Il mitico ritorno di Lula

L’ex presidente aspira a riconquistare il potere a ottobre con una coalizione di sette partiti in un “fronte democratico” contro Bolsonaro. La sua mossa principale è quella di aver ingaggiato il conservatore Geraldo Alckmin come suo vicepresidente.

di Bernardo Gutiérrez, giornalista, scrittore e ricercatore ispanico brasiliano. Si occupa di America Latina dal 1999, e per la maggior parte del tempo è stato corrispondente dal Brasile. È autore dei libri Calle Amazonas (Altaïr), #24H (Dpr-Barcelona), Pasado Mañana (Arpa Editores) e Saudades de junho (Liquid Books), da ctxt.es

Nel giugno 2013, la sinistra e la destra brasiliana hanno fatto un annuncio congiunto senza precedenti. Dopo settimane di proteste di piazza, organizzate dal Movimento Passe Livre (MPL), il sindaco di San Paolo (Fernando Haddad, Partido dos Trabalhadores, PT) e il governatore dello Stato (Geraldo Alckmin, Partido da Socialdemocracia Brasileira, PSDB) hanno annunciato la riduzione delle tariffe dei trasporti. Dal Palácio dos Bandeirantes, sede del governo dello Stato di San Paolo, entrambi i politici hanno annunciato l’abbassamento della tariffa da 3,20 a 3 reais, parlando di “spirito democratico”, “ascolto” e “cittadinanza”. L’MPL autonomista, sinistra radicale per l’establishment, ha costretto in un’inaspettata alleanza la sinistra-destra. Lungi dal placare gli animi, le proteste sono continuate, soprattutto quelle legate al diritto alla città e alla partecipazione democratica. Hanno attraversato la Coppa del Mondo 2014 e sono arrivati alle porte delle elezioni di ottobre, in cui una terza via sembrava percorribile: la candidatura dell’ambientalista Marina Silva. I due partiti principali hanno riattivato la polarizzazione in una campagna elettorale tesa e piena di attacchi, soprattutto contro Marina Silva. Dilma Rousseff (PT) e Aécio Neves (PSDB) sono passati al secondo turno. Nella fase finale della campagna, un fotomontaggio () ha unito i volti di Dilma e Aécio.

Il fotomontaggio #DilmAecio

L’hashtag #DilmAecio ha denunciato l’eccessiva somiglianza tra i due candidati, con ognuno di loro che da una parte sfiora il centro. L’estrema polarizzazione non corrispondeva, denunciano molte voci, ai programmi politici che invece avevano molte analogie.

Nove anni dopo il momento d’amore del PT e del PSDB nel Palácio dos Bandeirantes, Luiz Inácio Lula da Silva, presidente del Brasile dal 2002 al 2010, ha annunciato ufficialmente il suo ritorno in politica con un’alleanza che continua a sconcertare la sinistra. Geraldo Alckmin – leader morale del centrodestra brasiliano, ex governatore di San Paolo, candidato alle presidenziali del 2006 – sarà il candidato vicepresidente di Lula alle elezioni di ottobre. Dopo l’alleanza PT-PSDB nel 2013, la deriva di estrema destra di Bolsonaro in Brasile ha ora imposto la candidatura di Lula-Alckmin, impensabile fino a pochi anni fa. Come si spiega la strategia di Lula?

Verso un fronte democratico

Qualche mese fa, uno dei ministri del primo governo Lula mi ha spiegato a casa sua la necessità di contare su Alckmin. Suo figlio, legato ai movimenti sociali, ha criticato l’alleanza con l’arcinemico Tucano (Tucano è l’appellativo con cui vengono definiti i politici del PSDB). Il piano di Lula è pieno di sottigliezze. Primo: Alckmin ha lasciato il PSDB ed è ora membro del Partito Socialista Brasiliano (PSB), uno dei maggiori partiti del Congresso. Con questa mossa, Lula rassicura contemporaneamente i mercati e la sinistra. Inoltre, rende più difficile essere inquadrati come comunisti dalla propaganda di Bolsonaro. Come se non bastasse, l’uscita di Alckmin dal PSDB aggrava la crisi del partito conservatore. Seconda sottigliezza: Lula ha assicurato che il Partito Socialismo e Libertà (PSOL) non si candiderà alla presidenza. Non c’è nessuna candidatura a sinistra, una delle ossessioni del PT negli ultimi anni. Terza sottigliezza: Lula descrive la sua candidatura come un “fronte democratico” contro l’estrema destra, non come un fronte di sinistra. Allo stesso tempo, sostiene che la sua alleanza è un conglomerato di movimenti sociali. Vamos Juntos Pelo Brasil conta già sette partiti politici (che vanno dalla sinistra al centro) ed è sostenuto da sette centrali sindacali, oltre che da movimenti sociali storici come il Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra (MST).

Alckmin e Lula

L’ex ministro di Lula mi ha spiegato in modo pragmatico che lo Stato di San Paolo (33 milioni di elettori) deciderà le elezioni e che una figura come Alckmin può iniettare a Lula fino al 7% dei voti totali dell’intero Paese. “Il Brasile vota per la sinistra solo se il vicepresidente è di centro”, ha aggiunto. Suo figlio, pur criticando l’alleanza, ha confessato che gli artisti e i movimenti sociali saranno in prima linea nel sostegno a Lula. Infatti, il jingle della pre-campagna di Lula – Lula voltou, (), con cenni al Nordest, grande riserva elettorale della sinistra – non è stato lanciato dall’account ufficiale del PT, ma da molteplici profili di movimenti e collettivi.

Prima di salutare, il figlio dell’ex ministro, chitarra alla mano, ha intonato Lula-lá, il jingle che Lula utilizzò nel 1989, in occasione delle sue prime elezioni. Poche settimane fa, la canzone ufficiale di Lula per le elezioni di ottobre ha incorporato il grido emotivo e nostalgico Lula-lá.

Un fatto che non solo conferma quanto l’ex ministro e suo figlio fossero ben informati, ma anche la potenza di una sincronicità di sottigliezze coscienziosamente pianificata per scalzare Bolsonaro dal potere.

Contraddizioni

Vamos Juntos Pelo Brasil ha il timbro di Lula. Sarebbe impraticabile con un altro leader politico, anche del PT. Né Dilma Rousseff né Fernando Haddad sarebbero in grado di conciliare gesti, alleanze e discorsi così contraddittori. Lula non è stato un presidente comunista, né ha scelto la strada politica del Venezuela, come ha sostenuto l’ecosistema di fake news che ha promosso Bolsonaro. Nonostante la sua narrazione popolare, Lula è stato il presidente dell’acordão: un grande accordo che ha iniettato risorse (e dignità) ai più svantaggiati e ha fatto fare soldi alle élite. Le sue politiche pubbliche di inclusione – il garantire quote minime di presenza nelle università per indios, neri e poveri, o il programma di aiuti “Bolsa Familia” – coesistevano con leggi favorevoli ai proprietari dei grandi latifondi agricoli. La riforma agraria non arrivò durante i tredici anni di governo petista. Ma altre leggi storiche lo hanno fatto, come la PEC di Dilma Rousseff per le lavoratrici domestiche (un progetto di legge costituzionale per la tutela di alcuni diritti basilari, ndt), che ha dato diritti a milioni di lavoratori domestici.

Mentre il PT costruiva centinaia di università pubbliche e teneva a galla il settore pubblico, ha nominato il pastore evangelista Marco Feliciano presidente della Commissione per i diritti umani del Congresso. Tira e molla, avanzamenti e concessioni. Alcuni miglioramenti sociali in cambio del non toccare alcuni privilegi. Crescita economica al costo di una minore protezione dell’ambiente. L’accordo di Lula prevedeva un patto con il Centrão (il conglomerato opportunistico dei partiti conservatori) al Congresso e un accordo non scritto: il Partido do Movimento Democrático Brasileiro (attualmente MDB) avrebbe fornito il vicepresidente per la candidatura del PT. Nel 2022, Geraldo Alckim ricoprirà un ruolo simile a quello di José Alencar (2002, 2006) e Michel Temer (2014). Simili, ma non uguali. In un Brasile devastato dal bolsonarismo e dalla pandemia, le regole del gioco sono cambiate.

Mito rafforzato

I 580 giorni trascorsi in carcere da Lula, lungi dal distruggere la sua immagine, hanno rafforzato il suo mito. La sentenza del Supremo Tribunale Federale ha annullato le condanne contro Lula nell’ambito dell’operazione Lava Jato e ha denunciato che non ha avuto diritto a un processo equo. Le stesse Nazioni Unite hanno sancito la violazione dei diritti di Lula. Le manovre del giudice Sergio Moro contro l’ex presidente sono state messe a nudo. Lula, arrestato senza prove e ora scagionato, è tornato come un mito rafforzato. Un giorno prima di entrare in carcere, circondato dalla folla ai cancelli del sindacato dei metalmeccanici di São Bernardo do Campo dove ha forgiato la sua leggenda, Lula ha regalato ai suoi fedeli una delle sue immagini più leggendarie. Vestito di rosso, è tornato a essere un sindacalista di base, il leader che arringa le masse con frasi emotive. “Sono un’idea”, “non riuscirete a fermare l’arrivo della primavera”, disse quel pomeriggio. La persecuzione giudiziaria e mediatica che ha portato alla sua incarcerazione ha fatto risorgere l’immagine del Lula originale. E ha improvvisamente cancellato Lula dall’acordão.

La campagna elettorale per le elezioni del 2022 sta entrando nel suo copione finale. Le sottigliezze sopra e sotto, nella macro-politica e nella strada, si stanno sincronizzando. Lula tira le fila, i discorsi, le tattiche nell’ombra. Mentre la sua narrazione mitica aleggia sulla sinistra e sui movimenti sociali alleati, Lula cerca accordi con il Centrão per rafforzare la sua candidatura al centro (e anche al centro-destra). Particolarmente importanti sono i negoziati che coinvolgono i candidati ai governi regionali e al Senato. Lula ha appena concluso un accordo con il centrista Alexandre Kalil, attuale sindaco di Belo Horizonte, che sarà candidato a governatore nel Minas Gerais, il secondo collegio elettorale decisivo del Brasile senza il quale nessuno ha mai vinto la presidenza. D’altra parte, Lula sta pianificando un tour di Alckmin per rassicurare i proprietari terrieri e i banchieri. Ha persino inviato il diplomatico Haddad per ottenere il sostegno di Marina Silva, la figlia ribelle che ha lasciato il PT per fondare il partito REDE Sustentabilidade. Lula vuole che sia coinvolta, anche se timidamente, nella campagna elettorale.

Tuttavia, Lula è consapevole che la sua strategia macro-politica non funzionerà se il popolo non si appropria della campagna. Ha già il sostegno dei movimenti sociali tradizionali. Ma spera anche che reti, collettivi e attivisti critici nei confronti degli ultimi governi del PT si uniscano a Lula-lá. Vamos Juntos Pelo Brasil deve resuscitare lo spirito di Vira Voto, la campagna decentralizzata che ha coinvolto milioni di brasiliani nel secondo turno del 2018. I recenti ammiccamenti di Lula al settore della cultura potrebbero innescare un’ondata di sostegno cruciale, dal momento che la stragrande maggioranza di musicisti, attori, pittori, graffitari e artisti in generale sono contrari a Bolsonaro.

Campagna affettiva

Le carte della campagna presidenziale sono sul tavolo. Se nelle due precedenti competizioni presidenziali si è creata una terza via di centro-sinistra (Marina Silva nel 2014, Ciro Gomes nel 2018), in questa occasione sembra improbabile. Ciro Gomes – ex ministro del PT, candidato alle presidenziali del 2018 per il Partido Democrático Trabalhista (PDT) – ha intenzioni di voto molto basse. A destra c’è confusione: la candidatura del giudice Sergio Moro non è decollata, il PSDB non riesce a decollare e la terza via conservatrice è bloccata. Tutto fa pensare a un duello all’ultimo sangue tra Lula e Bolsonaro.

Le promesse elettorali di Lula-Alckmin saranno molto pragmatiche. La narrazione, il desiderio, l’affetto e la memoria prevarranno. Nostalgia di un ritorno a un passato migliore, a un certo ordine pre-pandemico, a un governo capitalista amichevole in cui ricchi e poveri guadagnano qualcosa. “Saudades dos tempos do Lula”, come nel jingle Lula voltou. Milioni di brasiliani si arrenderanno alla componente mitica di Lula, anche se non è del tutto in linea con l’eredità storica del PT. A prima vista, i dati sono dalla parte di Lula. Il Brasile di Bolsonaro soffre di un’inflazione dilagante e di una profonda crisi economica. Il Brasile è il secondo Paese al mondo per numero di morti per AIDS (oltre 600.000). L’Amazzonia è colpita dalla peggiore ondata di incendi degli ultimi decenni. Le minoranze vengono molestate. Il settore culturale (compreso il carnevale) viene perseguitato. Per il momento, Lula sta vincendo in tutti i sondaggi, anche se è improbabile che vinca al primo turno.

La battaglia elettorale è, infatti, imprevedibile. Perché dall’altra parte del mito di Lula c’è un altro mito: Bolsonaro, autoproclamatosi mito anti-establishment, re delle fake news. I dibattiti televisivi saranno di scarsa rilevanza (Bolsonaro potrebbe anche non parteciparvi). L’emotività prevarrà sulla razionalità, sull’ideologia o sui programmi. Bolsonaro non combatterà Lula con idee o promesse. La sua campagna elettorale si baserà su insulti senza mezzi termini, nazionalismo, odio, religiosità. O direttamente sulla disinformazione. Bolsonaro, il figlio indisciplinato del Brasile, per quanto disastroso possa essere come presidente e per quanto controproducente possa essere per il marchio del Brasile, è ancora amato da milioni di persone. La sua popolarità rimane intorno al 25%.

Paradossalmente, il Lula che tesse un fronte democratico con Alckmin, il suo arcinemico Tucano, quello che evoca un ordine nostalgico e l’unione di tutti i brasiliani, il Lulinha paz e amor (lo slogan che lo ha spinto alla presidenza nel 2002), il patriarca riconciliatore, l’uomo-mito, si troverà ad affrontare in ottobre l’estrema polarizzazione che il suo stesso partito ha alimentato per anni e usato come arma per smantellare la terza via di Marina e Ciro, i suoi figli ribelli.