Cina, come interpretare le proteste?

di Andrea Ferrario, da crisiglobale.wordpress.com

Il recente scoppio contemporaneo di proteste in numerose città cinesi è giunto inaspettato. Che ci fosse molta insoddisfazione nel paese per tutta una serie di questioni, la più immediatamente visibile tra le quali è la politica altamente repressiva messa in atto per contrastare la diffusione del Covid, era cosa nota, ma non ci si attendeva un’improvvisa esplosione di portata nazionale. Questo articolo fornisce alcune chiavi di lettura per interpretare quanto sta succedendo.

Il retroterra delle proteste

Il retroterra delle proteste: Nonostante il loro carattere improvviso, le proteste dei giorni scorsi hanno un preciso retroterra. Tra il 2018 e il gennaio 2020 si era evidenziata in Cina una chiara tendenza degli episodi di protesta e di lotta ad ampliare la propria portata dal livello locale a quello interregionale o addirittura nazionale. In particolare, una serie di lotte dei lavoratori nella primavera-estate del 2018 aveva assunto una dimensione nazionale, come nel caso dei gruisti e dei camionisti. Tra l’estate del 2018, e fino all’inizio del 2019, nonostante le durissime repressioni, un movimento di studenti marxisti e femministe mobilitatosi in sostegno ai lavoratori della Jasic si era diffuso in varie città e università del paese. Contemporaneamente, si evidenziava a livello nazionale, con una serie di denunce e richieste, un movimento #MeToo e femminista molto deciso. Non va dimenticata nemmeno l’ampia mobilitazione dei lavoratori della sanità nelle primissime fasi dell’epidemia di Covid, quando a gennaio 2020 i vertici dello stato facevano finta di non sapere che si trattasse di un nuovo coronavirus trasmissibile da persona a persona.

La pandemia e l’ulteriore stretta repressiva hanno messo rapidamente a tacere ogni successivo fermento sociale di ampia portata: ne è un esempio il movimento sindacale dei rider emerso nel 2021 e soffocato dalle repressioni non appena cominciava ad assumere un carattere nazionale. Il perdurare delle misure inumane anti-Covid ha oggi solo riaperto un calderone sul quale era stato messo a forza un pesante coperchio. In questo 2022 il primo sintomo di espressione attiva dell’insoddisfazione popolare lo si è avuto a Shanghai a marzo, quando un’impennata dei contagi da Omicron è stata contrastata con misure ultrarepressive e oltretutto poco efficaci, generando diffuse proteste nella metropoli. A luglio erano seguite proteste in seguito alla crisi di una serie di banche regionali, con corse a ritirare i risparmi e una nutrita manifestazione repressa a bastonate. Ad agosto è seguito uno “sciopero bianco” degli acquirenti di case ancora da costruire, organizzatisi per cessare a livello nazionale, in una novantina di città, il pagamento delle rate dei mutui di fronte alla crisi edilizia, causando un danno di oltre 130 miliardi di dollari agli speculatori. A metà ottobre, poco prima dell’inizio del Congresso del Pcc, a Pechino, una protesta su un ponte in pieno centro chiedeva tra le altre cose le dimissioni di Xi, uno slogan clamorosamente inedito riemerso poi nei giorni scorsi nelle manifestazioni di Shanghai e di altre città: si sa poco degli autori, probabilmente solo un paio di persone, ma fonti della diaspora affermano che dietro a loro vi era una rete più ampia.

La prima scintilla dell’ultima, vastissima ondata di proteste a cui abbiamo assistito nei giorni scorsi è scattata il 15 novembre a Canton, quando in un quartiere abitato da lavoratori migranti sono state abbattute le alte barriere che recintavano l’area in lockdown e ci sono stati scontri con la polizia. Ma già il 31 ottobre c’era stata una fuga in massa massa di migliaia di operai dallo stabilimento Foxconn di Zhengzhou (che ha 200.000 lavoratori in totale) in seguito alle misure anti-Covid, che comprendevano tra le altre cose la reclusione nelle strutture aziendali in compagnia di persone infettate. Questa fuga è stata seguita il 23 novembre da una dura rivolta di altri lavoratori reclutati per sostituire quelli fuggiti, che si sono scontrati con la polizia protestando per le pessime condizioni di lavoro, il rischio di contagio e il mancato pagamento dei bonus promessi. Il resto è storia degli ultimissimi giorni: l’incendio del 25 novembre a Urumqi, capitale della martoriata regione dello Xinjiang, nel quale sono morte almeno 10 persone (oltre 40 secondo fonti dell’opposizione) impossibilitate a fuggire dai loro appartamenti per le misure di lockdown duro in atto da tre mesi, le manifestazioni di sabato e domenica in loro ricordo trasformatesi automaticamente, in una ventina di città cinesi, in manifestazioni contro le modalità di lotta contro il Covid, la censura, le repressioni e il regime del Partito Comunista più in generale.

Questa semplice panoramica indica con chiarezza che l’ondata di proteste, per quanto inattesa nelle sue modalità, ha radici più profonde che risalgono ad almeno alcuni anni fa.

Il Covid, le altre motivazioni

Le misure anti-Covid sono sicuramente uno dei temi centrali di questa ondata di proteste. Tuttavia va subito sgomberato il campo da un potenziale equivoco. Non si tratta in alcun modo di un movimento anche solo parzialmente assimilabile a quelli “no vax”, “no mask” e/o “no pass” diffusisi in Europa e altrove.

Questo sia perché in Cina, al di là delle politiche governative, vi è, e vi è stata fin dall’inizio, anche alla luce dell’esperienza della passata epidemia di Sars del 2003, una sentita preoccupazione di massa per i rischi concreti che l’epidemia comporta, sia perché le misure di lockdown e di lotta contro l’epidemia adottate in Cina sono estremamente più repressive e umilianti di quelle adottate nei paesi occidentali o altrove. Per fare solo alcuni esempi, si “ingabbiano” interi isolati o quartieri con alte recinzioni, il più delle volte si sigillano le porte degli appartamenti o si incatenano dal fuori i portoni degli edifici. Basta essere considerati un contatto diretto (per esserlo, in alcune città basta vivere nei tre piani sottostanti o sovrastanti un appartamento in cui è stato registrato un caso di Covid) per essere deportati in centri improvvisati analoghi a centri di detenzione, dove accade anche che bimbi piccoli vengano separati dai genitori. E’ diffusa la pratica di isolare (tenere rinchiusi) per lunghi giorni i dipendenti nei luoghi di lavoro in cui è stato registrato un caso, spesso facendoli lavorare normalmente e costringendoli di notte a dormire sul pavimento. La popolazione viene costretta a test quotidiani da effettuarsi recandosi in appositi centri o gazebo, e in molte province il test è ora a pagamento.

Vi è un alto grado di discriminazione sociale nell’applicazione delle misure – nei centri delle città più ricche si cerca in generale di applicare soluzioni più soft e flessibili, nelle periferie, nelle città più piccole, nei centri rurali, nelle aree abitate da lavoratori migranti le misure sono a tappeto e dure. Il peggio da questo punto di vista, e fin dal 2020, lo ha dovuto subire lo Xinjiang. Il tutto avviene inoltre senza alcuna possibilità di discussione pubblica o, dio ce ne scampi, di contestazione.

D’altro canto, però, la preoccupazione per un’esplosione dei casi di Covid è reale e diffusa: i cinesi sanno benissimo che una diffusione come quella verificatisi in occidente avrebbe effetti potenzialmente ancora più disastrosi (vedi più avanti). Nei giorni scorsi vi è stata, ad esempio, una specie di “protesta silenziosa”, se così la si può chiamare, a Shijiazhuang, una città di 11 milioni di abitanti che aveva cominciato a ridurre le misure anti-Covid, probabilmente nell’ambito di un progetto-pilota messo in atto in via non ufficiale per sperimentare preventivamente i possibili effetti di una simile politica a livello nazionale. Ebbene, le autorità hanno dovuto fare immediatamente marcia indietro perché la popolazione ha cominciato a tenere i bambini a casa da scuola, a disertare i mezzi pubblici, a fare incetta di dispositivi anti-Covid, di cibo e così via.

Perché il regime continua ad applicare misure anti-Covid così dure?

Perché sa che gli effetti di un’inversione di marcia sarebbero con ogni probabilità estremamente destabilizzanti su più livelli. La Cina ha un sistema sanitario del tutto sottosviluppato e oltretutto discriminante in termini sociali: da questo punto di vista è messa molto peggio della maggior parte dei paesi occidentali. Il sistema ospedaliero, sul quale poggia l’intera sfera dell’assistenza sanitaria (praticamente inesistente in ambito extraospedaliero), è fortemente carente in termini di numero di posti letto, di terapie intensive e di numero di medici rispetto alla popolazione, e oltretutto ospedali con un minimo di strutture adeguate sono presenti solo nelle grandi città, tra l’altro in misura scarsa e non accessibili a categorie come quella dei lavoratori migranti, mentre le aree rurali (dove vive almeno la metà della popolazione cinese, contrariamente a quanto dicono le statistiche falsificate di Pechino) e le piccole città provinciali sono quasi completamente sguarnite.

A titolo di esempio, secondo dati del Financial Times basati su ricerche cinesi e Usa, in caso di dilagare incontrastato dell’Omicron in Cina il fabbisogno di posti in terapia intensiva supererebbe di oltre 15 volte quelli disponibili e il numero di morti stimato toccherebbe in breve tempo 1,6 milioni. Per dotarsi di un sistema sanitario minamente adeguato il regime cinese avrebbe dovuto negli ultimi anni, e ancor più dal 2020, investire enormi cifre spostando investimenti dal sostegno ai mastodonti del capitalismo statale, all’high-tech finalizzato alla proiezione internazionale e, soprattutto, alla speculazione immobiliare con il suo enorme indotto, verso la sfera sociale. Non ha mai avuto l’intenzione di farlo, per motivi al contempo economici e politici, e così si è limitato a mega-campagne di test e alla costruzione di grandi centri prefabbricati di detenzione per gli infettati, unitamente a misure di lockdown duro.

A ciò si aggiunge il fatto che la popolazione è quasi interamente immune da precedenti infezioni e al contempo il livello dei non vaccinati tra gli ultra-sessantenni è molto alto (per una comprensibile scarsa fiducia nelle istituzioni). Come se non bastasse, i vaccini cinesi si sono rivelati di scarsa efficacia (il migliore, il Sinopharm, è un analogo dell’Astrazeneca) e per motivi di immagine politica il governo non vuole acquistarne di migliori dall’estero.

I gerarchi di Pechino hanno ben presente cosa potrebbe succedere sulla base di quanto hanno visto accadere a Hong Kong, anch’essa con un’ampia quota della popolazione non immunizzata e di anziani non vaccinati: l’ondata di Omicron nello scorso mese di marzo è stata un totale disastro, con il raggiungimento del più alto tasso di letalità mai registrato al mondo, portando a situazioni come quella dei pazienti messi sui marciapiedi causa mancanza di posti in ospedale, o quella dei cadaveri nei sacchi collocati negli spazi tra i letti nelle corsie d’ospedale a causa della mancanza di posti in obitorio. Hong Kong tra l’altro ha un sistema ospedaliero decisamente migliore di quello della Cina, e in più ha solo 7 milioni di abitanti: moltiplicate gli effetti per le dimensioni della Cina e per le sue peggiori condizioni sanitarie e vi farete un’idea dell’incubo che i burocrati di Pechino temono di vedersi realizzare.

L’altro motivo di fondo, altrettanto importante di quello sanitario, è prettamente politico. Il regime di Pechino è riuscito con la sua politica di lockdown duri a fare dimenticare l’enorme e tragica colpa di avere lasciato dilagare coscientemente l’epidemia nelle sue prime fasi tra fine dicembre 2019 e i primissimi giorni di gennaio 2020, spalancando le porte a una pandemia globale. Ricordo che per settimane il Partito Comunista ha mandato la polizia a mettere a tacere i lavoratori della sanità che denunciavano l’epidemia in atto e ha fatto chiudere i laboratori che avevano sequenziato subito il nuovo coronavirus, senza muovere un dito per fermare i contagi (su questi temi, è liberamente scaricabile il mio libro “La Cina, il virus e il mondo”, uscito nell’estate 2020).

La Cina, il virus e il mondo

di Andrea Ferrario

E’ online l’edizione completa del libro “La Cina, il virus e il mondo” di Andrea Ferrario, liberamente scaricabile. Il libro ricostruisce la storia della diffusione del virus in Cina fino al suo arginamento tra fine febbraio e inizio marzo 2020, e i successivi difficili mesi fino a fine giugno 2020. Una particolare attenzione viene riservata anche agli sviluppi a Hong Kong e Taiwan, nonché nelle due Coree e in Giappone. Il capitolo conclusivo amplia l’obiettivo al contesto mondiale: la diffusione dell’epidemia in tutto il mondo, la crisi economica, la recente ondata globale di mobilitazioni. Chiude il libro un’appendice sull’immagine di Wuhan nel cinema cinese.
Qui il libro in PDF liberamente scaricabile

Il fatto che poi in un’impressionante catena anche altri paesi, in primis quelli occidentali, dall’Italia fino agli Usa, abbiano altrettanto spalancato le porte al virus, non assolve certo il regime cinese. Le politiche burocratico-repressive con le quali Pechino ha gestito l’epidemia a partire da fine gennaio 2020 hanno effettivamente avuto dopo alcuni mesi notevoli effetti, impedendo, pur con un altissimo costo sociale, la morte di milioni di persone fino a fine 2021. Va precisato però che questo “grande successo” del regime cinese diventa microscopico se paragonato all’esperienza di paesi vicini come la Corea del Sud o Taiwan, che hanno ottenuto il medesimo risultato senza mai adottare politiche repressive o di violazione della dignità umana, e in pratica senza mai mettere in atto lockdown, Dad o simili. Ma la popolazione cinese, stretta nella morsa di una censura orwelliana e impossibilitata a viaggiare da inizio 2020, è a conoscenza solo del disastro occidentale.

A ciò si aggiunge che il Partito Comunista con una massiccia e abile opera di propaganda è riuscito a fare passare in ampi settori della popolazione la convinzione che la colpa del dilagare iniziale dell’epidemia a Wuhan e in altre aree della Cina fosse esclusivamente delle autorità locali. Sulla base di queste coordinate propagandistiche, il regime ha insistito ossessivamente sulla superiorità del “modello cinese” al fine di legittimare se stesso e ha fatto delle proprie politiche anti-Covid da una parte un potente collante ideologico nazionalista, dall’altra un comodo pretesto per sottoporre l’intera popolazione a un controllo sociale e a repressioni che gli tornavano utili in un momento di profonda crisi del paese. Per tutti questi motivi, una netta inversione di marcia oggi, con una crisi economico-politica ancora più profonda di due o tre anni fa, è impensabile per Xi e i suoi, che forse ne temono le conseguenze ancor più di quelle della crisi sanitaria che si aprirebbe.

La natura delle proteste, i risvolti politici

Le manifestazioni di protesta non sono state oceaniche, a scendere in piazza nelle singole città sono state solo alcune migliaia di persone, o addirittura appena alcune centinaia in alcuni casi. Probabilmente solo a Urumqi si è superato il tetto delle diecimila, e forse ci si è arrivati vicini a Wuhan, ma i materiali disponibili non consentono stime affidabili. Sulla base di queste constatazioni, e del fatto che al momento le manifestazioni sembrano esaurirsi (ma ieri a Canton c’è stata ancora una rivolta diffusa e furente), svariati osservatori ne stanno sminuendo l’importanza.

Mappa delle proteste di massa o degli atti individuali di resistenza contro le stringenti misure anti-Covid registrati in Cina nelle giornate del 26 e del 27 novembre

E’ un errore, e ciò per svariati motivi. Innanzitutto, il sistema di sorveglianza e repressione è in Cina uno dei più capillari al mondo, probabilmente superato in termini di sistematicità e copertura solo da quello nord-coreano. In secondo luogo, ciò che più di ogni altra cosa colpisce è lo scoppio contemporaneo delle proteste in circa una ventina di città dalle situazioni di tipo diverso (si veda la mappa qui a fianco): in un paese dalla vastità della Cina, e in cui l’obiettivo primo del regime è da decenni quello di contenere le proteste a livello locale, nonché a dimensioni molto ridotte, si tratta di un salto di qualità importantissimo. In terzo luogo, come si evince dal riassunto dei maggiori eventi di protesta di quest’anno e degli anni pre-Covid riportato all’inizio di questo articolo, le manifestazioni dello scorso fine settimana non sono uno scoppio isolato, ma si articolano con svariate altre proteste recenti. In quarto luogo, per loro natura coinvolgono soggetti e avanzano istanze che coprono un ampio spettro: lavoratori (in particolare migranti), donne, studenti e giovani in generale, nazionalità oppresse, tutti soggetti che rivendicano democrazia, una migliore tutela della sanità, migliori retribuzioni, libertà di parola e movimento, uguaglianza nel trattamento e, addirittura, l’esautorazione del Partito Comunista e le dimissioni di Xi Jinping.

Questi fattori nel loro insieme rendono le manifestazioni dello scorso fine settimana importantissime perché hanno infranto in un solo paio di giorni e in tutto il paese tabù e vincoli imposti da decenni. E’ di importanza fondamentale tenere ben presente questa ricca articolazione, per evitare di cadere nella trappola semplificatrice di ridurre il tutto semplicemente a una “rivolta anti-lockdown” o, per esempio, di concentrarsi esclusivamente sulle proteste più “carine” e “da classe media” di Pechino e Shanghai, trascurando quelle più popolari e arrabbiate di Urumqi, Wuhan, Canton e Zhangzhou/Foxconn.

L’esperienza di Hong Kong insegna che la crescita di un movimento di massa e perfino insurrezionale passa attraverso varie tappe, a volte intervallate da protratti silenzi, e inoltre che la congiunzione e la contemporaneità tra proteste più “carine” (mi si perdoni il termine) e proteste più estreme è di fondamentale importanza.

La portata delle proteste dei giorni scorsi è ulteriormente magnificata dal momento in cui sono avvenute. Ovviamente il primo particolare che salta all’occhio è che si sono verificate immediatamente a ridosso del congresso del Partito Comunista che ha sancito la vittoria a tutto campo di Xi, una vittoria che in un mio recente articolo avevo definito “vittoria perdente”, commentando che il leader cinese i conti veri li doveva ancora fare, in particolare con il proprio popolo – gli eventi di questi giorni ne sono una conferma. Ma prima di passare a quest’ultimo aspetto, è opportuno constatare come sia forte il sospetto che Xi i conti non li abbia fatti del tutto nemmeno all’interno del Partito. Già alcuni esperti avevano sottolineato un paio di particolari in controtendenza con la “strabiliante vittoria” congressuale di Xi, come ad esempio il mancato inserimento dello “Xi-pensiero” nella costituzione e il fatto che fino allo stesso congresso egli venisse definito in ogni sede “il leader del popolo”, locuzione poi scomparsa dai documenti subito dopo la fine del congresso.

Oggi viene spontaneo ipotizzare che alcune delle proteste (per es. a Shanghai e a Pechino) abbiano ricevuto un tacito e temporaneo avallo da alcune sfere burocratiche, sebbene naturalmente non ci siano conferme a tali ipotesi. E’ qualcosa che è successo regolarmente nei momenti di svolta che hanno segnato la storia della Cina di Mao e post-Mao, e se ciò fosse avvenuto anche questa volta, la cosa, così come in passato, non toglierebbe nulla alla spontaneità delle manifestazioni: nessun burocrate, tanto più in un paese stracontrollato dalla stretta cerchia di Xi, riuscirebbe mai a imbastire eventi di tale portata, che d’altronde hanno le loro motivazioni concrete e un ampio retroterra qui già descritto. Ma forse il temerario e inedito slogan “Xi Jinping dimettiti!” non rispecchia solo il pensiero di settori popolari cinesi, bensì anche quello di settori burocratici insoddisfatti.

A cosa è dovuta tale probabile insoddisfazione interna allo stesso regime? Sono molti i fattori in gioco: Xi ha umiliato la vecchia guardia del Partito Comunista (emblematica l’umiliante estromissione dell’ex leader comunista Hu Jintao dalla sala del congresso) e allo stesso tempo ha bloccato le possibilità di ascesa per gli under 50; agisce in generale nell’interesse del capitale, ma con le sue pessime politiche in campo immobiliare e con la stretta di Hong Kong ha chiuso o indebolito fondamentali canali di riciclo speculativo del denaro per alcune categorie di ricchi e straricchi (non va dimenticato che il partito “comunista” cinese è in realtà il partito dei milionari e miliardari); lo stesso vale per gli effetti della sua pessima gestione dei rapporti con l’Occidente; le sue politiche anti-Covid stanno arrecando grandi danni a interi settori economici in cui burocrati detengono grandi interessi; nel complesso, le sue maldestre politiche stanno generando un risveglio in vari settori popolari, risveglio che è lo spettro più temuto sia dai gerarchi della burocrazia sia da importanti settori della cosiddetta “classe media” (cioè i ricchi non straricchi) che sostiene il Partito.

A ciò va aggiunto un elemento fondamentale, la crisi che stanno vivendo le amministrazioni delle 31 grandi province e regioni autonome, quasi degli stati nello stato. In Cina sulle province e le regioni autonome ricade quasi per intero il costo delle spese sociali nonché di quelle per l’amministrazione, mentre lo stato trattiene per sé la massima parte degli introiti fiscali, che vengono destinati al sistema militare, a quello repressivo interno, alle grandi aziende e banche statali. Tradizionalmente le amministrazioni locali coprono il deficit vendendo terreni agli speculatori immobiliari, ma vista la crisi profonda del settore sono ora fortemente a corto di fondi, mentre le politiche anti-Covid volute dal centro le costringono a sostenere oneri altissimi per i test di massa e la mobilitazione del relativo personale.

In più, le già scarse entrate fiscali sono ancora più magre per via del forte rallentamento dell’economia. A quest’ultimo proposito va osservato che le proteste si sono verificate in un momento in cui la Cina sta vivendo una delle sue più gravi crisi economiche e finanziarie a causa della massa stratosferica di debito e del crollo del settore immobiliare, colonna portante dell’economia nazionale.

Come se non bastasse, coincidono con le difficoltà conseguenti allo sconvolgimento delle catene di approvvigionamento e con gli effetti delle sanzioni tecnologiche imposte da Washington. E, per accennare solo di sfuggita a un aspetto che meriterebbe ben più spazio, coincidono con drammatici sconvolgimenti nel fronte “multipolarista” di cui la Cina è un asse portante: la guerra in Ucraina con le relative enormi difficoltà della Russia, la grande rivolta in Iran, i continui fermenti in Kazakistan.

Esemplare del modo in cui si sta muovendo politicamente Xi in questo momento è il caso di Li Qiang. In occasione del congresso di ottobre quest’ultimo, un assoluto fedele di Xi, è stato promosso d’un balzo dalla posizione di segretario del Partito a Shanghai a membro del ristrettissimo organo supremo del potere cinese, il Comitato permanente del Politburo, composto da soli 7 membri. Oltretutto, le sue deleghe ne fanno di fatto il numero due dopo Xi e a marzo è prevista la sua nomina a primo ministro in occasione della seduta annuale del Congresso nazionale del popolo, il “parlamento” cinese. Si pone la domanda di quali potrebbero ora essere le reazioni di fronte a una sua tale nomina. Li Qiang infatti è fortemente inviso alla popolazione per la sua pessima gestione dell’epidemia di Covid verificatasi a Shanghai a inizio anno, che ha visto l’applicazione di un lockdown di tre mesi accompagnato da totali inefficienze nei rifornimenti di cibo e nella tenuta del sistema sanitario, con conseguenti proteste di natura simile a quelle dei giorni scorsi. Li è con ogni probabilità fortemente inviso anche a vasti settori del Partito comunista, perché la sua nomina è dovuta solo all’assoluta fedeltà a Xi, non certo a qualche forma di particolare competenza o abilità.

Alune immagini delle proteste degli scorsi giorni a Guangzhou

Sul lato popolare, le proteste avvengono in un momento in cui vi sono numerose micce pronte a esplodere. Comincio dai giovani, perché sono stati evidentemente in prima fila nelle proteste dei giorni scorsi. Attualmente la disoccupazione giovanile è pari a circa il 20% e molti di coloro che trovano lavoro lo trovano in posizioni non corrispondenti alla loro qualifica, spesso ottenuta con enormi sacrifici economici loro e delle loro famiglie. Fino a una manciata di anni fa tali problemi non esistevano. I giovani sentono poi naturalmente in modo ancora più acuto il peso del soffocamento di ogni cultura dal basso, della censura e dell’impossibilità di viaggiare. Nell’ultimo paio d’anni è prevalso l’atteggiamento di quello che loro stessi nei social hanno definito il lie flat, o “starsene sdraiati”, cioè evitare passivamente di farsi coinvolgere nella vita obbedientemente attiva che il Partito vorrebbe. Ora potrebbe cominciare a prevalere lo stand-up and fight, ovvero “alzati e lotta”.

Ampiamente visibili in prima fila nelle proteste anche le donne. In Cina sono relegate più che in altri paesi industrializzati in perenne posizione subalterna, con un onere di lavoro familiare ed extrafamiliare altissimo, e in più sono diffusamente vittime di violenze impunite di ogni genere. L’ondata enorme di indignazione delle donne per un paio di isolati casi denunciati recentemente nei social, come il video di una brutale aggressione maschile contro due donne in un locale pubblico o quello su una donna tenuta schiava per anni dalla propria famiglia, hanno costretto il regime a fare quello che sistematicamente non fa, cioè punire i colpevoli. Ma la posizione di Xi riguardo alle donne è altrimenti chiarissima: nel 2018-20 ha messo a tacere duramente il movimento femminista in rapida crescita, e con il congresso del Partito Comunista a ottobre ha eliminato anche l’ultima tenue singola presenza di una donna ai vertici.

E’ un momento critico anche per l’enorme massa di lavoratori, circa 800-900 milioni in totale. La crescita dei salari in atto da decenni si è arrestata, in alcuni casi si registrano addirittura cali, mentre le condizioni di lavoro complessive non migliorano e i soprusi non si attenuano. E’ esploso come altrove nel mondo anche il lavoro precario, mentre i timidissimi accenni di (ormai tanti) anni fa a un ruolo più elastico dei sindacati di regime si sono subito spenti – di libertà di organizzazione sindacale nella Cina “comunista” naturalmente non si parla nemmeno.

Le brutali politiche anti-Covid pesano poi in modo particolare sull’enorme massa di lavoratori migranti, quasi il 40% del totale, in termini di ostacolo alla libertà di movimento sia per cercare lavoro sia per tornare almeno una volta all’anno presso le proprie famiglie. Non è un caso quindi che in questa ondata di proteste siano stati i primi a muoversi e lo abbiano fatto in modo più deciso, per esempio a Canton e Zhengzhou.

Infine, qualche parola anche sul ceto medio, che ha goduto di ampi privilegi sia sotto Xi che sotto i suoi predecessori. Ora però le cose stanno cambiando: la crisi economica e soprattutto quella immobiliare, settore al quale hanno affidato massicciamente i propri risparmi, gli stanno arrecando forti colpi. C’è insoddisfazione anche per gli ostacoli alla libertà di movimento e la censura. Con ogni probabilità in futuro il ceto medio accentuerà le proprie posizioni ondivaghe: più arrabbiato e più “traditore” nei confronti del regime, ma sempre di fondo impaurito dalle mobilitazioni “troppo di massa” – non a caso lo slogan “non vogliamo una Rivoluzione culturale ma riforme” lo si è sentito solo nel centro della ricca Pechino ed è in buona parte in sintonia con l’ideologia del regime.

Anche se questa ondata di proteste si dovesse per il momento esaurire, non ci sarebbero comunque ragioni per limitarsi a una supponente alzata di spalle. Le coordinate complessive della situazione dicono a ogni livello che una maturazione ulteriore delle lotte popolari, ovviamente con le tempistiche che saranno necessarie, è ampiamente possibile. Allo stesso tempo, vi sono tutti gli elementi per sperare in fratture all’interno dei pilastri del regime, siano essi i burocrati centrali, le amministrazioni locali, i capitalisti in crisi o il ceto medio sempre più diviso. Il notevole know-how di cui il regime dispone in campo repressivo non è certo sufficiente per risolvere il groviglio indissolubile di problemi che si trova ad affrontare.