Le radici della crescita della destra in Italia – 2

Dietro il successo di Giorgia Meloni, un panorama sociale inquietante

di Fabrizio Burattini

Dopo la valutazione politica dei risultati elettorali del 25 settembre, abbiamo scritto sulla “crisi della democrazia”. Nell’articolo qui sotto cerchiamo di analizzare alcuni motivi “strutturali” alla base del successo delle destre italiane. Ci soffermiamo sulla situazione sociale, una situazione che ha radici nella storia del paese ma anche nelle vicende economiche e politiche che hanno caratterizzato gli ultimi decenni…

Un sistema in rallentamento

L’economia italiana conosce da decenni un progressivo ma deciso rallentamento. Il PIL del paese era cresciuto mediamente del 4,52% per ognuno dei dieci anni degli anni 70, del 2,69% negli anni 80, dell’ 1,73% negli anni 90, poi dello 0,32% nel primo decennio del nuovo millennio ed aveva conosciuto una sostanziale stagnazione nel decennio pre-pandemia, segnato dagli effetti della crisi del 2007-8, prima di crollare dell’8,9% nel 2020 per poi ricrescere del 6,5 nel 2021. Le previsioni per l’anno in corso oscillano tra il 2,4% e il 3,1%. Ma le incognite sono tante e ingenti, soprattutto legate all’andamento dei prezzi delle materie prime e in particolare di quelle energetiche.

Il dato più significativo è il differenziale nell’andamento del PIL italiano rispetto a quello degli altri paesi dell’Eurozona: tra il 2003 e il 2007 l’incremento annuo era stato mediamente dell’1,1% in Italia, mentre nell’Eurozona era del 2,2%. Dunque l’Italia ha fatto peggio della Germania (+1,6%), della Francia (+2%) e soprattutto della Spagna (+3,5%). Durante la recessione tra il 2008 e il 2012 il decremento del PIL italiano è stato più forte di quello degli altri paesi: il PIL italiano è sceso dell’1,4% all’anno, mentre quello dell’Eurozona solo dello 0,3%. Anche la successiva piccola ripresa (2013-2017) si è caratterizzata con un aumento medio annuo del prodotto interno lordo italiano dello 0,4%, decisamente inferiore a quello degli altri paesi, che superavano ovunque l’1%. E nell’ultimo anno “utile” prima del Covid, il 2019, l’espansione dell’economia italiana è stata del 0,4%, ancora una volta un quarto di quella dell’Eurozona (1,6%). 

Naturalmente sull’andamento del PIL del paese degli ultimi decenni grava il pagamento di lauti interessi passivi sull’enorme debito pubblico accumulato nel passato (2.569 miliardi di euro, pari al 150,2% del PIL, il secondo rapporto debito/PIL della UE dopo la Grecia), pagamento che obiettivamente sottrae risorse ad investimenti che potrebbero creare occupazione. Sull’andamento del PIL ha in ogni caso fortemente influito la drastica svolta monetaristica impressa negli anni 90 al paese per consentirgli di entrare nel sistema dell’Euro. 

I primati negativi del paese

Ma la crescita del PIL è stata rallentata anche dalla bassa produttività di molte imprese, dalla caduta degli investimenti pubblici in generale, e soprattutto in ricerca e istruzione, oltre che dalla presenza diffusa e abnorme di fenomeni corruttivi di varia natura, dal forte peso dell’evasione fiscale e dell’economia “al nero”, ecc.

Anche in questo ambito l’Italia raggiunge poco invidiabili primati. La sola IVA evasa ogni anno ammonterebbe, secondo le stime di numerosi istituti di ricerca, a circa 30 miliardi di euro, pari a quasi il 35% del totale. Si pensi che in Germania l’IVA evasa sembra sia di poco superiore ai 23 miliardi pari al 25,8%, in Francia di 13,9 miliardi pari al 7,4%. Le diverse stime sull’evasione fiscale italiana annua complessiva a danno delle diverse imposte oscillano comunque al di sopra dei 100 miliardi, con un gap tra gettito teorico e gettito incassato che si colloca ogni anno sempre sopra il 20% (salvo il 19,3% del 2018).

Al peso di un’evasione così rilevante va poi aggiunta un’economia “sommersa” che l’ISTAT quantifica in 203 miliardi di euro di valore aggiunto e in oltre 20 miliardi di euro di “economia completamente illegale”.

C’è infine il gravissimo e storico problema delle abissali disparità geografiche tra Nord e Sud del paese, con un PIL procapite che va dai € 43.188 della regione Trentino-Alto Adige agli € 17.657 della Calabria. Un divario quasi da 1 a 3, anche questo del tutto anomalo negli altri paesi dell’area euro. Sostanzialmente due paesi in uno solo. Un tempo il governo centrale interveniva in maniera più o meno efficace per tendere a colmare questo divario. A causa della svolta neoliberale e della messa “fuorilegge” di ogni forma di intervento pubblico in economia, ormai da decenni le uniche risorse a sostegno del Sud provengono dai fondi europei destinati alla “coesione” che per l’Italia, uniti ai “cofinanziamenti nazionali” assommano (per il periodo 2014-2020) a 62,8 miliardi di euro, meno dello 0,5% di PIL all’anno per ognuno dei 7 anni di riferimento.

In questo contesto non sorprende che il tasso di occupazione in Italia (58,2%) sia il penultimo nella UE dopo la Grecia (57%) e comunque di ben 10 punti inferiore alla media dell’Unione (68,2%).

Naturalmente, la disoccupazione, la sottoccupazione, la precarietà e la povertà accelerano la disgregazione dei residui di solidarietà sociale che hanno caratterizzato il panorama politico e sindacale italiano. 

Un’economia in via di trasformazione 

Come abbiamo già detto all’inizio, l’economia italiana non cresce. Dal 2000 (in corrispondenza con il nuovo ruolo mondiale della Cina, ma anche dell’avvento dell’euro, la crescita cumulata italiana è stata del 2,8%, un ottavo di quella dell’Eurozona (22,2%). Inoltre la produttività totale dell’industria italiana è ferma dalla metà degli anni 90.

Ma ancora più gravidi di conseguenze sono stati i cambiamenti nella composizione del valore aggiunto: l’industria manifatturiera italiana resta la seconda in Europa, ma essa pesava il 20% nel 2000 mentre ora vale attorno al 15%. Il numero di imprese manifatturiere, pari a più di 500.000 nel 2000, si è contratto di quasi un quarto scendendo a 387.000, mentre il numero di addetti della manifattura si è ridotto di circa 700.000 unità e la quota di occupazione manifatturiera sul totale dell’economia è scesa dal 20 al 15,5%. Un processo che per esempio in Germania (la prima economia manifatturiera della UE) non si è verificato, visto che là il peso della manifattura è ancora sopra il 23% del PIL.

Il settore dei servizi è cresciuto in questo ventennio, passando da 70 al 74% del valore aggiunto. Ma i settori dei servizi più dinamici non sono stati le telecomunicazioni, né i servizi finanziari, e neanche quelli del commercio, ma i servizi domestici alle famiglie (stimolati dall’invecchiamento della popolazione, in un welfare ben lontano dall’offerta media del resto dell’Unione europea) e il boom del turismo low cost. Inoltre, la caduta della parte di PIL attribuibile all’industria manifatturiera avvenuta nel 2008-9 non è più stata recuperata. 

Si tratta di modificazioni profonde del panorama economico ma anche della composizione della classe lavoratrice.

Un’economia fortemente condizionata dalla microimpresa

L’economia italiana, come grandissima parte delle economie europee, è caratterizzata da una diffusissima presenza di imprese piccole o microscopiche. In Italia le PMI sono 3.820.000, il 99,9% del totale delle imprese operanti sul territorio nazionale. La percentuale non è diversa dalla media dell’Unione europea (99,8%) ma sono significativamente diversi altri indicatori relativi alle PMI italiane. In Italia esse incidono sul PIL per il 70,9% (contro una media europea del 57,6%) e, dato ancor più significativo, per l’81,3% sul totale degli occupati (contro una media europea del 67,1%). Nella UE solo la Grecia ha valori così alti, mentre altri paesi come la Francia o la Germania, economicamente più comparabili con l’Italia, hanno valori molto più bassi. Questo è un dato storicamente stabile nell’evoluzione italiana del dopoguerra.

Conoscendo le dinamiche sociali e umane che regnano all’interno delle piccole e piccolissime imprese, delle relazioni di subalternità anche psicologica dei dipendenti delle PMI nei confronti dei propri datori di lavoro, gli oltre 12 milioni di lavoratrici e lavoratori dipendenti che operano in quel mondo (assieme ai loro 3 milioni di piccoli imprenditori e agli oltre 5 milioni di “lavoratori autonomi”) sono sempre stati un oggetto importante nell’azione delle forze politiche italiane, che sanno, per sperimentata pratica, che la conquista del consenso di un padroncino può portare con sé anche il consenso dei suoi dipendenti.

Tanto che, dopo la “svolta di Salerno” che Togliatti impresse al PCI nel 1944 prima ancora della sconfitta definitiva del fascismo, avviando la ricostruzione del partito come “partito di massa”, lo stesso Partito comunista italiano decise di promuovere con significativo successo la costruzione di organizzazioni che raccogliessero i padroncini delle piccole imprese. Cosi il PCI incoraggiò la formazione di varie associazioni di settore (proprietari di distributori di benzina, commercianti ambulanti e in sede fissa, agenti di commercio, ecc.). Queste, nel 1971, confluirono nella costruzione della Confesercenti che in seguito allargò la sua azione a tutto il mondo delle imprese commerciali. Già prima era stata creata la CNA, la Confederazione nazionale dell’artigianato e della piccola e media impresa. Queste organizzazioni hanno avuto un ruolo tutt’altro che marginale nello sviluppo della sinistra riformista italiana e hanno organizzato anche importanti mobilitazioni (è passato alla storia lo sciopero dei benzinai organizzato non a caso proprio nel 1968 e che conquistò per la categoria un importante riequilibrio nei margini di profitto tra piccoli operatori e grandi imprese petrolifere). 

Erano organizzazioni dominate dal PCI: il loro organigramma veniva definito dalla segreteria del partito e venivano gestite con il sistema delle componenti legate ai diversi partiti di sinistra (PCI, PSI e, per un certo periodo anche il Partito repubblicano), sistema direttamente mutuato da quello vigente nella Cgil.

Quelle organizzazioni ebbero un ruolo importante nel radicamento e nello sviluppo del PCI, in particolare nelle regioni del Centro Italia (Toscana, Emilia Romagna, Marche, Umbria) dove il partito per alcuni decenni riuscì ad essere una sorta di “partito-stato”, grazie al capillare radicamento non solo nella classe lavoratrice ma anche in quelli che venivano chiamati i “ceti medi”, comprendendo tra questi anche imprenditori proprietari di aziende con oltre 100-150 dipendenti.

Sono associazioni che poi, per motivi intrinseci alla loro composizione sociale, hanno seguito, stimolato e per certi versi persino preceduto la svolta a destra di quello che fu “il più grande partito comunista dell’Occidente”. Oggi quelle organizzazioni (assieme alla storica e potentissima Lega delle Cooperative, che organizza i “proprietari” di oltre 15.000 cooperative e che ha avuto un ruolo importante nella precarizzazione del lavoro dipendente nel paese) non sono più distinguibili dai loro omologhi di destra (Confcommercio, Confartigianato, Confcooperative, ecc.), hanno da lungo tempo abbandonato ogni legame con la sinistra politica e hanno adottato un orientamento totalmente improntato all’ideologia liberale.

Oggi il mondo dei piccoli imprenditori italiani è complessivamente su posizioni di destra, spesso del tutto reazionarie. E, nel gioco competitivo della rappresentanza del padronato italiano, le organizzazioni dei piccoli imprenditori hanno espresso persino critiche “da destra” nei confronti della stessa Confindustria, considerata “eccessivamente disponibile alla concertazione con i sindacati”, troppo subordinata agli interessi della “grande industria”.

La classe lavoratrice dimenticata dalla politica

Tra gli strati sociali oggetto di tutta la politica istituzionale da lungo tempo ci sono, nell’ordine, le imprese (grandi e piccole), ritenute la fonte della creazione di lavoro e di ricchezza, poi i lavoratori autonomi e, infine, le “famiglie” (genericamente intese, al di là della loro più che variegata condizione sociale e reddituale). Nelle preoccupazioni della politica è sostanzialmente del tutto assente la classe lavoratrice con i suoi bisogni e i suoi interessi, per non parlare della “classe operaia”, della cui “sparizione” tutti (anche a sinistra) hanno dottamente discettato, dimenticando che le lavoratrici e i lavoratori dipendenti in Italia (dati Istat 2022) sono 18,2 milioni.

Di questi 18,2 milioni, 3.182.000 (pari al 17,5%) hanno un contratto precario o a termine. Si tratta di una percentuale abnorme, se si guarda alla media europea (15,3%) e alle principali economie (Germania 11,4%, Francia 15%). 

Analogamente abnorme è il part-time “involontario”: in Italia il 62,8% degli occupati part-time dichiara che il lavoro parziale gli è stato imposto dalle imprese, contro un 23,3% medio dell’Eurozona, un 53,4% della Spagna, un 28,3 della Francia, un 7,1% della Germania (dati Eurostat).

Sul totale dei lavoratori dipendenti in Italia, salvo un 15% circa di dirigenti e quadri, il resto (l’85%, 15,5 milioni di persone) è concentrato nelle qualifiche tecniche, esecutive o manuali. Anche a questo proposito si tratta di una situazione molto diversa da quella di altre economie europee comparabili. In Germania i lavoratori con mansioni medio-basse sono il 76% del totale, in Francia il 71%, persino in Spagna sono il 77,5%. La media dell’Eurozona è del 75%. 

Le donne nel mercato del lavoro

Nel 2021, nonostante il rimbalzo dell’economia, le donne occupate hanno continuato a diminuire: sono 9.448.000, alla fine del 2020 erano 9.516.000, nel 2019 erano 9.869.000. Dunque durante la pandemia 421.000 donne hanno perso o non hanno trovato lavoro. 

Il tasso di attività femminile (la percentuale di donne in età lavorativa disponibili a lavorare) è al 49,4%, circa 2 punti percentuali in meno di prima del Covid e comunque lontanissimo da quello degli uomini, pari al 72,9%.

L’Italia, perciò, si colloca all’ultimo posto tra i paesi europei, superata anche da Grecia e Romania, che con 10 punti in più (59,3%) la precedono nella graduatoria. Ovviamente la pandemia ha inciso su questi dati, ma le donne in Italia da sempre sono costrette, di più di quanto non accada in altri paesi europei, a dover gestire il doppio carico figli e lavoro. 

La situazione salariale

L’Italia sconta da sempre una situazione di forte disparità salariale con le altre principali economie europee. I dati dell’Eurostat (2021) ci dicono che, a fronte di un salario medio lordo di € 37.382 nell’Eurozona, di € 44.468 in Germania e di € 40.170 in Francia, in Italia siamo molto al di sotto, con € 29.440. Il differenziale si mantiene anche nei salari netti. Il reddito medio annuo disponibile di un lavoratore italiano inquadrato a tempo pieno e senza carichi familiari è di € 22.339. In Germania è di € 29.776 e in Francia di € 24.908. Peraltro il differenziale in questi ultimi decenni, invece che tendere a colmarsi si è andato ampliando, dato che negli ultimi trent`anni, tra il 1990 e oggi, l’Italia è l’unico paese dell’Ocse in cui le retribuzioni medie lorde annue in termini reali sono diminuite (-2,9%, contro il +33,7% della Germania e il +31,1% della Francia). 

La cosa è anche politicamente percepita dall’opinione pubblica. Lo testimonia il 55° Rapporto del Censis, secondo cui per il 30,2% degli italiani al primo posto tra i fattori che frenano l’occupazione dei giovani (e più in generale dei lavoratori) ci sono le retribuzioni disincentivanti che i datori di lavoro (stato compreso) offrono in cambio della prestazione lavorativa anche nei confronti di chi dispone di competenze e capacità adeguate.

Questo fatto, la scarsa attrattività salariale del lavoro, anche di quello qualificato ma sottopagato, contribuisce a generare l’ampio fenomeno degli oltre 3 milioni di NEET (Not in Education, Employement or Training, cioè che non studiano, né lavorano, né ricevono una formazione) nella fascia 15-34 anni, pari al 25,1% del totale (dati Eurispes).

A questi dati va aggiunto il dato del gender gap nelle retribuzioni che raggiunge circa il 20%. Ad esempio un lavoratore con laurea di primo livello (triennale), a parità di mansioni e di orario, percepisce in Italia mediamente € 1.651 se uomo e solo € 1.374 se donna. Ma il gap raggiunge il 43,7% se si tiene conto delle retribuzioni reali. Cioè le donne lavoratrici guadagnano mediamente poco più della metà di quello che incassano i colleghi maschi, a causa, oltre che del gap retributivo, anche del part-time volontario o imposto, della minore dinamica di carriera e delle più frequenti interruzioni di carriera a causa dei figli e in genere dei carichi familiari. Dunque, in genere, il lavoro femminile e il salario percepito dalle donne sono considerati all’interno delle famiglie italiane fattori accessori. Chi “porta a casa i soldi”, perciò, nella percezione dell’opinione pubblica, resta l’uomo, che viene per questo considerato il “capofamiglia” indiscusso e indiscutibile.

Questa realtà indiscutibilmente rende evidente una gravissima responsabilità dei tre principali sindacati (Cgil, Cisl, Uil) che denunciano complessivamente 11,3 milioni di iscritti (la metà circa tra i pensionati) ma che, almeno a partire dagli anni 80, hanno lasciato senza difese la loro base sociale.

Gli immigrati nell’economia italiana

All’inizio del 2021 erano 5.171.894 i cittadini stranieri regolarmente iscritti nelle anagrafi comunali (per il 51% donne), con un’età media di 33 anni per le donne e di 31 anni per gli uomini. Costituiscono l’8,7% del totale della popolazione residente, ma incidono per più dell’11% sui lavoratori occupati. A questi vanno aggiunti circa 220.000 immigrati regolari ma non iscritti in nessuna anagrafe e circa 520.000 privi di un valido titolo di soggiorno. 

Arrivano in prevalenza da altri paesi della UE (1,4 milioni, in particolare dalla Romania), da altri paesi europei extra UE (1,05 milioni, soprattutto Ucraina e Albania), dal Nordafrica, da Bangladesh, India, Pakistan, Afghanistan, Cina, ecc. 

L’Italia risulta il 14° paese nella UE come percentuale di stranieri residenti sul totale della popolazione. Se si considerano solo gli stranieri non europei, risulta il 9° paese.

Gli immigrati partecipano alla creazione del PIL per 134,4 miliardi di euro annui (cifre 2020), pari al 9% del PIL italiano. La loro occupazione si concentra soprattutto in agricoltura, edilizia e alberghi e ristoranti, dove la percentuale di PIL prodotta dagli immigrati è superiore al 17%. Il reddito medio pro-capite degli stranieri è di circa € 22.600 corrispondente a circa tre quarti di quello medio nazionale (€ 29.500).

Complessivamente, tra tasse e contributi versati, gli immigrati contribuiscono per oltre 28 miliardi di euro al bilancio dello stato.

Gli effetti sociali complessivi, le disuguaglianze

E’ molto significativa la dinamica storica dell’indice di Gini, usato per misurare le disuguaglianze nel reddito e nella ricchezza. L’indice sul reddito infatti è diminuito lentamente ma quasi linearmente fino alla fine degli anni Sessanta, quando ha raggiunto quota 0,37. Poi, evidentemente sulla base delle lotte del decennio successivo, in pochi anni scese fino al livello di 0,30 nel 1981, un livello del tutto inconsueto in un paese capitalista. Poi, più lentamente e contraddittoriamente, scese addirittura fino al livello 0,29 del 1991. Ma l’anno successivo, con l’accordo per la cancellazione della scala mobile dei salari, venne inaugurata la politica della concertazione e dell’austerità. E l’indice riprese a salire, in maniera rapida, tornando a 0,34 nel 1993 e poi salendo, lentamente fino allo 0,43 che la Banca d’Italia ha registrato lo scorso anno.

Oltre all’indice sulla disuguaglianza dei redditi, la Banca d’Italia registra anche l’indice sulla disuguaglianza nei patrimoni accumulati (per il 2021 pari a 0,68). Il patrimonio netto medio del 5% delle famiglie più ricche è di 1,6 milioni di euro, mentre la “ricchezza media” del 30% delle famiglie più povere è di € 8.700. Il 30% degli italiani detiene meno del 2% del patrimonio totale italiano. E hanno perso terreno anche i “ceti medi”, scesi ad una ricchezza media di € 206.000 contro i 222.000 di quattro anni prima. Il “50% meno ricco delle famiglie”, scrive Bankitalia, lo scorso anno “possedeva solo l’8% del patrimonio netto complessivo mentre la metà di quest’ultimo era detenuta dal 7% più ricco”.

Secondo il 13° Global Wealth Report del Credit Suisse Research Institute, pubblicato il mese scorso, per i ricchi italiani le cose sono andate decisamente bene: il numero dei cosiddetti “ultra high net worth individuals”, cioè coloro che in Italia possono contare su una ricchezza superiore ai 100 milioni di dollari, è aumentato del 17%: erano 1.157 nel 2020 e sono diventati 1.356 nel 2021, 103 dei quali hanno un patrimonio di oltre 500 milioni di euro.

Gli effetti sociali complessivi, il boom della povertà

La “crescita economica” vantata dal governo Draghi e tanto decantata dai mass media in realtà è andata ai ceti più ricchi, dato che il reddito medio disponibile per le famiglie resta al di sotto dei livelli pre-covid. Anzi, aumenta di 5 punti percentuali il numero delle famiglie che dichiarano di aver visto peggiorare la propria situazione economica rispetto all’anno precedente: dal 25,8% del 2019, al 29% del 2020 per arrivare al 30,6% del 2021.

Sono molto eloquenti anche i dati relativi alla povertà assoluta, che in Italia (dati Istat) è in crescita incontrollata dal 2007 (quando coinvolgeva poco più di 800.000 famiglie, pari a 1,8 milioni di individui) ad oggi. L’aumento ha avuto una battuta d’arresto significativamente nel 2019, in coincidenza con la con l’adozione da parte del governo del “reddito di cittadinanza”, ma poi, dall’anno successivo ha ripreso a salire fino a raggiungere nel 2021 quasi 2 milioni di famiglie, pari a 5.600.000 individui.

La povertà assoluta, che coinvolge dunque un residente ogni 10 abitanti, si concentra tra i giovani minorenni (poveri al 14,2%, dato che le famiglie povere contano più figli della media). Molto significativamente è in crescita anche tra gli occupati, i working poor (tra chi lavora la povertà è passata dal 3,1% del 2011 al 7% del 2021) e in particolare tra gli operai (dove è più che raddoppiata dal 6,1% del 2011 al 13,3% di oggi). Tra i residenti stranieri raggiunge livelli altissimi (30,6%), ed è un fenomeno largamente prevedibile perché in una situazione di crisi economica i primi a entrare in difficoltà sono proprio coloro che, come gli stranieri, hanno un lavoro precario e spesso al di sotto della preparazione professionale posseduta.

Sono 10,7 milioni le lavoratrici e i lavoratori che in Italia hanno un reddito lordo inferiore ai 20.000 euro. La metà di essi (5,25 milioni) non arrivano a 10.000 euro (dati dell’Agenzia delle Entrate).

Pochi giorni fa, in occasione della “Giornata internazionale di lotta alla povertà”, la Caritas italiana ha presentato il suo “21° Rapporto sulla povertà e sull’esclusione sociale” dall’emblematico titolo “L’anello debole”. La Caritas, il braccio caritatevole dei vescovi cattolici italiani, forte dei  2.800 “centri di ascolto” che gestisce su tutto il territorio nazionale, come aveva fatto con i rapporti degli scorsi anni, compila il suo rapporto 2021-22 usando i dati raccolti nel maxi campione delle 227.556 persone assistite nel solo 2021. 

Così veniamo a sapere che, se nel Nord del paese coloro che hanno chiesto aiuto alle strutture della Caritas sono in prevalenza stranieri (65,7%), nel Sud accade il contrario, con una prevalenza di italiane e italiani (74,5%). Nel 2005, quasi la metà degli stranieri che si rivolgevano alla Caritas italiana (per l’esattezza il 44,5%) proveniva dall’Europa dell’Est (nell’ordine da Romania, Ucraina, Moldavia, Albania e Polonia). Oggi, al contrario, il 48,8% proviene dal continente africano (in particolare dalle nazioni maghrebine e nordafricane). 

Gli effetti sociali complessivi, la crescita del malessere sociale

Alcune settimane fa, d’altra parte, era stato pubblicato il “Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile” (BES) dell’ISTAT, l’istituto statistico nazionale. In rapporto fornisce un quadro complessivo dell’evoluzione del “benessere” nel corso dei due anni di pandemia, esaminando le differenze tra i vari gruppi di popolazione e tra i territori.

Cresce il numero delle persone che con il proprio reddito non riesce ad arrivare alla fine del mese (9%) e cresce fino al 6,1% il numero di persone in “grave deprivazione abitativa”.

Il rapporto ISTAT mette anche in luce il peggioramento delle “relazioni sociali”, riportando che tra il 2019 e il 2021 diminuisce di ben 10,2 punti percentuali la quota di popolazione che si dichiara “molto o abbastanza soddisfatta delle relazioni amicali” (dall’82,3% al 72,1%), toccando il valore più basso negli ultimi trent’anni. La situazione delle relazioni sociali è particolarmente grave tra gli adolescenti (14-19 anni). Crescono coloro che denunciano l’impossibilità di “contare sugli amici”. Parallelamente alle relazioni sociali si sono degradate anche le “relazioni familiari”, ambito nel quale gli insoddisfatti aumentano del 2,6%, anche qui con un’insoddisfazione particolarmente acuta tra i giovani. 

Dunque, si registra, del tutto prevedibilmente, un crollo della solidarietà sociale. La stessa attività di volontariato nell’associazionismo solidale, che nel paese era sempre stata alta, tende a contrarsi, sia a livello di partecipazione diretta sia a livello di semplice contribuzione finanziaria, anche qui attestandosi sui livelli più bassi dal 1993.

Continua ad essere bassa la “fiducia nella politica”. Il voto che viene attribuito ai partiti è di “gravissima insufficienza” (3,3 su una scala da 0 a 10), al parlamento di 4,6 e di 4,8 al sistema giudiziario. Resta alta invece la considerazione su “forze dell’ordine” e vigili del fuoco (7,5), ed ancora più alta è la considerazione nel “personale medico e paramedico” con un voto che supera 8.

Si mantiene l’affollamento delle carceri, dove il numero delle persone detenute è sempre superiore ai posti messi a disposizione: oggi ci sono 107 detenuti ogni 100 posti disponibili (dati ministero della Giustizia).

E’ necessario anche sottolineare che la vicenda del Covid e la sua gestione da parte del governo, come evidenziato dal Censis (Centro Studi Investimenti Sociali, uno dei più accreditati istituti di ricerca socio-economica) nel suo 55° Rapporto sulla situazione sociale), hanno fatto emergere “un’irragionevole disponibilità a credere a superstizioni premoderne, pregiudizi antiscientifici, teorie infondate e speculazioni complottiste”. Il Censis attesta che il 19,9% degli italiani considera infatti il 5G uno “strumento molto sofisticato per controllare le menti delle persone”; il 5,8% è sicuro che “la Terra sia piatta” e il 10% è “convinto che l’uomo non sia mai sbarcato sulla Luna”.

Questo tipo di fenomeni agevola la penetrazione delle idee “complottiste” ampiamente sostenute dalle varie forze di estrema destra sulla “grande sostituzione”, teoria che, secondo il Censis, ha contagiato il 39,9% degli italiani che, certi del pericolo della sostituzione etnica, accreditano l’idea secondo cui “identità e cultura nazionali spariranno a causa dell’arrivo degli immigrati, portatori di una demografia dinamica rispetto agli italiani che non fanno più figli, e tutto ciò accade per interesse e volontà di presunte opache élite globaliste”.

Gli effetti sociali complessivi, altri squilibri di genere

Vale la pena di rilevare che, nonostante la “novità” della prima presidente del consiglio dei ministri donna, e nonostante che dalle elezioni del 2013 sia in vigore il sistema della “doppia preferenza” (nel voto una preferenza ad una candidata donna e una ad un candidato uomo, pena la nullità del voto), l’equilibrio di genere nella politica e nelle istituzioni italiane ristagna verso il basso. Nelle recenti elezioni politiche del 25 settembre solo il 31% dei parlamentari eletti sono donne, persino in calo rispetto al 35% della precedente legislatura. Evidentemente il calo del numero degli eleggibili deciso con la riforma costituzionale del 2020 ha falcidiato soprattutto le donne. 

Ed è molto significativo che il partito con meno donne elette sia proprio Fratelli d’Italia, quello della neo presidente Meloni (solo 50 su 185 parlamentari, il 27% del totale). 

C’è solo un 22,3% di donne elette nei consigli regionali, collocando l’Italia nel 2021 oltre 12 punti percentuali al di sotto della media europea (34,6%). Nelle “posizioni apicali” (Corte costituzionale, Consiglio superiore della magistratura, le diverse Authority, il corpo diplomatico, ecc.) le donne non raggiungono il 20%.

Sull’equilibrio di genere, il privato sembra funzionare molto di più del pubblico, visto come cresce la presenza femminile nei consigli di amministrazione delle grandi società quotate in borsa (41,2%, qui 10 punti percentuali in più della media dei 27 Paesi dell’Unione, 30,6%).

Lo squilibrio di genere è particolarmente grave nell’ambito della “sicurezza personale”: il 92,2% delle donne uccise violentemente è stato ucciso da una persona conosciuta (dato in aumento dal 2018 quando si attestava all’81,2%): circa 6 donne su 10 sono state uccise dal partner attuale o dal precedente, una su 4 da un familiare (inclusi i figli e i genitori) e una su 11 da amici, colleghi, ecc. La situazione è molto diversa per gli assassinii di uomini: solo 4 su 10 sono stati uccisi da una persona conosciuta e solo 3 su 100 da un partner o ex partner, mentre il restante 60% risulta ucciso da uno sconosciuto o da un assassino non identificato.

Gli effetti sociali complessivi, i servizi

Il Servizio sanitario nazionale, creato con la riforma progressista del 1978, progettato per fornire assistenza sanitaria completa all’intera comunità, senza distinzioni di genere, residenza, età, reddito o lavoro e che aveva portato l’Italia ad avere la terza aspettativa di vita più alta al mondo (83,6 anni), si è ormai frammentato in 20 sistemi regionali. La spesa pubblica per la sanità (nel 2019, prima dell’impennata dovuta alla pandemia) era pari al 6,8% del PIL, inferiore a quella della Francia (8%) e della Germania (7,3%). E aveva conosciuto, grazie ai tagli dei governi Berlusconi e Renzi, il calo di un punto di PIL in meno di 10 anni.

I tagli hanno comportato un’inevitabile maggiore spesa a carico dei privati che nel 2018 (ultimi dati disponibili) ha raggiunto la cifra di 41,8 miliardi (a fronte di una spesa pubblica di 113 miliardi). E anche cresciuta la rinuncia a prestazioni sanitarie ritenute necessarie, rinuncia dovuta al ridimensionamento del servizio sanitario, in particolare in alcune regioni, alle lunghissime liste di attesa, agli eccessivi costi dell’offerta privata, ecc. Vale la pena di ricordare che in Italia nel corso del decennio 2009-2019 i posti letto ospedalieri sono diminuiti da 3,7 ogni 1.000 abitanti a 3,2, a fronte di una media OCSE di 4,4.

Nel 2020, in Italia, 1 cittadino su 10 ha dichiarato di aver rinunciato, pur avendone bisogno, a ricoveri, visite specialistiche o accertamenti diagnostici; nel 2019 la quota era pari al 6,3%. Sul dato del 2020 in aumento del 40% rispetto all’anno precedente, ha inciso, ovviamente, occorre dirlo, la pandemia da COVID-19, ma bisogna anche segnalare che al Nord, dove reddito disponibile e accessibilità ai servizi sono maggiori rispetto alla media nazionale, si rinuncia molto meno alle cure.

A fronte di circa 3 milioni di cittadini non autosufficienti che necessitano di un’assistenza che lo stato non fornisce, si contano oltre 1,3 milioni di badanti, con una spesa, per le famiglie che possono permettersela, di 10 miliardi l’anno. Le famiglie che non possono permettersi questa spesa si arrangiano, in grandissima prevalenza, ovviamente, a danno delle donne.

Permangono anche differenze territoriali nell’erogazione di acqua. Ad esempio, la quota di famiglie che dichiara l’assenza o una grave irregolarità del servizio idrico è pari al 9,4% (dato del 2021), ma al Nord questa carenza è denunciata dal 3,3% delle famiglie, mentre nel Sud sono il 18,7%. E’ altissima (42,0%) la percentuale di perdite idriche totali della rete nazionale di distribuzione: ciò significa che ogni 100 litri immessi nel sistema, ben 42 non sono erogati agli utenti e che, a causa delle cattive condizioni dell’infrastruttura idrica, si disperdono 3,4 miliardi di metri cubi d’acqua all’anno: 156 litri al giorno per abitante. La manutenzione e la risistemazione della rete idrica potrebbe essere una “grande opera”, ma le forze politiche sono impegnate a vaneggiare sulla TAV Torino-Lione e sul ponte sullo stretto di Messina…

In questo quadro non è difficile collocare il successo della destra e dell’estrema destra fino ad ora ai margini del sistema politico italiano. Naturalmente il retroterra sociale e culturale ha fatto la sua parte, anche se un ruolo centrale hanno svolto la “trasformazione genetica” di quella che un tempo era “la sinistra più forte d’Europa”, che ha abbandonato ogni rapporto con i ceti più poveri e più disagiati, lasciandoli in balia della disillusione politica o, peggio, della demagogia reazionaria, e la linea della “concertazione subalterna e complice” adottata dai principali sindacati italiani, che hanno lasciato le lavoratrici e i lavoratori del tutto inermi di fronte all’offensiva liberale e padronale, hanno messo in discussione la solidarietà di classe, consentendo e a volte perfino agevolando la frammentazione e la differenziazione contrattuale nei luoghi di lavoro, la diffusione della precarietà e, in definitiva, il far ritenere ineluttabile la politica padronale.

Naturalmente questo articolo non è finalizzato ad analizzare questi fenomeni politici e sindacali, su cui torneremo in futuro con altre riflessioni.