Contro la guerra, la pandemia e l’attacco padronale in ordine sparso

di Fabrizio Burattini

In un articolo che abbiamo pubblicato qualche giorno fa su questo sito veniva efficacemente messa in luce una emergenza (quella salariale) che il vertiginoso aumento dei prezzi dei prodotti energetici e il contesto bellico fanno gravare sui redditi delle famiglie dei ceti popolari.

Il prolungarsi della guerra e la caduta delle illusioni di Putin e dei suoi generali su di una “operazione lampo” o addirittura su di un rapido ingresso trionfale delle truppe russe a Kiev salutate come “liberatrici” da un ampio settore della popolazione, sono tutti fattori che accentueranno anche a breve termine le già forti tendenze “stagflazionistiche” (cioè di un connubio tra tendenza alla stagnazione economica e aumento dei prezzi) in atto in Italia e in tutta l’Europa occidentale. Già le previsioni di crescita del PIL italiano per il 2022 si stanno fortemente ridimensionando, dal 4,7% (la previsione fatta a novembre 2021) al 3,3 (previsione S&P di inizio marzo) a 1,9 (Confindustria ai primi di aprile).

Le previsioni per i primi due trimestri dell’anno (che evidentemente sono già quelli che risentono direttamente delle conseguenze della guerra) mostrano una tendenza ad una vera e propria recessione.

Le stesse sanzioni verso la Russia comporteranno “in automatico” una contrazione della produzione e del commercio internazionale.

La Confindustria, l’organizzazione padronale diretta da Bonomi, evidentemente impaurita dalla situazione, accantona per il momento la sua perversione ultraliberale, chiedendo che i prezzi dei prodotti petroliferi vengano non più fissati dal “mercato”, ma che siano regolati politicamente dal governo.

L’entità del danno provocato da questi sviluppi varierà sensibilmente, sia tra i paesi che al loro interno. In mancanza di una risposta politica tempestiva, le economie dovranno aspettarsi un netto calo della crescita e forse una vera e propria recessione, un inasprimento delle disuguaglianze e notevoli differenze in termini di performance tra le economie. In generale, gli Stati Uniti hanno buone probabilità di surclassare l’Europa, che invece rischia appunto di entrare in recessione, grazie alla maggiore resilienza e all’agilità dell’economia americana.    

Tra le economie capitalistiche più sviluppate, l’Europa occidentale pagherà dei prezzi certamente più pesanti di quelli che saranno costretti a pagare gli USA. Per l’Europa le diseguaglianze cresceranno, le condizioni commerciali si faranno più sfavorevoli, cresceranno i flussi migratori, mentre si rafforzerà il dollaro, calerà la domanda mondiale e crescerà l’instabilità dei mercati finanziari.

Le materie prime (anche quelle non strettamente legate alle aree coinvolte dalla crisi bellica) stanno già vedendo crescere i loro prezzi, con inevitabili ripercussioni sui prezzi al consumo e dunque sui volumi di vendita. Inoltre, il clima bellico e la diffusa paura verso un’estensione del conflitto fanno crescere la sfiducia dei consumatori. Non a caso il mercato dei beni durevoli sta già contraendosi.

Le spese dei governi inevitabilmente lieviteranno (naturalmente più per sovvenzionare le imprese che per sostenere i redditi popolari), e andranno a pesare sui volumi dei debiti pubblici.

Tutto questo non farà che aggravare ulteriormente le condizioni di vita delle classi meno abbienti e in particolare della classe lavoratrice, peraltro già segnata in negativo da decenni di politiche monetaristiche, da uno strangolamento dei salari, e da una crisi economica ultradecennale i cui prezzi sono stati fatti interamente ricadere sugli strati più poveri. Senza dimenticare i due anni abbondanti di crisi sanitaria ancora non chiusa.

E lo stesso welfare, il complesso di servizi pubblici universali che le lotte del dopoguerra e degli anni 60 e 70 avevano imposto ai governi e al padronato, già pesantemente ridimensionato dalle politiche liberiste degli ultimi decenni, sarà ulteriormente tagliato per sostenere il forte rilancio delle spese militari, un riarmo che per legittimarsi utilizza le paure ingenerate dalla guerra in Ucraina, ma che non ha nulla a che vedere, anzi, va contro qualunque politica di difesa reale della pace.

I sindacati tradizionali sembrano ignorare questa dura realtà e le ancora più drammatiche prospettive che si preparano per la classe lavoratrice del nostro paese. La Cgil (così come anche la Uil e la Cisl) si limita a chiedere al governo di essere ricevuta, ma senza avanzare alcuna rivendicazione puntuale. 

Proponiamo qui una comparazione eloquente. In Francia, ad esempio, in una situazione dunque assai analoga e certo non più grave della nostra, la CGT ha lanciato una mobilitazione su queste parole d’ordine: 

  • Salario minimo intercategoriale a 2.000 €  e rivalutazione di tutti i salari nel pubblico e nel privato e delle pensioni
  • Aumento automatico di tutti i salari minimi di tutte le categorie nella stessa misura della rivalutazione del salario intercategoriale
  • Riduzione strutturale dell’IVA al 5,5% sui carburanti (in Italia è del 22%) e su tutti i prodotti di prima necessità
  • Definizione di una nuova imposta patrimoniale a fini di solidarietà sociale e di maggiore progressività del prelievo fiscale.

Abbiamo usato questo paragone, tra la Cgil e il principale sindacato francese, proprio per mettere in risalto l’atteggiamento totalmente acquiescente del sindacalismo tradizionale italiano.

Dunque, in Italia, nonostante il bilancio più che fallimentare della politica sindacale degli ultimi trent’anni (non a caso l’Italia in Europa è il paese nel quale le retribuzioni sono drasticamente scese tra il 1992 ed oggi), nonostante l’ulteriore peggioramento della situazione sociale a causa della pandemia e ora della guerra, si persevera su quella linea clamorosamente disastrosa.

Purtroppo, anche sul versante dei sindacati di base, l’iniziativa non sembra affatto puntare a colmare il vuoto di progettualità e di azione che lasciano i sindacati confederali.

La timida iniziativa unitaria che, sulla scia dell’assassinio di Adil Belakhdim, ucciso a Novara da un crumiro istigato dai padroni, aveva portato nell’autunno scorso i sindacati conflittuali a stilare una piattaforma unitaria e ad indire tutti insieme lo sciopero dell’11 ottobre, sembra essersi del tutto esaurita. Le fin troppo numerose sigle del sindacalismo di base hanno ripreso a lavorare ognuna per se stessa, rimuovendo ogni progettualità e rispolverando la loro mai sopita autoreferenzialità.

La situazione in Ucraina, con tutte le implicazioni politiche e sociali che essa comporta per le classi lavoratrici di tutta Europa, imporrebbe la costruzione di una mobilitazione unitaria contro la guerra e contro i suoi effetti sulla classe lavoratrice. Ma dai sindacati conflittuali arrivano solo segnali di iniziative che sottolineano la separazione, tradendo perfino le affermazioni di voler “dare continuità al percorso unitario” solennemente affermate da gran parte delle sigle nella dichiarazione conclusiva dell’assemblea del 24 ottobre 2021.

Sembra che nell’ambito del sindacalismo conflittuale si stiano definendo ormai tre aree politico sindacali che operano in maniera del tutto indipendente l’una dalle altre: da un lato le due sigle in questa fase più dinamiche, ma in forte antitesi tra loro (USB e SiCobas), e dall’altro Cub, Sgb, Adl, Unicobas, Cobas Sardegna e Usi. Quest’ultimo cartello, al di là di iniziative pacifiste delle altre sigle a livello locale, ha peraltro preso l’unica iniziativa nazionale degna di questo attributo, indicendo unitariamente un’assemblea nazionale per il 9 aprile a Milano, a cui invitano ad aderire e a partecipare “tutto il sindacalismo di base conflittuale, le realtà sociali, le associazioni e i comitati”.

Per tutta risposta, il SiCobas ha indetto per il giorno seguente (10 aprile) un’assemblea online per la “resistenza all’uso capitalistico della pandemia”, e l’USB ha indetto per il 22 aprile uno “sciopero nazionale di tutte le categorie di lavoratrici e lavoratori coinvolti nella raccolta, produzione, logistica, trasporto, distribuzione e commercializzazione delle merci”.

Da parte sua, l’opposizione di sinistra interna alla Cgil sembra essere unicamente impegnata nella preparazione del prossimo congresso della confederazione, continuando a rinunciare ad ogni uso della propria posizione per sollecitare e stimolare la convergenza tra tutto il sindacalismo conflittuale.

Com’è facile constatare, tutto meno che quell’azione progettuale e unitaria che possa tentare di supplire alla complicità filogovernativa di Cgil, Cisl e Uil e di colmare unitariamente quella drammatica assenza di ogni protagonismo della classe lavoratrice che lascia libero gioco all’azione determinata, aggressiva e coordinata del governo Draghi e della Confindustria.