“Sostituzione etnica”, migranti e Africa: tre pallini del governo Meloni

La battaglia contro la “sostituzione etnica” rimane uno dei terreni centrali di azione ma soprattutto di propaganda, del governo Meloni. Due sono i campi su cui questa sua “battaglia” si sviluppa e ambedue producono disastri umani e legislativi. 

Il primo terreno è quello della politica per la famiglia con tutte le conseguenze che comporta sul piano etico e politico.

Il secondo, quello di cui trattiamo qui, è quello della persecuzione – perché di questo si tratta – contro profughi ed immigrati. Su questo secondo terreno le azioni del governo sono più immediate e concrete. E la sua azione è facilitata dal fatto che tutte le politiche sull’immigrazione del nostro paese, dalla legge Turco Napolitano del 1998 in avanti, si sono sempre mosse sullo stesso solco, quale che sia stato il colore del governo che le ha messe in atto.

Peggio dei “decreti Salvini”

Il “decreto Cutro”, emanato all’inizio di marzo e convertito definitivamente in legge all’inizio del mese di maggio e che fa seguito ai provvedimenti per ostacolare i soccorsi in mare delle ONG, costituisce un violento e invasivo sovvertimento di alcuni fondamentali principi democratici e sociali. Infatti, riesce a peggiorare ulteriormente i famigerati “decreti sicurezza” del 2018 dell’allora ministro degli Interni Matteo Salvini: demolizione del sistema di accoglienza pubblico, procedure accelerate e sommarie di esame e quindi di rifiuto delle richieste di asilo, smantellamento della protezione speciale, ostacoli alla conversione dei permessi di soggiorno in permessi per attività lavorativa. In poche parole: segregare e punire.

Il messaggio che si vuole dare all’opinione pubblica ma anche e soprattutto ai migranti che stanno qua e che, si presume, lo comunicheranno ad amici e parenti in patria è chiarissimo:

“non puoi arrivare; se arrivi non puoi restare; se riesci a restare verrai recluso nei CPR o negli hotspot, non avrai il permesso di soggiorno, non potrai muoverti; se riuscirai a muoverti non troverai accoglienza; se la troverai non avrai i servizi sociali, non potrai lavorare regolarmente né conquistarti un’autonomia; se anche lavori non potrai convertire il permesso ‘umanitario’ in permesso di lavoro, quindi non potrai che lavorare al nero, essere sottopagato e ricattato, l’integrazione resterà un miraggio irraggiungibile e marcirai nella marginalità e nello sfruttamento, senza garanzie né futuro”.

Per praticare questa politica più accanitamente che in passato, si moltiplicano i CPR, i Centri di permanenza per il rimpatrio (dove i migranti privi del permesso di soggiorno vengono detenuti in condizioni disumane e degradanti, come tante volte denunciato dalle organizzazioni per i diritti umani e reso di dominio pubblico anche da parecchi mezzi di informazione) e anche gli hotspot (centri di detenzione informale in cui condurre sia le procedure di identificazione sia l’esame delle domande di asilo).

L’obiettivo dichiarato è quello di organizzare un’efficace politica di selezione tra pochi “rifugiati veri” e tanti “migranti economici”, per poter mettere in atto un meccanismo di respingimento e di rimpatrio di questi ultimi, cosa che finora non è riuscita a nessuno dei vari governi che si sono succeduti negli ultimi anni. In realtà, il risultato che si otterrà con questi provvedimenti, è di aumentare ulteriormente il numero degli immigrati clandestini (stimati in 5/600 mila) costretti a vivere in questa condizione di irregolarità da norme che chiudono qualsiasi strada per poter ottenere un permesso di soggiorno se sei già presente in Italia.

Per il momento, il rimpatrio per i migranti costituisce più una minaccia incombente, utile a mantenerli in una situazione di permanente precarietà materiale ed esistenziale, piuttosto che una prospettiva concreta (nel 2022, a fronte di 105.000 arrivi i rimpatri sono stati meno di 6.000).

Rispunta la “sostituzione etnica”

    Nel frattempo, come dicevamo, il crescere del numero degli sbarchi ha ridato fiato alla denuncia del presunto complotto per la “sostituzione etnica”, che sia Fratelli d’Italia sia la Lega avevano largamente usato durante la campagna elettorale, ma che poi, una volta giunti al governo, avevano sopito per non rischiare di essere ancora una volta tacciati di “suprematismo”.

    Alcuni dirigenti del partito di Giorgia Meloni, però, poco attenti nel controllo del linguaggio, l’hanno di nuovo riesumata e risfoderata (ripescandola nei bassifondi del loro “bagaglio culturale”), perché sanno che può costituire un efficace strumento retorico per fare leva sui ceti popolari e sui timori di quest’ultimi di perdere i propri presunti privilegi nei confronti dei migranti stranieri.

    Ma il fuoco di sbarramento contro l’arrivo dei migranti è in evidentissima contraddizione con la diffusa richiesta da parte delle associazioni padronali di manodopera extracomunitaria a basso costo. Le stime si attesterebbero sulla cifra di circa 500.000 posti di lavoro fissi o stagionali disponibili. 

    E’ una contraddizione che travaglia la politica governativa, preoccupata di tenere vivi il razzismo e il clima di paura alimentati presso la sua base elettorale, ma che è anche chiamata a rispondere alle pressanti esigenze delle aziende, in particolare nell’agricoltura e nel turismo, nella ristorazione, negli alberghi e nella cura alle persone non autosufficienti. 

    Il cosiddetto “Decreto flussi” (il provvedimento che il governo emana annualmente e che determina la possibilità di assunzione temporanea di immigrati e immigrate non presenti sul territorio nazionale attraverso una complicatissima procedura stabilendo settori e paesi di provenienza dei lavoratori) è l’unico meccanismo che dovrebbe dare una risposta a queste esigenze “produttive” dei datori di lavoro italiani, ma ha da tempo mostrato la sua incapacità di saper rispondere in modo effettivo alle esigenze dell’economia e, ancor meno, al desiderio di regolarizzazione dei migranti già presenti in Italia. 

    Il 27 gennaio scorso si è avviata la procedura informatica per le richieste da parte dei datori di lavoro italiani. Alle ore 19 del giorno stesso erano state fatte 240 mila domande a fronte degli 82 mila posti previsti.

    Lo stesso discorso vale per le sanatorie di regolarizzazione degli immigrati clandestini già in Italia, che periodicamente vengono aperte dai governi in carica. L’ultima “sanatoria”, quella del 2020, a distanza di tre anni dalla sua emanazione, ha portato alla regolarizzazione del 40% delle 220 mila persone che hanno presentato domanda. Le procedure burocratiche sono ancora ben lontane dall’essere terminate.

    Il governo si dice pronto a “sburocratizzare” tutto, appalti, regolamenti, verifiche ambientali, procedure di controllo, ecc., ma, quando si tratta di migranti da ostacolare nel percorso di regolarizzazione, la burocrazia non guasta.

    Il progetto “africano”

      Occorre anche ricordare che il “continente nero”, per Giorgia Meloni, non costituisce solo la base di partenza dei migranti.

      Nella sua smania di accreditarsi come leader a livello internazionale e anche di rilanciare la vocazione neocoloniale del paese, la premier ha anche prospettato l’idea di un “piano Mattei” per l’Africa, dal nome di Enrico Mattei, il discusso fondatore nel 1953 dell’Ente Nazionale Idrocarburi.

      La crisi energetica legata alle ripercussioni della guerra in Ucraina ma anche l’impennarsi degli arrivi dei migranti hanno risvegliato nella premier un attivismo particolare verso l’Africa, che si è anche concretizzato in numerosi viaggi in paesi africani, a partire dall’Algeria (il cui gas ha sostanzialmente preso il posto di quello russo nell’approvvigionamento energetico italiano).

      Meloni aspira a fare dell’Italia, grazie alla sua collocazione nel Mediterraneo, l’hub per lo smistamento e la commercializzazione dei prodotti energetici africani in Europa.

      Così, ha avuto numerosi scambi di visite con i capi di stato di quei paesi che, come usa dire la premier con un lugubre eufemismo, “hanno importanti legami culturali con l’Italia”, cioè che, come Etiopia, Somalia e Libia, ne sono state colonie, conquistate a forza di massacri e di repressione.

      Naturalmente all’interesse economico e commerciale si aggiunge anche la preoccupazione di spingere i governanti di questi paesi (che sono paesi di provenienza o di transito di importanti flussi migratori) a operare per impedire le partenze e per agevolare i rimpatri. Fa testo su tutti l’accordo secretato che il governo italiano ha stretto con la Tunisia di Kais Saied tramite il quale la Tunisia si impegna a “riprendersi” senza alcuna formalità coloro che tentano di arrivare in Italia e vengono intercettati. Non a caso il 90% delle domande di asilo di persone di nazionalità tunisina vengono respinte, mentre tra gli espulsi tramite il sistema dei CPR i tunisini sono oltre il 50%.

      Del memorandum con la Libia poi è anche inutile parlarne.