Italia, a un mese dal voto

di Fabrizio Burattini

Quella che segue è la seconda parte dell'articolo sulla situazione italiana prima del 25 settembre pubblicato integralmente in francese sul sito alencontre.org. Questa come le altre due parti, al fine di pubblicarle per le/i lettrici/lettori italiane/i, sono state rimaneggiate in alcuni punti.
- Qui si trova la prima parte "Italia, verso le elezioni del 25 settembre, il contesto e gli attori"
- Qui si trova la terza parte "Italia, le elezioni alla sinistra del centrosinistra"

Ora manca solo un mese alla data del voto nelle elezioni forse più scontate ma anche più imprevedibili della storia recente d’Italia.

Già lo stesso contesto istituzionale in cui queste elezioni si collocano basterebbe a renderle estremamente imponderabili. Infatti, è la prima volta dalla fine del fascismo che le elezioni per il parlamento nazionale non si svolgono, come tradizionalmente, in primavera ma all’inizio dell’autunno, con una campagna elettorale che si sta dispiegando nel pieno della stagione estiva, dunque in un momento non proprio adeguato a consentire che si risvegli nell’elettorato, soprattutto in quello popolare, quell’interesse alla politica che negli ultimi decenni è andato gradualmente scemando fino a raggiungere nelle più recenti tornate regionali e amministrative a volte percentuali di partecipazione al voto inferiori al 50% (e, appunto, nelle zone più segnate dal degrado sociale anche sotto il 40%).

Inoltre, queste elezioni, come già quelle del 2018, si svolgeranno sulla base di una legge elettorale oggi universalmente considerata antidemocratica, confusa e inadeguata, ma che fu approvata nel 2017 grazie al voto favorevole di una larga maggioranza composta dal PD, dalla Lega, da Forza Italia e da altre formazioni minori di centrodestra, il cosiddetto “Rosatellum”, dal nome del suo ideatore, Ettore Rosato, all’epoca capogruppo del PD al parlamento e ora coordinatore nazionale di “Italia Viva”, il gruppo diretto da Matteo Renzi.

A rendere il contesto normativo ancora più confuso è stata poi la riforma costituzionale del 2020 che ha ridotto il numero delle/dei parlamentari italiane/i da 945 a 600, una riforma di carattere nettamente demagogico, voluta dal Movimento 5 Stelle nella sua foga “antisistema” ma poi sostenuta con più o meno convinzione da tutto l’arco parlamentare, tanto da essere approvata nel 2020 con una maggioranza “bulgara” (alla camera 553 voti favorevoli, 14 voti contrari e 2 astenuti). Questa riforma, che lusingava le/i cittadine/i illudendole/i di ridurre così i privilegi del “ceto politico”, in realtà ha concentrato il potere in un numero ancora minore di persone, ha aumentato la dipendenza dei singoli deputati dai gruppi dirigenti dei propri partiti ed ha significativamente contribuito ad incrementare il potere del governo rispetto a quello del parlamento.

Quella riforma peraltro non è stata completata attraverso le necessarie e dovute modifiche normative per cui le elezioni del 25 settembre si svolgeranno ancor di più in un contesto di regole particolarmente confuse e per certi versi indefinite che aumenteranno ulteriormente il loro carattere antidemocratico. Tutti i commentatori non a caso sottolineano che, grazie a questa sconsiderata legge elettorale, alla destra per avere una significativa maggioranza del parlamento (più del 60%) potrebbe bastare raccogliere il 45-46% dei voti espressi.

Ma, naturalmente, gli aspetti più preoccupanti delle ormai prossime elezioni si collocano sul terreno politico.

La 18a legislatura è stata già quella più anomala della storia della Repubblica. Si è aperta con la sorpresa di una larga maggioranza relativa (quasi il 33%) attribuita dall’elettorato alla forza politica italiana finora apparsa più “inconsueta”, il Movimento 5 Stelle fondato e diretto dal comico Beppe Grillo. L’inconsistenza politica e perfino umana di larghissima parte di quella compagine ha man mano portato, come abbiamo ricordato nella prima parte di questo articolo, alla diaspora di ben più della metà dei suoi eletti.

Ma le peculiarità della 18a legislatura che si sta chiudendo non si fermano qui. Com’è noto la legislatura si è aperta con l’assunzione dei poteri da parte di un governo guidato da un allora totalmente sconosciuto avvocato Giuseppe Conte, e composto e sostenuto dal Movimento 5 stelle e dalla Lega di Matteo Salvini, poi entrato in crisi di fronte alle ambizioni di quest’ultimo, incoraggiato dal travolgente successo del suo partito alle europee del 2019, quando la Lega passò in un anno dal 17% del 2018 ad oltre il 34%.

E’ questo il contesto in cui tutto il mondo politico italiano è stato messo improvvisamente di fronte alla nuova scadenza elettorale, che lo ha trovato completamente impreparato. A premere per le elezioni anticipate, d’altra parte, era ormai rimasta solo Giorgia Meloni, nella speranza di trasformare in consensi veri il 24% che le attribuiscono i sondaggi.

La destra di Meloni, Salvini e Berlusconi

La coalizione della destra, composta da Fratelli d’Italia, dalla Lega, da Forza Italia (oltre che dalla lista di ex democristiani “Noi moderati”) è divisa dalla “storica” contesa tra Meloni e Salvini sulla leadership dell’alleanza e dunque su chi sarà il candidato da proporre a Mattarella per l’incarico di presidente del futuro governo. Com’è noto, tutti i sondaggi danno vincente Giorgia Meloni, anche se Salvini non sembra ancora rassegnarsi ad un ruolo subalterno. Berlusconi, ormai fuori gioco, punta ad essere il prossimo presidente del Senato (che secondo la Costituzione italiana è anche la seconda carica dello stato) e, perché no, neanche tanto segretamente aspira a sostituire Mattarella in caso di sue dimissioni. La sua forza politica, un tempo ultra egemone nel centrodestra, è stata ulteriormente indebolita dall’abbandono della parte più “europeista” e centrista e più ostile alla supremazia di Meloni e Salvini, indicata come “estremista, sovranista e più legata ai regimi autoritari dell’Est Europa” (Ungheria, Polonia).

Le tensioni interne alla coalizione sono state ulteriormente acuite dalle tradizionali diatribe sulla spartizione delle “candidature sicure”, lottizzazione resa più complessa visto il profondo sconvolgimento dei rapporti di forza tra le tre formazioni principali. E le divisioni non sono solo tra i partiti ma anche, e per certi versi in maniera ancor più insidiosa, all’interno dei singoli partiti. Ad esempio nella Lega c’è un settore più organicamente reazionario e demagogico che si riconosce in Salvini e un altro mosso da solide preoccupazioni imprenditoriali che ha come punto di riferimento il ministro dello Sviluppo economico Giorgetti e alcuni presidenti regionali come Zaia e Fedriga. Un’analoga differenziazione interna esiste anche in Fratelli d’Italia. E ne esisteva una anche in Forza Italia, ma quest’ultima differenziazione è esplosa con l’abbandono del partito da parte dei suoi tre ministri, Gelmini, Carfagna e Brunetta; le prime due si ricandidano nella lista Calenda-Renzi, mentre Renato Brunetta ha scelto di non candidarsi.

Comunque la destra è già in campagna elettorale, con i tradizionali aggressivi argomenti demagogici, la “sicurezza”, la flat tax e, più in generale la diminuzione della pressione fiscale, e tutte le sue consuete “promesse” atte ad ingannare l’elettorato.

A queste logore parole d’ordine sul terreno “sociale” il centrodestra affianca la proposta di una radicale riforma costituzionale in senso “presidenzialistico” e “autonomistico”. L’autonomia regionale darà alle regioni più ricche maggiori risorse, sottraendone altrettante a quelle più in difficoltà. Quanto all’elezione diretta del presidente della Repubblica, si tratta di una proposta molto insidiosa, perché fa conto su di un profondo disincanto e disaffezione degli strati popolari nei confronti della attuale forma istituzionale, fondatamente considerata sempre più vuota e priva di qualunque attenzione agli interessi delle grandi masse, e nello stesso tempo solletica la grande borghesia e le sue voglie di uno stato che risponda in maniera più puntuale e rapida ai mutevoli interessi delle classi dominanti.

Stanti le attuali regole, una riforma costituzionale di quel tipo richiederebbe un iter deliberativo lungo e complesso ma che un risultato di larga maggioranza alla coalizione di destra potrebbe consentire di rendere percorribile. 

Va inoltre sottolineato, che, se i pronostici saranno confermati e dunque, se la destra vincerà le elezioni e, grazie alla legge elettorale, conquisterà un’ampia maggioranza parlamentare, l’Italia sarà il primo paese dell’Europa occidentale (salvo l’Austria) ad essere governato da una compagine di destra, per di più guidata da un partito (Fratelli d’Italia) erede diretto del fascismo. Questo in un paese la cui Costituzione recita ancora “E` vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. In un paese che nel 1960 vide grandi masse di giovani e di lavoratori impegnati in una stagione di dure lotte di piazza (undici morti e centinaia di feriti sotto i colpi della polizia) contro la formazione di un governo democristiano con il solo appoggio esterno del Movimento sociale italiano, il partito di cui Fratelli d’Italia si proclama erede e di cui esibisce l’emblema (la fiamma tricolore) nel suo simbolo.

Giorgia Meloni, in maniera ancora più falsa di quanto abbia fatto ad esempio in Francia Marine Le Pen, non ha mai veramente preso le distanze dal fascismo e sono ampiamente documentati i legami tra il suo partito e alcuni gruppuscoli esplicitamente neonazisti e neofascisti.

La destra, ormai da anni, ha largamente invaso il campo popolare che fino a qualche decennio fa sembrava un bastione inespugnabile della sinistra. Si tratta di uno sfondamento che ancora non si è strutturato. Tutti i tentativi di organizzare sindacati strettamente legati al percorso della destra sono finora falliti. E’ noto come, soprattutto nel Nord, erano numerosi gli elettori della Lega aderenti al sindacato “di sinistra” Cgil. La forza della destra in quei quartieri si basa sull’inesistenza di altri punti di riferimento politico e culturale e soprattutto sulla sparizione della sinistra. E la conquista del governo nazionale potrebbe essere lo strumento decisivo per andare avanti a consolidare questo sfondamento. 

Dopo decenni nei quali l’Italia si è presentata nel panorama dell’Europa occidentale come il paese con la sinistra “più forte” (sia il PCI sia l’estrema sinistra degli anni 70), con il massimo livello di sindacalizzazione, oggi, occorre dirlo, il paese è diventato il “ventre molle” dell’Europa industrializzata, il primo boccone della più violenta reazione politica.

Il centrosinistra

Quanto al “centrosinistra”, la coalizione, dopo una lunga e per certi versi grottesca trattativa per allargarsi alle formazioni liberali centriste, riesce solo a conquistare il sostegno ultraliberista di “+Europa” degli eredi del Partito radicale e quello degli inconsistenti scissionisti filodraghiani ex 5 Stelle seguaci del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, mentre la formazione “macronista” di Carlo Calenda ha rotto con il PD e si presenterà in coalizione con “Italia Viva” di Matteo Renzi. L’obiettivo di quest’ultima micro-coalizione (che chissà perché i mass media si ostinano a definire il “terzo polo”, visto che tutti i sondaggi lo collocano in quarta posizione, dopo la destra, il centrosinistra e il M5S) è quello di cercare di sottrarre voti sia alla destra sia al centrosinistra, al fine di impedire la formazione di una maggioranza di un colore o di un altro e di poter così giocare il ruolo di ago della bilancia e, probabilmente, di avere così la possibilità di riproporre un nuovo governo Draghi.

Dopo una discussione complessa ma dagli esiti largamente scontati, alla coalizione a guida PD hanno aderito anche “Sinistra Italiana” ed “Europa Verde”. Questa scelta ha provocato, in particolare nella pur esigua base militante di Sinistra Italiana, diffusi malumori, visto che questa coalizione si caratterizzerà con un programma centrato sul sostegno alla “agenda Draghi”, cioè al programma di riforme ultraliberali, autoritarie e antiecologiche e allo schieramento “atlantista” che hanno caratterizzato il governo di “unità nazionale” dimessosi il 21 luglio. Per dimostrare quale sia l’inclinazione egemone nel centrosinistra basta segnalare l’importante ed emblematica candidatura a Milano nelle liste del PD di Carlo Cottarelli, economista del Fondo monetario internazionale e della Fondazione Italia-USA, oltre che presidente del comitato ultraliberale “Programma per l’Italia”.

La lista “Alleanza Verdi-Sinistra”, creata dalla confluenza tra “Sinistra Italiana” (SI) e “Verdi Europa” (VE) nell’ambito della coalizione a guida PD, per cercare di controbilanciare quell’inclinazione, presenta candidati particolarmente rappresentativi, sia sul versante dei diritti civili (come Ilaria Cucchi) sia su quello dei diritti del lavoro (come Aboubakar Soumahoro). 

La coalizione a guida PD, però, soffre di tutta la sua ambiguità. Si caratterizzerà come di sinistra grazie alla partecipazione di SI e VE, ma sul piano programmatico punterà a sostenere il rilancio del progetto neoliberale di Draghi. Il leader del PD, l’ex democristiano Enrico Letta, spera che questa ambiguità possa consentire al suo partito di raccogliere consensi sui due versanti ma è altrettanto possibile che l’ambiguità glieli faccia perdere da entrambe le parti. 

Il PD, dopo le convulsioni del decennio scorso tra il liberismo populista di Renzi e il pallido laburismo di Zingaretti, oggi, dopo i 18 mesi di Draghi è ormai irrimediabilmente un partito liberaldemocratico, con una cultura falsamente riformista e popolare (ben esemplificata dalle salsicce delle feste dell’Unità), ma radicato quasi esclusivamente nei quartieri benestanti, alla continua e per certi versi disperata ricerca di consolidarsi come punto di riferimento politico per le classi dominanti e le istituzioni imperialiste internazionali.

Così, Enrico Letta, preoccupato dalle incognite della prossima scadenza elettorale, ha scelto di caratterizzarsi in particolare sul rassicurante versante del “voto utile”, agitando lo spettro del pericolo di un largo successo della destra e di Giorgia Meloni in particolare, una paura che certo può mobilitare un settore di elettorato attento ai temi dei diritti civili e della difesa della costituzione, ma solo se si dimenticano le pesanti responsabilità che gravano sul PD e su tutto il centrosinistra per l’ambiguità, la cedevolezza e la timidezza con cui hanno gestito alcune tematiche sulle libertà individuali, sui diritti di cittadinanza, per le gravi riforme istituzionali e costituzionali antidemocratiche che con il loro consenso hanno stravolto punti importanti della costituzione del 1948, per la irresponsabile opera di riaccreditamento “democratico” degli eredi del fascismo.

Il Movimento di Giuseppe Conte

Come abbiamo già detto il Movimento 5 Stelle si presenta a queste elezioni travagliato dall’esperienza di 4 anni di governo. Pesa su di lui la responsabilità di aver dissipato il capitale politico, di consenso e di credibilità raccolto nel marzo 2018 (quasi 11 milioni di voti), di aver trasformato quella spinta di protesta, certo generica, ambigua e “neoqualunquista”, che lo aveva portato ad essere (e di gran lunga) il partito più votato del paese, in una subalternità crescente agli interessi dei “poteri forti”.

Il Movimento 5 Stelle e le/i sue/suoi elette/i hanno rappresentato per anni un equivoco diversivo, che, con la loro analisi interclassista, ha orientato verso obiettivi e soluzioni false ogni risposta al disagio sociale diffuso.

Il M5S ha attraversato la stagione del governo “gialloverde” con la Lega, contrassegnata da misure sociali importanti (il Reddito di cittadinanza, ad esempio) ma anche e soprattutto da decreti liberticidi (i decreti Salvini contro le lotte radicali, contro le occupazioni di case e contro i migranti). Poi, nel 2019-20, nel governo “giallorosso” con il PD, anche complice il Covid-19, si è configurato come il partito della responsabilità, delle chiusure “proporzionate”, dei decreti finalizzati a dare sollievo alle aziende colpite dalla recessione pandemica. Infine, a febbraio del 2021, è diventato il partito che accantonava i propri contenuti per sostenere il governo del banchiere Draghi, che il guru del Movimento, Beppe Grillo, chissà perché, ha voluto inizialmente descrivere come “un grillino”.

Il movimento, che nel 2018 con il suo qualunquismo “né di destra né di sinistra” puntava a presentarsi come il più efficace argine alla crescita dell’estrema destra, con la sua disinvolta politica in realtà ha largamente favorito la rilegittimazione e la crescita della destra più insidiosa.

Queste continue giravolte lo hanno prostrato sia nella perdita di gran parte degli eletti, sia nella drastica riduzione dei consensi, riduzione che non è divenuta crollo totale solo grazie al prestigio popolare e mediatico del suo nuovo leader, Giuseppe Conte, quell’avvocato fino a poco tempo fa sconosciuto e ritenuto totalmente incapace di leadership politica ma che in realtà si sta dimostrando capace nel tentativo di ridorare in extremis l’immagine molto logora dei 5 Stelle.

Oggi, al fine di riconquistare almeno in parte il consenso elettorale perduto, i residui 5 Stelle hanno scelto (seppure molto tardivamente) di prendere le distanze dalla “agenda Draghi” (che avevano condiviso fino a pochi mesi fa) e di assumere, in polemica con il PD e contro le destre, una fisionomia “progressista”, “ambientalista” e, implicitamente, di “sinistra”, anche avanzando parole d’ordine incisive, come il salario minimo a 9 euro/ora (in Italia non sono pochi i lavoratori che guadagnano meno della metà di questa cifra) o la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario (sulla base dell’elaborazione del sociologo De Masi), l’opposizione all’aumento delle spese militari, la riunificazione in un unico Sistema sanitario nazionale delle sanità regionalizzate, ecc.

Quale potrà essere il risultato di questa “rifondazione” dei 5 Stelle ce lo diranno le urne il 25 settembre.