Nakba (“Catastrofe”, l’espulsione sionista dei palestinesi)

Nel novembre 1947, a seguito della Shoah, l’ONU, appena costituita, approvò un piano per dividere la Palestina in due stati, uno ebraico e uno arabo. A quello ebraico venne assegnato il 55% del territorio, sebbene gli ebrei residenti (molti dei quali appena arrivati) possedessero solo il 7% della terra e costituissero non più di un terzo della popolazione. Ai palestinesi (due terzi della popolazione) venne assegnato poco più del 40% della terra. La principale città, Gerusalemme, veniva indicata come “città internazionale”.

Ma le milizie sioniste che irregimentavano la popolazione ebraica non si accontentarono del piano di spartizione e dettero immediatamente il via ad una stagione di violenze e di espulsioni su larga scala dei palestinesi. Ancora prima che lo stato di Israele venisse formalmente costituito (15 maggio 1948), già 250.000 e 350.000 palestinesi erano stati espulsi dalle loro case dai paramilitari sionisti.

Al termine di questa fase i palestinesi espulsi a forza ammontavano a poco meno di un milione di persone (le stime oscillano tra i 750.000 e il milione). Il territorio accaparrato da Israele equivaleva al 78% della Palestina storica.

Più di 400 città e cittadine palestinesi (comprese case, attività commerciali, luoghi di culto) furono sistematicamente distrutte dalle forze israeliane e ripopolate con popolazione ebraica immigrata dall’Europa e da altre parti del mondo tra il 1948 e il 1950. Oltre 1,7 milioni di ettari di terra palestinese furono espropriati con un danno economico (mai risarcito) stimato tra 100 e 200 miliardi di dollari per i palestinesi espropriati.

E’ storicamente documentato che la Nakba (come venne definita e ricordata quella tragica stagione), al fine di creare un clima di terrore e di facilitare così la più rapida ed efficace espulsione dei palestinesi, è stata punteggiata da una fitta serie di feroci massacri da parte delle bande sioniste. Il più famoso si verificò a Deir Yassin il 9 aprile 1948, quando più di 100 uomini, donne e bambini palestinesi furono assassinati dai paramilitari sionisti appartenenti alle due banda Stern e Irgun, rispettivamente guidate da Yitzhak Shamir e Menachem Begin, futuri primi ministri israeliani. Oltre al gruppo Stern e all’Irgun, operò anche la famigerata banda Haganah.

Per sancire anche etnicamente l’esproprio violento delle terre, il governo israeliano, allora guidato da David Ben Gurion, nominò un “comitato per i nomi del Negev”, il Naming Committee del Jewish National Fund, che tra il maggio 1948 e il marzo 1951, assegnò 200 nuovi toponimi.

Oggi, dopo la Nakba, e dopo tutte le successive operazioni di espulsione forzata condotte dai diversi governi di Israele, la popolazione palestinese di rifugiati e sfollati è di circa 7,1 milioni, composta da 6,6 milioni di rifugiati in altri paesi e da 427.000 sfollati interni. Tutti questi vivono nei campi profughi della Cisgiordania occupata, a Gaza e nei paesi limitrofi, a volte a poche miglia di distanza dalle case e dalle terre da cui sono stati espulsi. Trasgredendo numerose risoluzioni internazionali, Israele nega a tutti il diritto di tornare in patria, semplicemente perché non sono ebrei.

La Nakba non terminò nel 1948 ma continua ancora oggi, sotto forma di continua colonizzazione israeliana della terra palestinese per creare e ampliare gli insediamenti delle comunità ebraiche all’interno di Israele, attraverso la distruzione delle case palestinesi, la confisca dei terreni agricoli, la revoca dei diritti di residenza, le deportazioni, periodiche brutali operazioni militari, aggressioni con centinaia e migliaia di vittime civili, come quelle che hanno avuto luogo a Gaza nel 2008/9 e nel 2014.

Quanto a Gerusalemme, la città storica è stata deturpata e devastata attraverso l’installazione prima nella periferia ovest e poi, negli ultimi anni anche in quella est, di vasti insediamenti moderni destinati ai nuovi immigrati ebraici. Nel 1980 lo stato di Israele, attraverso l’ennesima violazione delle deliberazioni internazionali, ha decretato attraverso una “legge fondamentale” l’intera città, compresa la parte araba, parte dello stato sionista e capitale “di l’annessione fu solennemente sancita da una ‘legge fondamentale’ che proclamò G. capitale ‘”unita e indivisibile” dello stato di Israele.

Il Consiglio di sicurezza dell’ONU invitò gli stati a non riconoscere questo atto unilaterale e a mantenere a Tel Aviv (nella capitale internazionalmente riconosciuta le rappresentanze diplomatiche. Nonostante questo invito, gli Stati uniti nel 2017 (sotto la presidenza di Donald Trump) vi trasferirono la sede diplomatica fino a quel momento situata a Tel Aviv. Joe Biden non ha revocato quella decsione. Dopo gli Stati Uniti, anche Guatemala, Honduras e Kosovo hanno trasferito la propria ambasciata a Gerusalemme. Australia, Ungheria, Repubblica Ceca e Serbia si sono limitate ad aprire nella città santa uffici di rappresentanza dedicati al commercio o alla difesa.

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