Nella foto la cerimonia della firma dell'Accordo per la pace sociale e la nuova Costituzione

Cile, prime lezioni della sconfitta del referendum sulla nuova Costituzione

di Fabrizio Burattini

L’insuccesso del “Apruebo” nel referendum cileno sul testo della nuova costituzione è stato un duro colpo non solo per la sinistra cilena, ma anche per tutta la sinistra latinoamericana. Il risultato negativo era largamente temuto e, per certi versi, persino previsto e quasi scontato. Certo, però non erano previste le modalità e le dimensioni della sconfitta. Meno del 40% di Sì a fronte di una partecipazione al voto massiccia (oltre 13 milioni di partecipanti al voto, con una percentuale di non votanti esigua del solo 14,2% che, anche se paradossalmente fossero andati tutti quanti a votare e avessero votato per il Sì, non sarebbero bastati a ribaltare l’esito). Al referendum di domenica hanno preso parte oltre 4 milioni di elettori in più rispetto al ballottaggio delle presidenziali dello scorso anno che avevano sancito la vittoria del progressista Gabriel Boric, e questi elettori hanno fatto pendere la bilancia a favore del rifiuto del testo della nuova Costituzione.

Non si può sottovalutare il fatto che la scelta di rendere “obbligatoria” la partecipazione al voto (con la pena di una multa in caso di mancato voto) può aver spinto persone che provano una profonda disaffezione nei confronti della politica ad esprimere con il “rechazo” una loro scelta punitiva.

Il No, il “Rechazo” è dunque stato votato dalla maggioranza assoluta delle cilene e dei cileni e ha vinto ovunque:  l’Apruebo ha raggiunto la maggioranza solo in 8 dei 346 comuni del Paese. Persino nelle aree metropolitane di Santiago e di Valparaíso, dove la mobilitazione democratica e progressista negli scorsi anni è stata imponente e dove nelle elezioni locali si sono imposti sindaci di sinistra e perfino comunisti, il Sì non ha vinto.

Dunque, il risultato ci fa pesantemente riflettere su come il ventennio di dittatura abbia segnato culturalmente in profondità il popolo e come la timida ridemocratizzazione di trent’anni fa non sia riuscita a ribaltare se non molto parzialmente l’animo delle cilene e dei cileni.

Tutti, sia i reazionari e i conservatori che volevano mantenere la costituzione del 1980 imposta da Pinochet durante la sua dittatura, sia quei centristi che hanno ritenuto di votare No perché consideravano il testo elaborato dall’Assemblea costituente troppo radicale, sia gli attivisti del “Apruebo” pensavano che il risultato della consultazione fosse sul filo del rasoio. Nessuno si attendeva un risultato così schiacciante in un Cile che la rivolta dell’ottobre 2019 sembrava aver avviato su un percorso completamente nuovo.

Non si può dimenticare che la rivolta è durata mesi e ha provocato più di trenta morti, oltre 10.000 feriti, gravi violazioni dei diritti umani da parte delle “forze dell’ordine”, la caduta del peso cileno e che le incertezze dovute all’ampiezza e alla radicalità di quella rivolta comportarono la sospensione degli incontri per la cooperazione economica Asia-Pacifico (APEC) programmati a Santiago proprio in quell’ottobre, della COP25, cioè della 25a Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici spostata in tutta fretta dalla capitale cilena a Madrid, e della finale della Copa Libertadores, trasferita su due piedi anch’essa dal Cile al Perù.

Poi, il 15 novembre 2019 è stato firmato l’Acuerdo por la Paz y la Nueva Constitución, con le firme di una parte consistente della Concertación por la Democracia (nella foto sopra), la coalizione di centrosinistra che aveva governato dalla fine del regime militare, di parte della destra e di Gabriel Boric, in quanto allora leader di Convergencia social.

Da quel momento in poi la scena politica si trasformò. Le piazze e le vie si sono svuotate, anche prima del lockdown imposto dalla pandemia nel marzo 2020, e l’iniziativa si è spostata sul terreno costituzionale, fino al plebiscito dell’ottobre 2020 per decidere se convocare un’assemblea costituente (in quel referendum il Sì raccolse quasi l’80% dei voti, ma con una partecipazione al voto di poco più del 50,% degli elettori).

Il testo costituzionale sottoposto al voto nel referendum della scorsa settimana era significativamente progressista e molto avanzato sotto molti aspetti: fine dello Stato “sussidiario” neoliberale e costruzione di uno “stato sociale e democratico di diritto”, solidale e paritario, creazione di uno stato plurinazionale, riconoscimento delle rivendicazioni storiche del popolo Mapuche, istituzione di un sistema pubblico di sicurezza sociale, fine della privatizzazione dell’acqua, legittimazione della contrattazione collettiva per branca, diritto effettivo di sciopero, riconoscimento dei sindacati, affermazione di molti diritti fondamentali: democrazia partecipativa, beni comuni, crisi climatica, rivendicazioni femministe come il riconoscimento del lavoro domestico e di cura.

E’ difficile (e perfino sconsigliabile) trarre conclusioni affrettate da un risultato elettorale così sorprendente. Non si deve confondere una sconfitta elettorale con la fine del ciclo di lotte che in Cile si è aperto fin dal 2011. Le ragioni sociali che hanno messo in moto e fatto crescere in maniera inarrestabile la disponibilità alla mobilitazione di milioni di persone (fino appunto alla rivolta del 2019 che ha quasi defenestrato l’allora presidente miliardario Sebastián Piñera) sono ancora tutte là: sanità, istruzione e sociale privatizzate e dunque inaccessibili per la stragrande maggioranza della popolazione; i diritti dei settori oppressi negati, in particolare per le donne e i popoli indigeni; la crisi economica che continua a colpire brutalmente la classe operaia, mentre le poche famiglie miliardarie che controllano l’economia cilena guadagnano sempre di più.

Ma è altrettanto e ancora più errato sottovalutare l’avversario, tanto più un avversario come la borghesia cilena (da sempre sostenuta in modo spudoratamente aperto dalla borghesia internazionale e in particolare da quella statunitense), che è scesa in campo con tutti i suoi mezzi, con l’accanimento e con l’implacabile determinazione che la caratterizzano, come si è tragicamente e sanguinosamente dimostrato nel settembre 1973 e poi durante i quasi venti anni di dittatura.

In primo luogo, occorre tenere conto che, al contrario di quanto è accaduto per l’Assemblea costituente, il parlamento eletto nel 2021, a cui comunque sarebbe stato affidato il compito di concretizzare in norme definite ed effettive i principi costituzionali, vede una presenza molto minore della sinistra (37 deputate/i su 155), frutto di una situazione politica meno favorevole e senza le regole maggiormente democratiche che avevano presieduto all’elezione dell’Assemblea costituzionale. 

Tutti i mass media si sono pesantemente prestati a sostenere la campagna del “Rechazo” contro i diritti sociali antiliberisti che il testo sottoposto al voto prevedeva. Sono state utilizzate vergognose e sfacciate fake news. Si è sostenuto che la nuova Costituzione avrebbe eliminato la bandiera cilena, che l’aborto sarebbe stato possibile fino al nono mese, che sarebbe stata sciolta la polizia, che le case di proprietà sarebbero state confiscate, o che gli indigeni mapuche sarebbero stati impunibili anche in caso di delitto… D’altra parte, la borghesia cilena (come tutta la classe dominante internazionale) è disposta a tutto pur di non rinunciare ai propri privilegi. E lo ha tragicamente dimostrato giusto 49 anni fa.

Il governo Boric, di fronte alla difficoltà della situazione, ha commesso l’errore tipico con cui la sinistra ha sempre affrontato le sue difficoltà, in Cile (lo aveva fatto lo stesso Salvador Allende qualche mese prima del golpe) e in tutto il mondo: quello cercare un’intesa con gli avversari, incorporando settori della Concertación (la coalizione di centrosinistra) nel suo governo, ed è stato un grave errore. Il risultato è stata la paralisi contro una crisi economica e sociale sempre più acuta, la repressione delle manifestazioni studentesche e la militarizzazione della regione di Wallmapu, la regione nella quale si sono verificate importanti mobilitazioni degli indigeni mapuche. Inoltre, gran parte dei prigionieri politici per la rivolta del 2019 restano ancora in galera nonostante le promesse di amnistia del nuovo governo. 

Tutto ciò è più che comprensibile. La sinistra cilena ha ormai nel suo DNA il giustificato timore di suscitare i demoni che scatenarono quel che accadde nel 1973, con i rastrellamenti di massa, l’ammasso  dei detenuti nello stadio e nelle caserme, le migliaia di trucidati a bruciapelo, le altrettante migliaia di desaparecidos, il bombardamento del palazzo della Moneda e l’uccisione del presidente Allende, la strategia del terrore messa in atto per quasi due decenni dal regime. Ma questo timore, per quanto comprensibile, non può attenuare l’errore. 

Boric e i partiti che lo sostengono hanno preso decisioni discutibili. L’11 agosto, dunque tre settimane prima del voto sulla nuova costituzione, con il sostegno del presidente, del centrosinistra e della sinistra del PCCh e del Frente Amplio, è stato diffuso un documento di implementación y mejoras (implementazione e miglioramenti) con l’obiettivo di rassicurare le grandi imprese e l’opinione pubblica conservatrice. Si voleva rassicurare sulla continuità dei fondi pensione privati (a cui tanti lavoratori erano stati costretti ad aderire), sulla salvaguardia dell’ampio settore sanitario privato e sul sussidio statale alle scuole private nel campo dell’istruzione. Com’era prevedibile, queste scelte hanno avuto poca o nessuna influenza sul comportamento della destra, ma hanno aperto importanti crepe di sfiducia nella base sociale della sinistra.

Il governo progressista, così facendo, cioè mediando il suo programma politico con il “centrosinistra”, ha dimostrato ad ampi settori del movimento di rivolta di non voler andare fino in fondo nello scontro con i poteri economici e militari e nella mobilitazione della sua base sociale. Una parte dell’elettorato di Boric ha cominciato a disapprovarlo apertamente, mentre la destra, con la stampa e la TV totalmente in mano alla borghesia, sfruttava la situazione amalgamando la crescente impopolarità del governo con il testo della nuova costituzione.

Ora, di fronte alla sconfitta del referendum, Boric e i partiti di governo insistono sulla stessa strada e si sono offerti di andare oltre l’accordo con il “centrosinistra” e essere disposti a negoziare anche con la destra su diversi punti centrali della nuova costituzione. E hanno annunciato di puntare ad un accordo di “unità nazionale” con questa stessa opposizione borghese. E’ sempre sbagliato sottovalutare l’avversario. Ma è anche sempre sbagliato pensare di poterlo imbrigliare (e imbrogliare) in un accordo al ribasso, tanto più quando una vittoria, come quella del 4 settembre, lo ha rinvigorito e rafforzato nelle sue convinzioni e nella sua bramosia di vittoria totale.