“Farha”, il film che non piace ad Israele (e che ci impedisce di vedere)

L’adolescenza nella Palestina del 1948 (e anche nella Palestina di oggi)

Un esempio della campagna dei media israeliani (qui il sto israelnationalnews

Questa rubrica è intitolata “Consigli per la lettura” (e per la visione), ma questo articolo non può più consigliare nulla perché la piattaforma Netflix che aveva reso disponibile il film “Farha” anche in Italia ha scelto di cedere alle pressioni della potentissima e intoccabile lobby sionista e negazionista e lo ha immediatamente tolto.

La “sola democrazia del Medioriente” (oggi governata da un esecutivo esplicitamente razzista e fondamentalista) con una ben orchestrata campagna di stampa e varie petizioni online (questa ha raccolto in pochi giorni quasi 300.000 firme) ha indotto la piattaforma statunitense a censurare un film basato su fatti storici.

Il film, di produzione giordana, scritto e realizzato nel 2021 dalla regista palestinese residente in Giordania, Darin J. Sallam, è stato presentato al Toronto Film Festival e in concorso al Festival del cinema di Roma, parla del passato, del 1948, quando centinaia di migliaia di palestinesi furono brutalmente espulsi dalle terre in cui vivevano da secoli, per ricordare un capitolo che la storiografia ufficiale volutamente rimuove, per parlare di violenze di massa diffusamente negate, per ripristinare i ruoli di vittima e di carnefice, che i media hanno deliberatamente invertito. Ma parla del passato per parlare anche del presente, di una “sostituzione etnica” vera che l’imperialismo occidentale sta sì lì perpetrando, ma a cui la Russia da decenni sta collaborando, al fine di sbarazzarsi della presenza ritenuta scomoda di tanti ebrei mal sopportati. 

Farha (quattordici anni), vorrebbe non sposarsi (almeno non così giovane) e ambisce a trasferirsi in città per frequentare la scuola superiore e concretizzare così il sogno di diventare insegnante. Il suo progetto è quello di aprire una scuola per sole donne nel suo villaggio, di cui Mukhtar, il padre di Farha, è sindaco.

Ma proprio in quell’anno inizia lo sfollamento forzato dei villaggi, per fare spazio allo stato ebraico che dovrebbe costituirsi. Il padre sindaco si rifiuta di scappare e Farha non vuole andarsene senza di lui, nonostante Farida, la sua amica del cuore, se ne stia andando.

Le bombe israeliane iniziano a cadere sul villaggio e il padre di Farha, per salvarla, la rinchiude nella cantina della casa, ne mura la porta e le promette di tornare presto. Agli orrori che seguono, quando le bande sioniste arrivano nel villaggio, Farha assiste solo attraverso una fessura della cantina, mentre il suo sogno di un futuro diverso svanisce nel sangue, mentre lei, dopo aver combattuto per studiare è passata in un momento a combattere per sopravvivere. 

Dopo una prima parte nella quale nel villaggio si vive un clima da catastrofe imminente, in realtà gran parte del film ha uno sviluppo claustrofobico ma paradossalmente molto empatico, per l’immedesimentazione con la protagonista che si provoca: almeno la metà del film si svolge nel buio della cantina dove Farha è rinchiusa (e con lei lo spettatore) con quel che si intravede dalla fessura e i rumori e i suoni come uniche tracce di quel che avviene drammaticamente fuori.

Nel film, la giovane protagonista, interpretata da Karam Taher, nella sua prima apparizione cinematografica, possiamo affermarlo, è perfetta nella resa degli stati d’animo che il suo personaggio è costretto a vivere.

Aspettiamo che qualche distributore o qualche canale televisivo meno pavido e meno succubo di Netflix ci consenta di rivederlo.