Italia, verso le elezioni del 25 settembre, il contesto e gli attori

di Fabrizio Burattini

Quella che segue è la prima parte di un lungo articolo sulla situazione italiana a circa un mese dal voto pubblicato integralmente in francese sul sito alencontre.org. Pubblicheremo nei prossimi giorni una seconda parte sulle principali forze che si scontrano sul terreno elettorale e, infine, una terza parte su quel che accade "a sinistra del centrosinistra" sul terreno politico e sociale e sulle prospettive dell'autunno. Questa come le altre due parti, al fine di pubblicarle per le/i lettrici/lettori italiane/i, sono state rimaneggiate in alcuni punti.
- Qui la seconda parte Italia a un mese dal voto
- Qui si trova la terza parte "Italia, le elezioni alla sinistra del centrosinistra"

Alla fine il governo Draghi, il governo dei migliori è caduto. Nonostante l’amplissima maggioranza parlamentare, il sostegno entusiasta di tutta la stampa e di tutte le televisioni mainstream, della Confindustria e di tutte le principali associazioni padronali, dell’Unione europea e delle altre istituzioni imperialiste occidentali, Draghi non ha retto.

Una crisi largamente preannunciata

La crisi si era già innescata a gennaio con il fallimento del progetto di trasferire direttamente l’ex presidente della Banca centrale europea dalla presidenza del consiglio dei ministri alla presidenza della Repubblica, cosa che avrebbe imposto un “presidenzialismo di fatto”. Si è poi scatenata a metà luglio, a seguito della scelta del Movimento 5 Stelle che, nel tentativo di recuperare il consenso popolare perduto, ha iniziato una contraddittoria presa di distanza dal governo, pur continuando a mantenervi alcuni ministri all’interno. Il movimento “grillino”, com’è noto, in pochi anni è passato dal 33% dei voti (2018) a poco più del 10% nei sondaggi e il suo gruppo parlamentare alla camera, originariamente composto da 221 deputate/i, al termine della legislatura si è ridotto a 97 (66 deputati e deputate ex “grillini” sono confluiti nel gruppo misto, altri 51 hanno seguito l’ex “capo politico” Luigi Di Maio nella costruzione di un gruppo esplicitamente fedele al capo del governo Mario Draghi, ma c’è anche chi è entrato nella Lega o nel partito di Forza Italia dell’odiato Silvio Berlusconi o nel Pd). E’ stato più volte sottolineato come nella storia italiana, pur segnata da frequenti episodi di trasformismo, non si era mai verificata una così massiccia dose di passaggi di eletti da una formazione all’altra.

La crisi è poi precipitata a causa della scelta delle formazioni della destra di riunificare il loro percorso all’opposizione, ritenendo questa scelta più pagante in vista delle comunque imminenti elezioni politiche. Per partiti come la Lega e anche Forza Italia, la collocazione all’opposizione del governo è indiscutibilmente più utile elettoralmente. E sarebbe stato parecchio complicato affrontare le lezioni con una coalizione con Fratelli d’Italia rimando parte al governo e parte all’opposizione.

Così, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella il 21 luglio ha sciolto le camere e indetto nuove elezioni per il 25 settembre.

Nonostante i numerosi segnali che indicavano come il governo fosse ormai arrivato al capolinea, tutto il mondo politico è stato spiazzato dalla crisi quasi che fosse un fulmine a ciel sereno. I giornali, le televisioni, le associazioni padronali si sono battuti perché Draghi rimanesse a Palazzo Chigi. Sono state persino lanciate numerose petizioni in tal senso (segnaliamo qui quella di Matteo Renzi che avrebbe raccolto oltre 100.000 firme e quella sottoscritta da un centinaio di manager e pubblicata dal giornale padronale “Il Sole 24ore” il 19 luglio). Perfino i sindacati confederali e lo stesso Maurizio Landini, leader della Cgil, hanno auspicato che Draghi restasse “nel pieno delle sue funzioni”.

In molti si sono dunque agitati perché il “governo dei migliori” restasse in carica. Ma Draghi si è dimostrato sprovvisto, almeno in questi 18 mesi di governo, della cultura politica ma anche e soprattutto degli strumenti necessari a gestire una situazione così complessa. E tale incapacità si è palesata nonostante il suo governo avesse a disposizione i 200 miliardi di euro dati dalla UE all’Italia attraverso il piano Next Generation, di cui tanti sperano di ricevere una fetta più o meno grande, e nonostante che il suo governo si sia collocato in un periodo caratterizzato da una politica economica relativamente espansiva, favorita peraltro dai bassi tassi di interesse e dalla sospensione dei “parametri di Maastricht” e, dunque, dall’inedita possibilità di fare deficit. La crisi di governo costituisce comunque un fastidioso freno agli appetiti più o meno espressi di tutte quelle corporazioni che puntavano a raccogliere il massimo dalla provvidenziale e inattesa pioggia di miliardi.

Le radici della crisi

Più in profondità hanno agito le contraddizioni sociali mai risolte del capitalismo italiano. L’economia italiana ha conosciuto i suoi momenti migliori nell’epoca della “coesistenza pacifica” Est-Ovest e in un rapporto collaborativo con molti paesi del Medioriente. La precipitazione della crisi mediorientale, innescata dalle guerre dell’Iraq e dell’Afghanistan, le continue tensioni con l’Iran, la guerra in Siria e, infine, l’invasione di Putin dell’Ucraina hanno creato un fortissimo e inedito ostacolo all’economia del paese, da sempre basata sulle esportazioni, caratteristica che negli ultimi anni si è accentuata anche a causa delle restrizioni monetaristiche alla domanda interna.

Il governo Draghi, per di più, con la sua scelta di caratterizzarsi con un rilancio anche mediatico della “vocazione” atlantista e occidentale dell’Italia, ha suscitato ampie zone di scontento, mosse non tanto da un’inclinazione neutralista e pacifista ma piuttosto dal molto concreto terrore da parte di ampi settori medio e piccolo borghesi di perdere definitivamente fette importanti di mercato mondiale (chiusura pressoché totale del mercato russo, sparizione dei russi e in buona parte anche dei cinesi nelle località turistiche italiane, ecc.).

A tutto ciò si sono sommati gli effetti congiunti della crisi economica e della “economia di guerra”, con la crescita repentina e pesante di tante materie prime e con il riesplodere di un’inflazione che il paese non conosceva più da decenni (oltre l’8%, ma oltre il 10% per i generi di consumo popolare).

La borghesia italiana, tradizionalmente e sempre più negli ultimi anni, si è caratterizzata per un crescente contrasto tra gli interessi di coloro che sono strettamente collegati alla classe dominante capitalistica internazionale e una borghesia diffusa e frammentata in una miriade di imprese medio-piccole (PMI) in balia delle fluttuazioni del mercato mondiale e delle politiche del governo nazionale. In Italia, il mondo delle PMI rappresenta il 99,9% del numero totale delle imprese, contribuisce con più del 70% al fatturato del paese e impiega oltre l’81% dei lavoratori. 

Questa contraddizione viene spesso esemplificata (e per certi versi semplificata) ricordando l’antinomia tra un’economia del Nord-Est integrata nel sistema mitteleuropeo e un Sud arretrato e neanche più irrorato dall’industria di stato. Questo profondo contrasto di interessi è stato gestito con relativa facilità finché le politiche capitalistiche hanno consentito una più ampia gestione delle risorse. Ma negli ultimi tempi, il crollo del mercato interno, la fine di ogni politica inflazionistica, le profonde modifiche tecnologiche, le “liberalizzazioni” che penalizzano le rendite di posizione di tante PMI, uniti alle restrizioni sanitarie adottate durante la pandemia e al recente balzo dei prezzi energetici, hanno riacceso in maniera nuova quella divaricazione.

Questo anche se negli ultimi anni l’emergenza pandemica e più in generale la crisi economica hanno messo a disposizione dell’economia italiana risorse del tutto impensabili fino a solo due o tre anni fa: i 200 miliardi del PNRR (Next Generation) oltre ai 170 miliardi stanziati attingendo al credito interno e internazionale grazie alla “sospensione” dei parametri di Maastricht. Ma per il futuro è largamente non credibile che queste opportunità si ripresentino.

Dunque, il futuro governo di destra (se le attuali previsioni saranno confermate) dovrà confrontarsi in modo concreto con quelle contraddizioni che peraltro attraversano nel profondo la sua base sociale.

Tutte le principali forze politiche si affannano a sostenere che ciascuna di loro garantirà “più risorse alle famiglie e alle imprese”, ma tutte loro restano tenacemente fedeli ai dettami del pensiero neoliberale. D’altra parte Draghi, con il plauso di tutti i partiti che lo sostenevano, fin dai primi giorni del suo governo (febbraio 2021) si era esplicitamente pronunciato perché gli aiuti alle imprese, quel “keynesismo padronale” che la UE ha adottato dopo la pandemia, premiassero “solo le imprese vitali” e non quelle ritenute “senza futuro”. E, ancora più puntualmente, proprio all’inizio di agosto il parlamento ha approvato a larghissima maggioranza (con il solo voto contrario di Fratelli d’Italia, demagogicamente volto a conquistare il consenso di alcune piccole corporazioni) il decreto sulla “concorrenza” che consente un’ulteriore processo di privatizzazione dei servizi pubblici.

Una crisi politica pluridecennale 

Il sistema politico su cui contano le classi dominanti italiane conosce peraltro una forte crisi da parecchi decenni. Esso poi è stato deliberatamente “violentato” nel 2011 quando la borghesia italiana e l’Unione europea hanno in qualche modo imposto le dimissioni di Berlusconi e l’insediamento del governo “tecnico” di Mario Monti. Poi ha attraversato la breve ma controversa stagione del governo Renzi, fallito a causa della sua smania di strafare. Infine, ha dovuto gestire l’apparizione di un soggetto inizialmente sconosciuto e capriccioso come il Movimento 5 Stelle, con la sua disinvolta azione di governo, prima con la destra di Salvini, poi con il PD e, infine, con entrambi.

Ma quella crisi non è stata affatto risolta dal progetto bonapartista di Draghi su cui aveva puntato gran parte del mondo politico ed economico borghese. Il progetto in realtà cercava di supplire alla crisi generale dei partiti politici confidando nel carisma dell’ex presidente della BCE. Draghi, però, nonostante la sua credibilità internazionale, non poteva far affidamento su nessuna forza politica propria, ma si reggeva su di una maggioranza estremamente composita e litigiosa, che, seppur cementata da una generale adesione all’ideologia neoliberale, era animata da una fortissima competitività politica, che, man mano che le elezioni si avvicinavano, non poteva che crescere.

Draghi ha sostituito il consenso popolare reale con i panegirici e le sviolinate mediatiche che, ovviamente, possono drogare per un po’ ma che poi, all’avvicinarsi delle scadenze elettorali mostrano tutta la loro vacuità.