I poveri responsabili della loro stessa povertà

Un mito duro a morire

Michel Husson (1949-2021) è stato un economista marxista militante, a lungo attivo nella LCR francese, nel consiglio scientifico di Attac e nella Fondazione Copernicus. Il suo sito hussonet.free.fr è stato e resta anche dopo la sua morte un repertorio di eccezionale ricchezza per la riflessione sul capitalismo del 21° secolo.

La sua prematura scomparsa nell’estate del 2021 ha lasciato un vuoto importante nel pensiero e nell’elaborazione economica dei marxisti. In Francia è stato recentemente pubblicato postumo un suo libro che ci sembra suggerire una riflessione certamente attuale anche nell’Italia del governo Meloni e del decreto di cancellazione del reddito di cittadinanza.

Questo libro, non a caso intitolato Portait du pauvre en habit de vaurien (Ritratto del povero in veste di furfante), mobilita la vasta cultura dell’autore per smascherare il discorso mistificatorio sulla povertà e sulla disoccupazione. Molti economisti neoliberali continuano a sostenere, in tono più o meno sguaiato, che i poveri e i disoccupati sono i responsabili della loro condizione e che costituiscono un peso eccessivo per la società. E, come sostiene l’autore, decifrare questi modi di legittimazione dell’ordine sociale è senza dubbio un prerequisito per l’emancipazione sociale. E questo è l’obiettivo del libro.

Nell’introduzione, Michel Husson si chiede: “Come può una società tollerare di emarginare chi ‘è in soprannumero’?” e poche righe dopo ricorda la testimonianza di un disoccupato che sentiva che la società gli mandava il messaggio: “Non ho bisogno di te”, in breve che era “inutile al mondo”.

“Inutile al mondo” era infatti un’espressione usata già nel XIV secolo per indicare mendicanti e vagabondi. È il titolo del libro dello storico polacco Bronislaw Geremek “Truands et misérables dans l’Europe moderne, 1350-1600” (Delinquenti e criminali nell’Europa moderna, 1350-1600), e si riferisce all’idea che ci sono esseri umani che sono “di troppo”, soprannumerari.

Questi “furfanti” (il dizionario francese Littré nota che nel XV secolo esisteva un ancor più eloquente “vaultnéant”, senza valore) erano indubbiamente “troppi” e spesso considerati pericolosi, ma non del tutto esclusi dalla società e dai rapporti di lavoro:  nella sua opera fondamentale “Les métamorphoses de la question sociale” (Le metamorfosi della questione sociale), il sociologo Robert Castel ha dimostrato che molti membri di questa categoria sociale erano in realtà impegnati in lavori stagionali o comunque episodici: nel 1786, il ricovero di mendicanti di Soissons, della Francia del Nord, contava 854 internati, di cui 256 “lavoratori manuali” e 254 “braccianti indigenti”.

Robert Castel ha descritto come la nascita e poi la generalizzazione del lavoro salariato e delle conquiste sociali (quella che lui chiama “società salariale”) abbiano contribuito a ridurre questa categoria, almeno nei paesi a capitalismo sviluppato. Ma questa evoluzione è stata lenta e diseguale, perché l’“esercito industriale di riserva” ha una funzione essenziale: costringere la “classe salariata in servizio attivo […] a sottomettersi più docilmente agli ordini del capitale”.  

Inoltre, la “terza età del capitalismo”, per usare il titolo di un libro di Ernest Mandel, vedrà il ritorno in massa della povertà, della disoccupazione e di varie forme di lavoro precario. Coloro che subiscono queste condizioni e le loro conseguenze sono stati spesso oggetto di accondiscendenza o disprezzo da parte dei potenti.

Poco più avanti nella sua introduzione, Michel Husson osserva che nel corso degli anni le numerose analisi dominanti della disoccupazione e della povertà “hanno in comune il fatto di voler rendere i disoccupati (o i poveri) responsabili del loro destino”. In un salutare svelamento, il libro nel suo complesso è quindi una meticolosa raccolta e analisi di molti dei “discorsi di legittimazione” della situazione dei rifiutati, dei soprannumerari, dal XVIII secolo a oggi.

La prima parte tratta della “gestione” dei poveri e dell’evoluzione dei primi edifici ideologici utilizzati per giustificare la loro situazione: il secolo dei Lumi ha visto una secolarizzazione degli argomenti: la volontà divina è stata sostituita dalle leggi dell’economia e della demografia. Per citare lo storico ed economista austro-ungarico Karl Polanyi: “… si ritiene ormai che il mercato autoregolato derivi dalle inesorabili leggi della Natura e che sia una necessità ineludibile che il mercato sia liberato, che sia liberato da ogni ostacolo”.

Infatti, anche se dobbiamo risalire a un testo filosofico precedente al fermento dell’Illuminismo, il mondo così com’è sarebbe “il migliore dei mondi possibili”, come scriveva Leibniz già nel 1710, aggiungendo: “È vero che possiamo immaginare mondi possibili senza peccato e senza sventura, e potremmo farne romanzi e utopie […]; ma questi stessi mondi sarebbero molto inferiori al nostro sotto tanti aspetti”.

Per Malthus, il cui primo “Saggio sulla popolazione” fu pubblicato nel 1798, la questione fondamentale era lo squilibrio tra la crescita delle risorse e quella della popolazione: la popolazione cresceva geometricamente, mentre la produzione agricola cresceva aritmeticamente. Il risultato è una situazione in cui troppe persone affollano la tavola del “banchetto” (per usare un termine usato da Malthus) e causano disordini e scompiglio. Le misure per alleviare la miseria sono controproducenti perché permettono ai poveri di riprodursi in numero eccessivo.

Marx (citato da Michel Husson) si preoccupò di argomentare contro il ragionamento di Malthus:

“Gli interessi conservatori di cui Malthus era l’umile valletto, gli impedirono di vedere che il prolungamento smodato della giornata lavorativa, unito allo straordinario sviluppo del macchinismo e al crescente sfruttamento del lavoro delle donne e dei bambini, era destinato a rendere una gran parte della classe operaia ‘in soprannumero’, una volta che la guerra fosse finita e il monopolio del mercato universale fosse stato tolto all’Inghilterra. Naturalmente era molto più comodo e molto più conforme agli interessi delle classi dominanti, che Malthus lodava da vero sacerdote qual era, spiegare questa ‘sovrappopolazione’ con le eterne leggi della natura piuttosto che con le leggi storiche della produzione capitalistica”.

Ma questa vigorosa critica non ha impedito che il “malthusianesimo” si perpetuasse in vari modi fino ai giorni nostri. Michel Husson ha denunciato “il ritorno dei figli di Malthus” in un libro “Sommes-nous de trop?” (Siamo troppi?) del 2000. 

Fin dall’inizio, in questa svolta tra Settecento e Ottocento, si intrecciano tre temi essenziali, destinati a essere sviluppati in modi diversi fino ai giorni nostri: quello della responsabilità dei poveri (e poi dei disoccupati) per la loro situazione, quello degli effetti perversi o addirittura controproducenti delle politiche volte ad aiutarli o a proteggerli, e infine il tema della necessità di distinguere in modo assoluto tra i veri poveri (inabili al lavoro o almeno in grado di dimostrare di fare ogni sforzo per trovare un’occupazione) e i “fannulloni” alla ricerca della minima assistenza sociale.

Su quest’ultimo punto, si noti la dichiarazione rilasciata proprio il 1° maggio dalla premier postfascista Giorgia Meloni per giustificare un pacchetto di misure antisociali: “Stiamo riformando il reddito di cittadinanza per differenziare chi è in grado di lavorare da chi non lo è”.

Uno dei capitoli più istruttivi per il lettore è quello dedicato alla grande carestia irlandese del 1845-1851 che, su una popolazione di circa nove milioni di abitanti, fu segnata da un milione di morti e più di un altro milione di partenze dall’Irlanda per sfuggire a una situazione mortificante. All’epoca l’Irlanda era una colonia inglese: i governanti di Londra e i grandi proprietari terrieri dell’isola controllavano la maggior parte della situazione.  

Inizialmente la carenza di cibo fu causata da una malattia delle patate, ma Michel Husson mostra come si trasformò in una catastrofe a causa della cinica inazione del governo e della brutalità dei proprietari terrieri. Lungi dall’essere scossi, i governanti usarono ogni possibile argomento per spiegare la carestia e giustificare il loro rifiuto di prendere provvedimenti per porvi rimedio: dalla Divina Provvidenza alle leggi dell’economia fino all’inferiorità razziale degli irlandesi, che erano meno intelligenti e più pigri degli inglesi e potevano solo ostentare ed esagerare la loro miseria per ottenere assistenza.

La seconda parte del libro è dedicata al “darwinismo” e a quello che è stato definito “darwinismo sociale”, cioè l’estensione del principio di selezione alla specie umana. Qui Michel Husson entra in un dibattito complesso: lo storico della scienza e darwinista francese Patrick Tort ha sempre scagionato Darwin da ogni responsabilità in questo campo, incriminando in particolare il filosofo e sociologo Herbert Spencer (1820-1903) e il cugino di Darwin, lo scienziato Francis Galton (1822-1911).

Per Patrick Tort, c’è stata infatti una forma di estrazione della natura umana dalla legge della selezione naturale attraverso il processo di civilizzazione: “in termini semplificati, la selezione naturale seleziona la civiltà, che si oppone alla selezione naturale”. Tort torna instancabilmente su questo punto; nella sua recente opera “Du totalitarisme en Amérique” (Del totalitarismo in America), denuncia la “lettura ristretta” di Darwin da parte di Spencer, che gli permette “di subordinare la società a una ‘legge’ selettiva che in Darwin si applica solo all’evoluzione degli esseri viventi non umani e all’evoluzione ante-civilizzazione dell’uomo”.

Michel Husson, da parte sua, sulla base di una lettura meticolosa di Darwin e in particolare della sua corrispondenza privata, mostra che egli rimase cauto e ambiguo, pur non rinnegando coloro che sostenevano di ispirarsi alla sua opera e di estendere la selezione naturale alle società umane. Michel Husson nota anche che Darwin sosteneva che le donne fossero intellettualmente inferiori agli uomini.

Husson mostra l’influenza di questa linea di pensiero, anche tra i progressisti. Marx ed Engels accolsero con favore gli scritti di Darwin: la sua teoria introduceva una rottura decisiva con i racconti religiosi sulla traiettoria della specie umana. In seguito presero le distanze dall’applicazione delle teorie darwiniane all’analisi delle società umane. Engels, citato da Michel Husson, scrisse: “la concezione della storia come serie di lotte di classe è più ricca e profonda della sua semplice riduzione a fasi appena differenziate della lotta per la vita”.

Tuttavia, la penetrazione del darwinismo e dei suoi avatar “spenseriani” fu più profonda, tra vari autori e in particolare, paradossalmente, nella socialdemocrazia, soprattutto in Germania e in Inghilterra. Per fare un esempio non citato nel libro, i lettori di Martin Eden di Jack London avranno certamente notato i forti riferimenti alle tesi di Spencer fatti dal protagonista: “La vecchia legge dello sviluppo è ancora valida”, sostiene. Il darwinismo sembra quindi fornire una nuova spiegazione, o addirittura una giustificazione, con pretese scientifiche, alla situazione dei poveri e dei disoccupati.

Affronteremo più rapidamente le ultime due parti del libro, il che non significa che siano meno interessanti. La terza parte tratta degli eccessi del “darwinismo sociale” quando alcuni hanno cercato di utilizzarlo per giustificare le disuguaglianze non solo tra gli individui ma anche tra i popoli. Il francese Vacher de Lapouge (1854-1936) la metteva così:

“Non solo gli individui sono ineguali, ma la loro ineguaglianza è ereditaria; non solo le classi, le nazioni e le razze sono ineguali, ma ognuna di esse non può subire un perfezionamento completo e l’aumento della media è la conseguenza dello sterminio degli elementi peggiori, della propagazione degli elementi migliori, della selezione in una parola, inconscia o consapevole”.   

Tali analisi hanno spesso portato alla promozione dell’eugenetica: occorre limitare la riproduzione di tutti coloro che sono “inutili al mondo”. Un assertivo tropismo eugenetico si ritrova logicamente tra i reazionari e i razzisti conclamati che trovano meriti nelle politiche di miglioramento della “razza” perseguite dai regimi fascista e nazista. Ma tendenze eugenetiche si trovano anche tra i progressisti come lo scrittore H.G. Wells, l’economista J.M. Keynes e lo scienziato e attivista pacifista Bertrand Russell.

Infine, la quarta e ultima parte affronta in modo più diretto le storture di scienziati che si rivelano avere due facce, come il premio Nobel per la medicina del 1912 Alexis Carrel, che è anche un razzista, un petainista e un sostenitore dell’inferiorità femminile. Michel Husson si concentra qui su autori, statistici ed economisti i cui contributi hanno informato e continuano a informare il lavoro e il pensiero degli economisti contemporanei. Egli sottolinea che quasi tutti i fondatori della statistica erano profondamente reazionari, indipendentemente dalla qualità intrinseca degli strumenti che hanno inventato e che sono ancora oggi comunemente utilizzati dai ricercatori (come l’indice di Gini per misurare la disuguaglianza).

Lo stesso vale per l’economia, molti dei cui padri fondatori rivelano occasionalmente una vicinanza di fondo al darwinismo sociale, anche se questo legame non appare nei loro contributi principali. Questa vicinanza può essere a volte dolce, a volte sfacciata, per tutti coloro che, come i social-liberali, deplorano le devastazioni del Leviatano economico e l’austerità di bilancio e al contempo formulano raccomandazioni che fanno poco o nulla per metterne in discussione l’impatto su “chi sta in basso”.

Per Michel Husson, questa stigmatizzazione dei poveri e dei disoccupati rimane più o meno alla base delle moderne teorie sulla disoccupazione. Se avesse potuto completare il suo libro, avrebbe certamente sviluppato quest’ultimo aspetto. Così com’è, tuttavia, il libro è di grande interesse. Ci spinge a riflettere sulla persistenza e sui molteplici e rinnovati aspetti delle ideologie che stigmatizzano, in forme più o meno sofisticate, la “gente che non è niente”, coloro che sarebbero incapaci di “attraversare la strada” per trovare un lavoro, che mirano a descriverli come inferiori e a presentarli come troppo costosi. “Decifrare questi modi di legittimare l’ordine sociale è senza dubbio un prerequisito per l’emancipazione sociale”. Questa è la frase finale del libro, che in un certo senso riassume l’itinerario di economista e attivista di Michel Husson.

Il libro è completato da una prefazione di Laurent Cordonnier, autore di Pas de pitié pour les gueux (Nessuna pietà per i poveri), un denso libretto sulle teorie economiche della disoccupazione, e da una postfazione di Alain Bihr, coautore con Michel Husson di Thomas Piketty: une critique illusoire du capital.