di Amira Hass, da Haaretz del 9 agosto
È difficile, persino impudente, chiamare qualcuno a Gaza e chiedergli se sostiene la decisione della Jihad islamica di lanciare una raffica di razzi contro Israele dopo l’assassinio dell’alto comandante militare Taysir al-Jaabari e del suo aiutante, Salame Abed. Perché difficile? In primo luogo, ragioni tecniche: in assenza di rifugi, tipo “Cupola di ferro” e sirene [sono i sistemi di protezione messi in atto da Israele per difendere gli agglomerati vicini alla striscia, ndt], i circa due milioni di abitanti della Striscia di Gaza sono nuovamente sottoposti alla roulette russa che subiscono dal 2008 attraverso quattro guerre e innumerevoli “operazioni” militari minori. Sono mobilitati per difendere la propria vita e quella dei loro cari, hanno paura e non possono fare a meno di immaginare il peggio. Scacciano il terrore con sonnellini e chiacchiere su qualsiasi cosa che non sia la guerra in corso.
Sono impegnati a scoprire chi tra i loro parenti sia stato ucciso a Jabaliya [la parte più settentrionale della Striscia di Gaza, ndt] o a Rafah [nella parte meridionale della Striscia di Gaza al confine con Israele, ndt] e come stanno i loro amici che vivono accanto all’edificio che è stato appena bombardato. Si scambiano informazioni e video orribili che mostrano una mano che spunta dalle macerie, bambini che urlano, donne che fuggono e case che si trasformano in nuvole di fumo e cenere. Gaza è piccola e angusta, e sembra che tutti si conoscano e abbiano paura degli altri.
Tra la paura e il rumore dei droni e delle esplosioni, la gente accende il generatore in casa o nel quartiere, perché ultimamente la fornitura di energia elettrica è limitata a tre ore al giorno, oppure riempie il serbatoio dell’acqua per il bagno, perché non si sa quando la città avrà di nuovo l’elettricità per far scorrere l’acqua nei rubinetti. L’acqua del rubinetto non è sicura da bere, quindi la gente può essere costretta a lasciare le proprie case per comprare litri di acqua potabile e per trovare un negozio aperto con del cibo – che è finito perché Israele ha chiuso il valico di Kerem Shalom [il passaggio di frontiera che permette il transito da Gaza a Israele e all’Egitto, ndt] alle merci cinque giorni prima.
Sono preoccupati per la salute delle loro nonne e dei loro figli che non hanno potuto recarsi a Gerusalemme Est o a Nablus per ricevere le cure necessarie perché Israele ha chiuso il valico di Erez [l’unico passaggio di persone tra Gaza e il territorio israeliano, ndt] dal 2 agosto.
Ecco perché è impudente chiedere ai gazesi se hanno sostenuto la risposta della Jihad islamica [che è arrivata solo dopo l’arresto di uno dei suoi leader, Bassam al-Saadi, in Cisgiordania e i cosiddetti attacchi preventivi di Israele, ndt]. Perché questa domanda implica il presupposto israeliano che “i palestinesi hanno ricominciato” e che si tratta di una situazione di equilibrio tra due entità sovrane, una delle quali (Gaza) fa la guerra e attacca il Paese che cerca la pace (Israele). Questa domanda ignora il fatto che Israele continua a dettare la vita dei palestinesi nella Striscia di Gaza, come in Cisgiordania, anche se sostiene di non farlo e anche se la maggior parte degli ebrei israeliani non ci crede.
Quando ha scelto di intraprendere l’operazione di assassinio per prevenire gli attacchi terroristici, Israele ha scommesso che la Jihad islamica avrebbe agito secondo il copione che aveva scritto. Ciò significa che Israele ha deliberatamente fatto ripiombare i residenti della Striscia di Gaza nel cerchio della paura dei razzi, delle sirene e del suono delle intercettazioni di [Iron Dome]. Quando la Jihad islamica ha agito sullo scenario israeliano, avrebbe dovuto tenere conto del fatto che Israele non si sarebbe accontentato di un singolo ciclo di attacchi e ritorsioni. In altre parole, avrebbe dovuto tenere conto del fatto che Israele avrebbe lanciato ripetutamente attacchi aerei “chirurgici” che avrebbero ucciso e ferito anche cittadini palestinesi disarmati e non combattenti, attacchi che avrebbero causato enormi danni materiali e riportato due milioni di persone assediate in un mondo di terrore e pericolo mortale.
Quindi la domanda è stata posta comunque: i gazesi sostengono la risposta della venerata ma piccola Jihad islamica agli assassinii israeliani? La risposta è che non è questo il momento di scoprirlo, ma che la gente sta sussurrando qualcosa sui propri dubbi e sulla propria stanchezza di fronte a una serie di guerre e distruzioni che non ottengono nulla e non pongono fine all’assedio e al blocco. In seguito, queste voci saranno ascoltate, oppure no. L’esperienza dimostra che esiste una soglia di tolleranza per la morte e la distruzione che, se superata nuovamente da Israele, porterà i gazesi a sostenere qualsiasi risposta militare palestinese, nonostante la paura e l’orrore. Questo a prescindere dall’inutilità di una tale risposta nell’impedire a Israele di bombardare, uccidere e distruggere.
Per ora, la speranza a Gaza che il cessate il fuoco duri è una sorta di risposta alla domanda. Ma la risposta più forte è la decisione di Hamas, almeno da domenica sera, di non sparare [Hamas era coinvolta nei negoziati con l’Egitto, ndt]. Questa organizzazione ascolta l’opinione pubblica (anche se non sempre agisce di conseguenza). Alcune voci su Facebook definiscono “tradimento” non aver aderito alla campagna della Jihad islamica, ma sono una minoranza. Molti dei miei amici e conoscenti a Gaza ritengono che la maggioranza della popolazione sia soddisfatta del fatto che Hamas abbia mostrato moderazione e non si sia unita alla mischia. Il fatto che non si sia unito alla battaglia garantisce un cessate il fuoco più rapido.
Hamas, che è il governo de facto di Gaza, non andrà da nessuna parte. Il suo obiettivo è quello di guidare un giorno l’intero popolo palestinese sotto il controllo israeliano e nella diaspora, sostituendo l’OLP e Fatah, che sono stati svuotati.
In quanto partito al potere, la leadership di Hamas doveva essere a conoscenza dell’indagine di Save The Children, pubblicata a giugno con il titolo “Trapped”. L’indagine mostra che dopo 15 anni di assedio israeliano, la diffusa disoccupazione e povertà causata da Israele e quattro grandi conflitti militari, quattro bambini su cinque nella Striscia di Gaza, ovvero l’80%, soffrono di depressione e vivono nella paura e nel dolore [1].
Nella precedente indagine di questo tipo condotta dall’organizzazione nel 2018, il tasso era del 55%. L’enuresi, la minzione involontaria, il rifiuto di parlare, l’incapacità di trovare modi positivi di affrontare la situazione, la sensazione di non essere sostenuti dalla famiglia e dagli amici e il deficit di attenzione sono solo alcuni dei sintomi psicologici non sorprendenti identificati nel rapporto e di cui soffre la maggior parte dei bambini. Altri risultati mostrano che più della metà dei bambini della Striscia di Gaza pensa al suicidio e tre su cinque sono autolesionisti.
Le elemosine del Qatar [che finanzia Hamas per fornire l’amministrazione con la consapevolezza e il sostegno del governo israeliano, ndt] e la spavalderia militare non risolveranno questo problema. Anche se Hamas tende a dubitare dell’accuratezza delle indagini “occidentali” che si basano su teorie psicologiche “occidentali”, non può ignorare completamente i dati e il loro legame diretto con le guerre.
A Israele e ai suoi cittadini non importa, e nemmeno ai governi occidentali che parlano di “diritto di Israele a difendersi” ignorando in modo esasperante il suo controllo sulla Striscia di Gaza. Chi, se non il governo de facto della Striscia, dovrebbe giungere alla conclusione che impegnarsi nell’attuale confronto militare è negativo per il proprio popolo?
Nota
[1] Nel suo rapporto del 15 giugno 2022, Save the Children ha riscontrato “un enorme aumento dei bambini che hanno riferito di sentirsi spaventati (84% rispetto al 50% del 2018), nervosi (80% rispetto al 55%), tristi o depressi (77% rispetto al 62%) e in lutto (78% rispetto al 55%). Lo studio ha anche rilevato che più della metà dei bambini di Gaza ha preso in considerazione l’idea di suicidarsi e tre su cinque sono autolesionisti”. (nota redazionale di A l’Encontre)
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