La scuola del merito per studenti e docenti

di Maria Izzo

Tra le novità del nuovo governo c’è la denominazione del ministero dell’Istruzione cui è stato aggiunto “e del Merito”. Con quest’ operazione cosmetica si è esplicitato l’obiettivo perseguito negli ultimi tre decenni da tutti i vari ministri che si sono avvicendati in quel ruolo. Per quanto possa apparire paradossale, e non lo è per niente, l’ideologia meritocratica è stata, infatti, la bussola che ha guidato la politica della scuola e dell’università dalla riforma Gelmini in poi.

La scuola del merito

Il concetto di merito o competitività è entrato, infatti, a pieno titolo, negli ultimi anni, nella narrazione collettiva in particolare per quanto riguarda la scuola, quindi la dicitura voluta dal nuovo governo risponde pienamente all’idea di continuità con altri governi. Non c’è dunque nessun paradosso nella nuova denominazione del ministero dell’Istruzione e del Merito: si vuole solo rendere comprensibile che la linea politica in questo settore non sarà cambiata. Niente di nuovo insomma

La meritocrazia, ci ricordava Bruno Trentin nel 2006, come forma originaria e ideologica di esclusione dal potere «era stata respinta come una sostituzione della formazione e dell’educazione». Queste sole possono essere assunte come criterio di riconoscimento dell’attitudine di qualsiasi lavoratore di svolgere la funzione alla quale era candidato. Già Rousseau e, con lui, Condorcet, respingevano con rigore qualsiasi criterio, diverso dalla conoscenza e dalla qualificazione specializzata, di valutazione del “valore” della persona e lo riconoscevano come una mera «espressione di un potere autoritario e discriminatorio». E tuttavia, già dalla seconda metà del Novecento, è divenuta egemone una concezione del “merito” come elargizione di un premio da parte del potere e, dunque, come esclusione sociale.

Le politiche degli ultimi vent’anni hanno consolidato l’ideologia neoliberale nella quale merito e mercato diventano sinonimi. La meritocrazia è diventata la parola “chiave” su cui orientare i processi di trasformazione della scuola collegandola al concetto d’imprenditorialità. Non meraviglia, quindi, che il nuovo governo abbia deciso, dopo la cancellazione dell’aggettivo “pubblica” (una prima volta nel 2001 e quindi, stabilmente, dal 2008) di aggiungere al nome del Ministero dell’Istruzione il “merito”. Il “merito” è tuttavia  l’opposto della scuola costituzionale a partire  dall’articolo 34 quello che Piero Calamandrei definì «il più importante di tutta la Costituzione». Esso recita: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi».

Il “merito”  aveva un particolare significato positivo nella Carta e presupponeva una forte forma d’inclusione sociale, proprio a partire  dalla scuola dell’obbligo e dalle condizioni economiche di partenza. Dagli anni Sessanta, grazie allo stimolo di grandi movimenti sociali che contribuirono in modo caratteristico ad applicare la Costituzione, si sono percorse nel nostro paese nuove consapevolezze pedagogiche orientate al cambiamento del mondo partendo dalla scuola: è quella che, poi, si chiamerà pedagogia democratica. In  quegli anni  si è raggiunto uno straordinario aumento dei livelli d’istruzione dei figli delle classi più svantaggiate, e le probabilità di raggiungere i livelli di apprendimento più alti sono iniziate  a dipendere sempre meno dal reddito delle famiglie di provenienza. Cruciale in questo riscatto fu la mobilitazione comune di studenti e operai, con questi ultimi che conquistarono le «150 ore per il diritto allo studio». Il sapere non solo per controllare il ciclo produttivo, ma soprattutto  per emanciparsi dalla classe di appartenenza.

Lo scontro con la meritocrazia tradizionale della scuola italiana, molto forte in quegli anni, ha prodotto  profondi cambiamenti: il nuovo sapere pedagogico non accettava più il mondo “così com’è” e faceva della scuola il luogo della novità possibile e necessaria. Al contrario, negli ultimi trent’anni ci siamo trovati di fronte a “riforme della scuola” orientate nella direzione opposta, quella di adeguare la scuola al mondo “così com’è” cioè un mondo in cui dominano la ricerca del profitto e il mercato senza regole.

L’articolo 34 della Carta costituzionale aveva quindi un intento molto inclusivo, anche se va letto in tutt’altro contesto rispetto a quello attuale.

La situazione attuale vede infatti una scuola molto diversa rispetto a quegli anni, profondamente modificata da  decenni di politiche scolastiche mirate a un’idea liberista e aziendalistica, una scuola  totalmente piegata a una dimensione economicistica e che dà al concetto di merito tutt’altro valore. La scuola di oggi è  infatti completamente subordinata al paradigma della crescita economica cui la stessa istituzione contribuisce attraverso l’organizzazione dei contenuti didattici, la metodologia ed è su queste finalità che è stabilito il merito e l’eventuale eccellenza sia dei docenti sia degli studenti. 

Secondo questa idea meritevole, infatti, è chi, sia apprendendo sia insegnando, finalizza tutta la sua attività non alla formazione di una personalità autonoma, non alla comunicazione di un sapere ma a un fine esterno che è quello della  crescita economica cui la scuola tuttavia non potrà mai contribuire perché non è nella sua vocazione.

Il concetto di merito riferito agli studenti 

Il concetto di merito, riferito agli studenti nel contesto attuale, riguarda il saper valorizzare una personalità di carattere imprenditoriale, sta quindi non nelle conoscenze che lo studente  è in grado di acquisire ma nelle competenze che dimostra di saper esercitare  e soprattutto nella sua capacità di sapersi destreggiare in un mercato del lavoro che è estremamente diseguale e spietato. Questa idea comporta, come conseguenza, una concezione molto individualistica della didattica, basata su un rapporto molto personalizzato con lo studente, che possa permettere di valutare le doti personali di ciascuno e che sia in grado di emanciparlo verso il traguardo economico auspicato che tuttavia in alcuni casi significa condannare lo stesso alle condizioni di partenza. Spesso, infatti, le doti personali non coincidono con le scelte individuali e questo rappresenta il limite che ci fa affermare che questa strada non consente per niente l’emancipazione, non permette di superare le distinzioni di classe, ma è una strada che serve a bloccare ciascuno nella propria condizione di partenza e impedirne, di fatto, una vera emancipazione.

Il merito quindi, nella logica economicistica, si trasforma in pura competizione per arrivare a quelle che sono considerate le posizioni migliori sapendo bene che non tutti potranno occuparle e in quest’ottica rappresenta uno strumento per andare nella direzione di disuguaglianze e precarietà piuttosto che di uguaglianza e di stabilità necessarie per realizzare  una condizione di realizzazione e soddisfazione personale che è l’obiettivo della vera formazione.

Il concetto di merito riferito ai docenti

La questione del merito tuttavia non riguarda, proprio per le implicazioni che essa comporta, solo gli studenti ma coinvolge direttamente i docenti con l’implicita finalità di premiare quelli che si adeguano, ponendoli in una situazione di vantaggio nell’organizzazione gerarchica della scuola che sempre di più  viene auspicata e si va prefigurando, nonché di irreggimentare e disciplinare gli stessi.

Nel rapporto con gli studenti si traduce nella capacità di riconoscere e quindi considerare meritevoli quelli che meglio sanno valorizzare quelle doti richieste dal mercato del lavoro e dal mondo economico partendo dal presupposto che ogni studente ha delle potenzialità personali che hanno la possibilità di essere cooptate in modo positivo nel suo futuro di lavoratore ed è quindi dovere del docente farle emergere quindi il merito sta nel saper valorizzare questa personalità di carattere imprenditoriale.

Per quanto riguarda la figura del docente sono quindi meritevoli coloro che meglio si adeguano ai nuovi paradigmi economicistici e alle metodologie didattiche pensate per valorizzarli, quelle fondate sulle competenze, sulle capacità trasversali (che tuttavia sono acquisite da contenuti e metodologie concernenti saperi specifici), coloro i quali insomma si rendono disponibili a perseguire l’idea di scuola che tutto questo sottende.

Disuguaglianze e meritocrazia 

Da tutto questo si evince che il concetto di merito, così come lo si concepisce, si presenta quindi come un concetto falsamente oggettivo che serve unicamente per favorire ulteriormente le disuguaglianze, già così fortemente evidenti nella nostra società, e per costringere i docenti ad uniformarsi ad un unico paradigma, impedendo di fatto la libertà di insegnamento in maniera tale che da questo tipo di scuola possano formarsi soggettività poco critiche, capaci di operare in progetti collettivi ma incapaci di creare una propria coscienza critica attraverso la quale siano capaci di individuare le positività e le negatività della società cui andranno a fare parte. Una idea di scuola insomma totalmente diversa da quella rappresentata nella nostra Costituzione.

In questo contesto e a conferma di questa idea si inserisce il lavoro di schedatura di massa operato dall’istituto di valutazione INVALSI che ha da poco avviato una sorta di censimento degli studenti cosiddetti “fragili” attraverso la rilevazione dei cosiddetti indicatori di fragilità individuali che dovrebbero servire a supportare le scuole nella “riduzione dei divari”, una delle missioni del PNRR

La rilevazione avviene attraverso codici che consentono di associare il valore dell’indicatore di fragilità alla scheda di ciascuno studente senza che i genitori degli stessi studenti siano informati riguardo al bollino di fragilità attaccato ai loro figli.

L’algoritmo Invalsi sancisce “oggettivamente” per milioni di studenti una condizione di fragilità scolastica che viene paragonata a una condizione fisica: come dire: “se ho determinate caratteristiche fisiche, sono esposto a determinati rischi”.

Gli studenti che ricevono la patente di disagio e fragilità di stato, sono in larga percentuale appartenenti a precise categorie sociali. La schedatura INVALSI non è solo allarmante perché assegna un’etichetta individuale in funzione di una valutazione algoritmica non controllabile. È ancora più allarmante perché, nei fatti, si risolve in una classificazione dei poveri, etichettati in massa come “fragili” o “potenzialmente disagiati” e suddivisi nelle caste di livello “due”, “uno” o “zero”. In quale altra democrazia liberale, o in quale altro paese, si è realizzata una schedatura di massa di queste dimensioni? 

Il fine è evidente. Da un lato si vuole evidenziare gli studenti definiti fragili come studenti più deboli e quindi necessari di sostegno dall’altro si vuole in maniera tacita stilare una sorta di graduatoria di merito  dove questi stessi studenti andranno ad occupare le posizioni più basse e saranno quindi ulteriormente svantaggiati in un’eventuale loro futura collocazione nel mondo del lavoro. Altro che emancipazione…

La stesso bollino poi  andrà a certificare nel prossimo futuro quegli insegnanti  non allineati che risulteranno inadeguati perché non sufficientemente formati.

I dati INVALSI sulla famigerata “dispersione implicita”, insomma, potrebbero tornare utili per bastonare anche quei cialtroni di insegnanti che ora saranno cialtroni certificati, come i loro studenti, che sono “incompetenti” col bollino di Stato.

Quanto ancora siamo disposti, docenti e studenti, a sopportare?