Le contadine dello stato indiano dell'Haryana alla testa della lotta

Da noi vince FdI, ma non è così ovunque

di Andrea Martini

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La vittoria elettorale del partito di Fratelli d’Italia, così come la vittoria della destra e dell’estrema destra in Svezia di qualche settimana fa e, aggiungerei, il “testa a testa” che si è prefigurato in Brasile con l’accesso al secondo turno di Lula e del fascista Jair Bolsonaro con rispettivamente 48,43% e 43,20%, sono tutti elementi che confermano quanto la destra si stia consolidando e rafforzando a livello internazionale e di quanto, all’interno della destra, si stiano affermando le forze più estreme.

Ma tutti questi fatti (senza dimenticare il risultato di Marine Le Pen nelle recenti elezioni in Francia, la crescita di Vox in Spagna, il ritorno sulla scena di Trump in previsione delle elezioni di mezzo termine negli USA, ecc.), su cui interverremo con un articolo di riflessione nei prossimi giorni, non devono farci dimenticare – o addirittura trascurare di vedere – tutti quegli altri fatti che ci ricordano che il mondo è molto più complesso, che le analisi devono tenere conto anche di quel che dalle nostra parti, un po’ anche per il provincialismo della nostra sinistra, si vede poco e che in tanti altri paesi le cose stanno andando in modo molto diverso.

Innanzi tutto quel che è accaduto solo pochi mesi fa in Francia, dove La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon e la Nouvelle union populaire écologique et sociale (NUPES) hanno raggiunto lo straordinario risultato del 25,66%, sapendo affrontare con determinazione e abilità (a differenza della sinistra italiana) una situazione sociale complicata e la “fluidità” e la “volatilità” dell’elettorato.

Né tantomeno va trascurato quel che è accaduto in Gran Bretagna, dove decenni di austerità, di privatizzazione dei servizi pubblici, non hanno sedato la volontà di lotta di ampi settori del proletariato: ferrovieri, postali, portuali, autisti di autobus e persino gli avvocati precari. E dove si sono sviluppati e stanno continuando a svilupparsi da agosto in qua due movimenti nella società civile, Don’t Pay (200.000 aderenti) e Enough is Enough (800.000 aderenti) che rivendicano bollette energetiche eque, aumenti salariali adeguati, salari ed alloggi dignitosi, tasse più alte sui patrimoni e sugli “extraprofitti”, la fine della povertà alimentare. La loro giornata di azione del 1° ottobre è stato un grande successo.

Non guardare solo all’Europa

Lo scontro di classe è internazionale. L’Asia meridionale ha da tempo assunto il ruolo di uno degli epicentri della lotta. A luglio nell’isola di Sri Lanka, gli insorti hanno occupato l’ufficio del primo ministro, la televisione, e, dopo aver circondato il parlamento, hanno preso il palazzo presidenziale e fatto il bagno nella piscina del presidente.

Neanche un mese dopo, nel Bangladesh, uno sciopero di 150.000 lavoratori delle piantagioni di the, soprattutto donne, in una situazione di quasi schiavitù, economica e patriarcale, hanno strappato la quadruplicazione del loro

salario. Nel vicino stato indiano dell’Assam, 600.000 lavoratrici e lavoratori del the hanno voluto emulare i loro colleghi d’oltre confine e hanno strappato un aumento del 67% del salario, aumento che poi si è esteso anche ai braccianti dell’altro stato indiano bengalese del Sikkim. In quella stessa regione, contemporaneamente agli scioperi, ma anche in Birmania, si sono verificate rivolte che denunciavano la dittatura indiana e quella militare birmana. Nel Bangladesh, incoraggiati dal successo delle rivendicazioni delle donne nelle piantagioni di the, milioni di bangladesi sono scesi in piazza in massa, senza interruzione fino ad oggi, prima per denunciare l’aumento del prezzo del carburante e ora per chiedere la caduta del regime.

E’ un’area del mondo nella quale i confini segnati dal colonialismo e dalle divaricazioni religiose sembrano svanire di fronte all’unione tra popoli di stati diversi, ma accomunati da bisogni e rivendicazioni simili, di maggiore benessere, di giustizia sociale, di democrazia.

Poco più a occidente, nel Punjab pakistano, sempre in quei mesi, 300.000 lavoratori tessili hanno scioperato, rivendicando e ottenendo un aumento salariale del 17% e miglioramenti nelle condizioni di lavoro e dei diritti sociali.

Nel vicino Punjab pakistano e nel vicino stato indiano dell’Haryana, il “coordinamento contadino radicale contro tutti gli odi e le divisioni di genere, di religione e di casta”, protagonista delle rivolte contadine indiane degli scorsi anni, anche grazie all’impegno delle donne contadine all’avanguardia della lotta, sta prendendo una direzione rivoluzionaria. Nel Punjab indiano un piccolo partito, l’AAP (Aam Aadmi Party), costruito qualche anno fa sul modello di Podemos spagnolo è diventato il primo partito dello stato, conquistando per il suo leader Bhagwant Singh Mann il seggio di primo ministro.
Nella federazione indiana, il partito socialista Sikkim Krantikari Morcha (SKM), che governa lo stato del Sikkim, sta attirandosi le simpatie e raccogliendo aderenti in tutto il subcontinente indiano, in particolare tra i 600 milioni di proletari rurali, tanto da essere considerato uno dei più grandi “partiti” proletari del mondo e da essere ritenuto un’alternativa al governo dittatoriale e di estrema destra di Narendra Modi.

Da ultimo, evidentemente non per importanza, quel che sta accadendo in Iran, dove le donne si sono sollevate contro la dittatura religiosa degli ayatollah, hanno tolto il velo e si sono tagliate i capelli, trascinando con sé ampi strati della popolazione, accendendo una rivolta in tutto il paese, fino ai confini più remoti, nel Kurdistan iraniano, nel Baluchistan.

E’ una rivolta femminista che sta dando vita a un movimento di solidarietà globale con pochi precedenti nella storia recente, dimostrando quanto la causa delle donne mobiliti in tutto il mondo, come le donne siano forza trainante nelle lotte attuali e siano all’offensiva dal Bangladesh all’India, all’Iran.

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