La sinistra, che ho fatto per meritarmi tutto questo?

di Flavio Guidi, dalla rivista “CICLOSTILE”, dell’Associazione Memoria in movimento, di Salerno

In questo ottobre 2022, tentando di scacciare dalla mente un altro orribile ottobre di un secolo prima, potrebbe essere questa la domanda che si pone una persona “di sinistra” in Italia. Un paese che era ritenuto, a torto o a ragione, uno dei “fari” della sinistra europea (e per certi versi mondiale) almeno fino alla fine degli anni Settanta (e, in un certo senso, in settori non marginali della sinistra cosiddetta “radicale”, un esempio quanto meno da studiare, grazie all’esperienza di Rifondazione Comunista, almeno fino al 2006).

Comunque, che risalga a 42 o a 16 anni fa il punto di partenza del declino apparentemente inarrestabile della sinistra italiana, è un dato di fatto difficilmente contestabile che il nostro paese sia ormai più o meno il fanalino di coda, almeno in Europa, per tutto ciò che odora a sinistra. Il paese di Malatesta e Turati, di Bordiga e di Gramsci, e, si parva licet, di Nenni, Togliatti, Longo e Berlinguer (vi ricordate gli slogan dei cortei del “grande partito comunista”?) è ormai diventato, nell’immaginario europeo, il paese da operetta dei Berlusconi, Bossi, Salvini ed ora, ahimè, delle Meloni. Non ho l’ambizione, in questo breve articolo, di analizzare gli aspetti, diciamo così, strutturali che sarebbero, secondo molti, alla base di questo declino.

Chi parla di “nuova composizione di classe”, altri di “scomparsa della classe operaia”, chi azzarda analisi sociologiche ipotizzando un imborghesimento, un’atomizzazione individualistica delle “masse popolari” scomodando Pasolini, ecc. ecc. Probabilmente ci sarebbero ragioni fondate, qua e là, in tutti questi approcci. Io mi limito, su questo terreno, al dato bruto, numerico, che dovrebbe quanto meno rendere più problematiche questo tipo di riflessioni: i lavoratori dipendenti, i salariati, sono cresciuti di oltre 5 milioni tra la metà degli anni ‘70 e gli inizi degli anni Venti del XXI secolo, passando da 13 a oltre 18 milioni (anche se gli operai dell’industria sono scesi da 8 a 6 milioni nello stesso periodo). Quindi più lavoratori dipendenti, più proletari, ma molta meno “sinistra”. Arrampicarsi sugli specchi di una sociologia a buon mercato spiega, quindi, molto poco. Molto più interessante, dal mio punto di vista, dare un’occhiata al famoso “fattore soggettivo”, cioè ai partiti e alle organizzazioni che pretendono (o pretendevano) di rappresentare il movimento dei lavoratori, cioè la sinistra in senso stretto (almeno come la si intende dai tempi della Comune di Parigi).

I numeri sono sotto gli occhi di tutti, impietosi

Lasciando perdere il primo dopoguerra (quando il Partito Socialista era maggioritario, in termini di voti, in quasi tutto il Centro-Nord) e limitandoci agli anni dal 1945 in poi, la percentuale di voti della sinistra ha sempre oscillato intorno al 40/45% tra il 1946 e il 1992, per poi scendere rapidamente sotto il 35 (1994 e 1996), quindi intorno al 25 (2001) e via assottigliandosi. Nell’ultimo decennio le forze che si definiscono “di sinistra” (con un legame esplicito con la tradizione socialista più o meno “marxista”) sono ridotte al lumicino (4/5% dei voti). A voler essere generosi e considerare una parte dell’elettorato del PD (o dei 5 stelle) come espressione, per quanto molto annacquata, di una “sensibilità” di sinistra, credo di non essere lontano dal vero se azzardo un 10-15% al massimo di elettorato “di sinistra”. Ciò significa, nel migliore dei casi, che due elettori su 3 (nel peggiore 8 su 10) hanno abbandonato la sinistra, almeno dal punto di vista elettorale. E dal punto di vista più “militante”?

Ancora peggio. A metà degli anni ‘70 oltre 2 milioni di persone erano iscritte a PCI, PSI e “nuova” sinistra. Si calcola che almeno un quarto di questi fossero dei militanti, con vari livelli d’impegno. Oggi gli iscritti ai vari partiti e partitini dichiaratamente di sinistra arrivano a malapena a 30 mila (dei quali si stima al massimo un quinto realmente attivi). Anche volendo considerare una parte degli iscritti al PD (meno di 400 mila iscritti) come “sinistra”, credo che difficilmente si arrivi a 100 mila persone “di sinistra” iscritte a partiti. Siamo di fronte ad un crollo ancora maggiore di quello verificatosi tra gli elettori, con più del 90% degli attivisti “volatilizzati”. Un disastro senza appello.

La sinistra tra ascese e disfatte

Non è la prima volta nella storia d’Italia che la sinistra viene sconfitta, certo. Dopo la prima ascesa, che raggiunse il suo culmine col biennio “rosso” 1919-1920, arrivò il fascismo. Dopo la seconda ascesa, tra il 1943 e il 1947, ci fu la restaurazione conservatrice ad egemonia democristiana, che durò, con alterne vicende, per un altro ventennio. Ma è una novità la durata e la profondità del riflusso dopo la terza ondata, quella del 1968-1980. Una novità che pone numerosi interrogativi, a cui non è facile dare una risposta. Ovviamente la controffensiva liberal-conservatrice e borghese che, a partire dalla seconda metà degli anni ‘70, ha aperto la strada su scala internazionale alla restaurazione (simboleggiata dal binomio Thatcher-Reagan) è uno degli elementi chiave per comprendere un fenomeno che è comune a molti paesi, non solo al nostro.

Ma è qui da noi che la situazione è particolarmente disastrata. E questo non si può spiegare solo con l’offensiva dell’avversario di classe o con letture “strutturalistiche” cui ho accennato sopra, appunto perché comuni a troppi paesi che però non hanno visto un tracollo della sinistra paragonabile al nostro. Il “surplus” di sconfitta in Italia va cercato “da questa parte della barricata”, non c’è dubbio. A mio avviso, però, non ci si può rifugiare nei facili schematismi, apparentemente opposti, del “tradimento dei dirigenti” o “dell’imborghesimento del proletariato”, anche se elementi riconducibili a queste due vulgatae (magari declinandole in modo meno moralista) sono reali e ben presenti. Esiste un intreccio dialettico tra, da un lato, il più o meno lento abbandono, da parte dei successivi gruppi dirigenti, di ogni prospettiva di tipo anche solo blandamente anticapitalistico, e, dall’altro, la dinamica di atomizzazione individualistica, favorita sia da una serie di conquiste parziali eredità delle lotte degli anni ‘60 e ‘70, sia dall’espansione senza precedenti delle capacità di condizionamento e controllo di vastissimi settori popolari da parte degli apparati ideologici (in primis i mass-media) dell’avversario di classe.

Dirigenti “proletari” che diventano pasdaran del capitalismo

Dal mio punto di vista, è però molto più produttivo (ed anche più facile, lo ammetto) soffermarsi soprattutto sul primo di questi fenomeni. Nella storia del movimento operaio e socialista abbiamo assistito periodicamente a fenomeni di fagocitazione di pezzi di gruppi dirigenti “proletari” da parte dell’establishment borghese. Nel caso italiano, anche non considerando il caso estremo di Mussolini e compagnia, possiamo citare il caso del Partito Socialista Riformista di Bissolati, Bonomi, Podrecca, ecc., tra il 1912 e il 1920, o quello, un po’ più consistente, del Partito Socialista Democratico di Saragat tra il 1947 e il 1993. In entrambi i casi un progetto di socialismo riformista e moderato, contrapposto ad una deriva percepita come “estremista” da coloro che promossero la nascita di queste organizzazioni, finì per perdere (rapidamente e completamente nel primo caso, un po’ più lentamente e con qualche contraddizione – almeno fino agli anni ‘60 -, nel secondo) ogni caratteristica compiutamente socialdemocratica, approdando tranquillamente nell’alveo del liberalismo borghese più piatto e scontato. E lasciando per strada, di fatto, ogni peso all’interno del movimento operaio.

Che infatti reagì, con qualche piccolo scossone (come con “Unità Socialista” nel 1948), recuperando rapidamente, in termini di militanti, voti e peso politico, ed anzi aumentando (nel 1919-21 in modo eclatante, dopo il 1948 con qualche difficoltà in più) la propria influenza nella società. Il fenomeno si ripropose negli anni ‘80 e ‘90, però, e in un clima ben diverso dalle ondate “rosse” del 1919-20 e 1943-47. I due principali partiti della sinistra furono coinvolti, al di là delle contrapposizioni tra di loro, spesso strumentali, in un fenomeno analogo di più o meno lento “scivolamento” dalle precedenti posizioni che prevedevano, se non la rivoluzione proletaria e socialista, quanto meno un più o meno lontano “superamento del capitalismo”, all’inizio verso l’accettazione di un “riformismo” totalmente interno al sistema, ed alla fine addirittura verso l’abbraccio totale di tutte le compatibilità capitalistiche (fino a diventare in un certo senso, negli ultimi vent’anni, dei veri e propri “pasdaran” delle privatizzazioni, per esempio, ed in genere delle politiche economico-sociali ispirate al neo-liberismo più sfrenato).

Il gioco di trovare il momento chiave di questa involuzione è al tempo stesso facile e complesso. Facile trovare nell’elezione di Bettino Craxi (1976) o nella svolta della Bolognina (1990) i due simboli dell’inizio della fine. Complesso perché in entrambe i casi il declino non fu immediato né percepito come tale dagli stessi protagonisti, e non avvenne in modo indolore. Se nel PSI le cose apparvero chiare già pochi anni dopo (con gli anni ‘80 “ruspanti”, col partito che cambiò pelle, simboli, radicamento sociale – ribaltando in un quinquennio lo storico insediamento operaio e settentrionale in quello, nuovissimo, meridionale e clientelare -), per il PCI le cose furono più complicate. Non solo per la rottura di un’ala sinistra relativamente consistente, che darà vita, dopo la fusione col grosso di ciò che rimaneva della “nuova sinistra”, al Partito della Rifondazione Comunista (1991), ma anche per le resistenze interne a quello che restava il principale partito operaio in Italia (seppur con fortune calanti).

Basti seguire l’evoluzione del PDS-DS, le varie mini-scissioni, i progressivi spostamenti, anche simbolici, come l’adesione al Partito Socialista Europeo nel 1994, l’abbandono della (già ridotta) “falce e martello” ai piedi della Quercia (1998), ecc. Solo con l’ingresso nel Partito Democratico nel 2007 (preceduto dalla scomparsa della stessa presenza elettorale dei DS, nel 2006, confluiti nella lista unica dell’Ulivo) si può parlare del “salto definitivo” al di fuori dell’area storica della sinistra legata alla tradizione del socialismo. E che, in entrambi i casi (PSI e PCI-PDS), lo sbocco fosse la fuoruscita dall’alveo della sinistra “storica” lo testimoniano non solo episodi eclatanti (come il fatto che, nel 1994, l’80% degli ex elettori socialisti scegliessero di votare a destra – in particolare Forza Italia, un partito alleato a fascisti e leghisti – piuttosto che il residuale PSI di Del Turco) ma l’intera dinamica politica (e simbolica) dei due ex giganti del movimento operaio italiano.

Le responsabilità della galassia dell’estrema sinistra

Ma la complessità non finisce qui. Oltre che cronologicamente in avanti, può essere fatta risalire anche all’indietro. Infatti, siamo così sicuri che questa fuoruscita sia del tutto imputabile al nuovo corso imposto al PSI da Craxi-Martelli e al PCI da Occhetto-D’Alema? Quanto di prevedibile (e di previsto da non pochi osservatori) della futura decadenza c’era, per esempio, nella svolta “governista” verso il centro-sinistra operata da Nenni a cavallo tra gli anni ‘50 e ‘60? O nelle politiche di unità nazionale legate al compromesso storico portate avanti dal gruppo dirigente del PCI guidato da Berlinguer nella seconda metà degli anni ‘70 (tra l’altro anticipate da Togliatti, in modo ancor più moderato, tra il 1944 e il 1947) che aprirono la stagione della prima “austerità” e dei “sacrifici” per i lavoratori? E, volendo continuare un gioco sempre più azzardato, qualcuno potrebbe anticipare le radici di questi progressivi scivolamenti nella “svolta moderata” dei Fronti Popolari del 1935, o addirittura nelle politiche di Stalin e Bucharin degli anni Venti, e via “estremizzando”.

Come si vede, un gioco a cui la terza componente di questo “campo”, la cosiddetta “nuova” sinistra, o estrema sinistra pre e post 1968, è stata da sempre abituata. E che ruolo hanno avuto, in questo innegabile disastro, gli infantilismi, i settarismi, le fughe in avanti di quella che, pur non potendo competere con i due “giganti”, era pur sempre un’area composta da decine di migliaia di militanti, dotata di tre quotidiani (oltre che, a partire dal 1975-76, di una piccola pattuglia di parlamentari e consiglieri regionali, provinciali, comunali)? Difficile dirlo. Non solo per l’enorme differenza di peso politico tra i due giganti (soprattutto il PCI) e i vari partitini e gruppi dell’arcipelago “gauchiste”, ma anche perché non è possibile costruire a posteriori quale sarebbe stato l’esito di una mai avvenuta unificazione delle disperse forze di allora. Sarebbe stata, questa forza mai nata, in grado di far seriamente concorrenza ai due partiti storici? E, nel caso ciò fosse stato possibile, avrebbe evitato il declino a cui assistiamo da almeno un trentennio?

Nutro dei dubbi, visto che molte delle caratteristiche di PCI e PSI (soprattutto del primo) erano riscontrabili, mutatis mutandis, anche in quell’estrema sinistra apparentemente così “nuova” e innovativa. Difficile, ed anche ingiusto, distribuire le “colpe” del disastro attuale in modo salomonico. Ma non è neppure possibile stilare una graduatoria delle colpe e degli errori basandosi, per esempio, sul solo peso elettorale e “militante”, tralasciando, per esempio, di valutare, da un lato, il peso degli apparati negli equilibri di potere (stato, regioni, città, organizzazioni sindacali ed economiche, ecc.), e dall’altro la diversa capacità di trascinamento di una militanza giovane ed entusiasta rispetto ad una più matura e disincantata.

Complicato anche scegliere quali sono stati i punti di caduta, dal punto di vista programmatico e culturale, che hanno via via portato prima ad annacquare, e poi a superare completamente, gli elementi essenziali del socialismo, fino all’approdo attuale alla weltanschaung liberale (o, per dirla in altro modo, al “pensiero unico” di cui la Thatcher fu precursora col suo “There is no alternative”). I simboli sono certo più visibili, a livello di massa, degli elementi programmatici dei congressi e dei programmi elettorali. E segnano delle tappe che pesano nella coscienza della gente e dei militanti. L’involuzione parallela dei due simboli del PSI e del PCI lo testimonia (e la stessa lentezza del processo, molto simile). Il PSI di Craxi riduce la storica falce e martello, ai piedi del nuovo garofano, nel 1978, e impiegherà 9 anni, fino al congresso del 1987, per farla sparire completamente. Il PCI-PDS di Occhetto e poi D’Alema la riduce ai piedi della Quercia (ma col macigno del cambiamento di nome, che sarà avvertito come “La” rottura da un terzo dei militanti) nel 1991, e la farà sparire 7 anni dopo, con il nuovo cambiamento di nome (da PDS a DS), anche se il grosso degli ex-PCI ed ex-PDS si spingerà ancora più lontano, almeno dal punto di vista simbolico, degli ex-craxiani, abbandonando del tutto, nel 2006-07, ogni simbologia che faccia riferimento al socialismo e persino alla sinistra.

Giova ricordare qui che, nella storia del PCI, quelli del 1991 e successivi, non erano i primi cambiamenti di simbolo e nome. Nel 1944, con la famosa “svolta di Salerno”, Togliatti aveva già imposto il cambiamento di entrambi: alla bandiera rossa con falce e martello era stata aggiunta una bandiera tricolore, e il nome, da Partito Comunista d’Italia (sezione della III Internazionale fino al 1943), era diventato Partito Comunista ITALIANO. Eh, sì, è proprio vero che un metro di ghiaccio non si fa in una notte. Con buona pace di tutti i “nostalgici” di un’età “dell’oro” che così dorata proprio non era.

Per una disanima più approfondita delle dinamiche elettorali della sinistra, si rimando al breve saggio “Ascesa e declino della sinistra politica in Italia: un secolo di elezioni (1919-2018)”, dello stesso autore, uscito in 11 puntate sul blog “Brescia Anticapitalista”