forze armate, può rinviare al parlamento leggi di cui non ritiene fondato il rispetto costituzionale, inviare messaggi, nominare il presidente del consiglio dei ministri dopo aver consultato i rappresentanti dei gruppi parlamentari e sciogliere il parlamento e indire nuove elezioni nel caso in cui ritenga non possibile la formazione di un governo.

In ogni caso il presidente della repubblica, essendo eletto dal parlamento in seduta congiunta (senatori e deputati più rappresentanti delle 20 regioni italiane), è sempre stato espressione della maggioranza politica al potere nel paese al momento della sua elezione. Ma il parlamento eletto nel 2018 per la XVIII legislatura rappresenta in modo plastico la crisi della rappresentanza politica e del sistema dei partiti su cui si basa lo stato italiano postfascista: non solo perché è saltato qualunque schema di alternanza bipolare possibile e si è instaurato un parlamento sostanzialmente tripartito, ma anche perché gli equilibri politici registrati nel 2018 e cristallizzati nei gruppi parlamentari allora eletti sono profondamente rimessi in discussione non solo dai risultati dei sondaggi, ma anche da quelli più sostanziali delle elezioni europee, regionali e comunali. Il consenso attorno al Movimento 5 Stelle che nel 2018 era attorno al 33% ora si colloca tra il 10 e il 15%, la destra che nel 2018 era dominata dalla Lega di Salvini, oggi registra la travolgente ascesa di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.

In questo quadro parlamentare tutti i commentatori ritenevano molto ardua la possibilità di individuare il nome di un esponente politico da eleggere come nuovo presidente. Molti proponevano l’elezione a presidente dell’attuale capo del governo, Mario Draghi, ma a scoraggiare tale scelta era il timore che poi, rimosso Draghi dal ruolo di presidente del consiglio dei ministri, non si riuscisse a trovare più una figura altrettanto autorevole e accreditata tale da ricomporre la sconclusionata maggioranza di governo che raccoglie tutti i gruppi presenti nel parlamento (esclusa l’estrema destra di Giorgia Meloni e una minuscola pattuglia di deputati di sinistra).

Sergio Mattarella, nel corso del suo ultimo anno di presidenza, quando alcuni esponenti politici ventilavano l’ipotesi di una sua rielezione, non solo aveva più volte escluso la sua disponibilità, ma aveva perfino solennemente considerato che un secondo mandato, pur se non esplicitamente vietato dal testo costituzionale, fosse istituzionalmente improponibile.

Ma il parlamento, nonostante tutto ciò, non è riuscito ad eleggere nessun altro esponente e alla fine i leader dei vari partiti hanno invitato Mattarella a recedere dal suo diniego e ad accettare la rielezione, cosa che è avvenuta a stragrande maggioranza il 29 gennaio con 759 voti a favore su 1009, dopo sei giorni di votazioni andate a vuoto.

La rielezione di Mattarella ha costituito l’ennesima riprova dello stato di salute del sistema politico borghese in Italia. Una crisi in cui la Repubblica italiana si dibatte da decenni, perlomeno da quando negli anni 80 del secolo scorso anche nel nostro paese è stata adottata la svolta neoliberale che già era stata sperimentata in America latina, negli USA di Reagan e nel Regno unito della Thatcher. La politica neoliberale che si basa sull’esplicita centralità degli interessi padronali ha definitivamente messo in discussione quel delicato sistema di gestione del consenso popolare su cui si era retto il sistema politico italiano nel trentennio di dominio democristiano. Un sistema basato sull’accettazione di significative riforme sociali volte a contenere le lotte operaie e popolari e su un parallelo diffuso costume clientelare di acquisizione del consenso in strati sottoproletari e piccolo borghesi (significativamente importanti in Italia). Contemporaneamente agivano per organizzare il consenso (e il complementare dissenso) i “partiti di massa”, la Democrazia cristiana da un lato e il Partito comunista (e in parte quello socialista) dall’altro, con i loro milioni di iscritti capillarmente presenti e attivi in tutto il paese.

La politica del “compromesso sociale” è ormai archiviata da decenni e i partiti di massa si sono trasformati negli odierni comitati elettorali, privi di significative basi sociali e provvisti solo di legami più o meno sotterranei con le varie lobbies economiche padronali.

Inoltre c’è un evidente problema di incoerenza istituzionale. La Costituzione del 1948 aveva costruito un’architettura istituzionale basata su una legge rigorosamente proporzionale, mentre dal 1993 (proprio a partire dalla “proposta Mattarella”), le leggi elettorali sono state sempre di impianto maggioritario. Non a caso da anni e da varie parti si avanza la proposta di una profonda riforma costituzionale in senso presidenzialista, sostanzialmente sul modello francese. Ma le riforme costituzionali (proprio in base alle norme del 1948) sono estremamente complesse da far approvare e, inoltre, sono a rischio di referendum. Gran parte delle forze politiche di tutti gli schieramenti vorrebbero una riforma di quel tipo, non una riforma per rendere la legge elettorale coerente con la costituzione, ma per rendere la costituzione coerente con la logica maggioritaria e antidemocratica della legge elettorale.

D’altra parte, per la costituzione francese della “Quinta repubblica” ci fu bisogno di passare attraverso il golpe del maggio 1958 e i “pieni poteri” di Charles De Gaulle. Ma in Italia, oggi, è difficile immaginare colpi di mano di quel genere. Draghi e Mattarella magari vorrebbero essere i De Gaulle dell’Italia ma, nonostante l’impegno della grande stampa e delle Tv non godono certo del prestigio, dell’autorità e della libertà di azione che aveva il generale francese.

E’ per questo che i commentatori hanno adottato la formula della “democrazia bloccata”, commissariata dall’alto. La rielezione del presidente sancisce che la democrazia italiana si riduce al binomio Mattarella (garante politico) e Draghi (garante verso i mercati e il padronato). E’ stata la scelta quasi unanime dei partiti e dei parlamentari, entusiasti di aver evitato (almeno per il momento) l’ipotesi di uno scioglimento anticipato delle camere, cosa che per tantissimi di loro avrebbe significato anche la perdita della rendita vitalizia che deputati e senatori acquisiscono dopo 4 anni e mezzo di mandato.

Si tenga conto che nella prossima legislatura gli attuali 945 tra deputati e senatori diventeranno solo 600, in base alla riforma costituzionale approvata nel 2020, e che dunque moltissimi dei parlamentari uscenti non hanno alcuna speranza di essere rieletti.

Peraltro si tratta di un parlamento ormai largamente esautorato delle sue funzioni dall’incontenibile attivismo legislativo del governo. Mattarella, nel suo discorso di insediamento del 3 febbraio, ha sottolineato il fatto di come i processi di deliberazione del parlamento debbano essere più veloci, utilizzando l’ossimoro delle “due esigenze irrinunziabili: il rispetto dei percorsi di garanzia democratica e, insieme, la tempestività delle decisioni”. Quell’ossimoro l’abbiamo visto all’opera tantissime volte, e ancora una volta a dicembre, quando il parlamento in pochi giorni ha approvato, sostanzialmente senza discussione alcuna, la legge di bilancio per il 2022 e le previsioni pluriennali per il triennio 2022-2024.

Nel suo complesso il discorso di Mattarella (interrotto da 55 standing ovation da parte dei parlamentari) si è basato su alcune parole evocative: la “dignità”, lo “spirito di iniziativa” delle imprese che ha permesso all’economia italiana di raggiungere risultati persino superiori a quelli degli altri paesi della UE, le “potenzialità” (i 200 miliardi) del programma Next Generation EU, la scommessa della “transizione ecologica e digitale” (con i vantaggi connessi per il mondo dell’industria). Ha fatto allusione ad un’Italia “più giusta, più moderna, con meno disuguaglianze territoriali e sociali”, rimuovendo del tutto la realtà delle statistiche che illustrano come le disuguaglianze si siano approfondite proprio sotto il governo del “suo” Draghi. Ha condito i suoi solenni richiami alla necessità della pace con la solita retorica atlantista e gli omaggi di rito alle “Forze armate, strumento di pace” e alle “forze dell’ordine”, oggi sotto accusa per le brutali cariche con le quali sono stati trattati i cortei studenteschi. Molti retorici omaggi ai giovani (da un ottantunenne riconfermato proprio perché i partiti sono stati totalmente incapaci di ogni rinnovamento).

Mattarella ha richiamato il parlamento alla realtà delle oltre 1000 morti sul lavoro che si registrano ogni anno, del razzismo e dell’antisemitismo, della violenza sulle donne, delle morti di migranti in mare, della povertà, della precarietà senza speranza, delle carceri sovraffollate, delle mafie, del diritto dei cittadini a un’informazione libera e indipendente.

Richiami ipocriti, capaci di parlare al paese, ad un paese senza memoria, incapace di ricordare che fu lo stesso Mattarella a controfirmare i “decreti Salvini”, rendendo così esecutive le norme che impediscono il salvataggio dei migranti nel Mediterraneo, e che anche Mattarella (assieme a tutto il sistema partitico e mediatico) continua a legittimare un partito fortemente segnato dal neofascismo, dall’antisemitismo e dal razzismo come Fratelli d’Italia.

Come dicevamo il parlamento ha acclamato il presidente in un crescendo di ipocrisia sia dell’oratore che della platea che lo omaggiava. Un parlamento da più di un decennio totalmente impermeabile alla voce del conflitto politico, economico e sociale. Un parlamento che sulla delicatissima questione delle delocalizzazioni di aziende dall’Italia ad altri paesi ha respinto senza discussione e a larghissima maggioranza la proposta avanzata dal Collettivo GKN e che ha invece adottato una norma che in buona sostanza facilita la chiusura di imprese. Un parlamento per il quale ormai circa il 40% dell’elettorato non vota più.

Mentre a larghissima maggioranza veniva rieletto Mattarella, la polizia della ministra dell’Interno Lamorgese manganellava gli studenti in lotta contro la “alternanza scuola-lavoro”, indignati per la morte di un giovane studente diciottenne schiacciato da una barra di ferro durante uno stage che si svolgeva sulla base della legge sulla “Buona Scuola” approvata nel 2015 dal governo di centrosinistra di Matteo Renzi. Una polizia che si era già distinta nei mesi scorsi per le violente cariche contro le lavoratrici e i lavoratori in sciopero di Alitalia, AirItaly, UNES, TexPrint, ecc.

Lo sciopero generale Cgil-Uil del 16 dicembre è stato totalmente ignorato. Già il 17 dicembre nessuno parlava più di quello sciopero, delle sue rivendicazioni e dei motivi del disagio sociale. 

E’ questo il paese dei presidenti Draghi e Mattarella.

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