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  • Lumumba, Patrice Emery, l’eroe congolese delle indipendenze africane

    Lumumba, Patrice Emery, l’eroe congolese delle indipendenze africane

    di Omer Freixa, storico, da brecha.com.uy

    Patrice Lumumba, giornalista e impiegato postale del Congo belga divenuto primo ministro, fa parte del pantheon di figure che hanno segnato il processo di emancipazione africana, soprattutto negli anni Sessanta, decennio prolifico di indipendenze nel continente. A lui si affiancano altri eroi nazionali come Amilcar Cabral della Guinea Bissau e di Capo Verde, Jomo Kenyatta del Kenya, Julius Nyerere della Tanzania e il celeberrimo Nelson Mandela.

    Come molte delle figure dell’epoca, Lumumba fu neutralizzato da una miriade di interessi che cercavano di perpetuare un modello di sfruttamento del continente, prolungando le privazioni del colonialismo, ma in una veste diversa: un complotto neocoloniale sabotò il suo breve governo e portò la sua vita a una fine lenta e straziante il 17 gennaio 1961. La colpa ricade su diversi attori e, a tutt’oggi, non c’è stata giustizia.

    Le responsabilità

    Lumumba iniziò a criticare l’azione del colonialismo belga in un momento in cui il progetto europeo cominciava a essere messo in discussione in Africa in generale, e nel 1958 fondò il suo partito politico. il Movimento Nazionale Congolese (MNC). Solo nel 1960, 17 nazioni africane divennero indipendenti, tra cui la Repubblica del Congo, o Congo-Leopoldville, per differenziarla dall’ex colonia francese Congo (Brazzaville).

    L’attività militante di Lumumba lo rese estremamente vigile sull’azione dell’autorità coloniale. Fondò associazioni che guidò e che lo resero sospetto. Ma la paranoia dei suoi nemici non tardò a crescere, mentre il Congo belga cominciava a diventare un terreno di gioco della Guerra Fredda. Con l’avanzare del processo di liberazione della colonia belga, il congolese fu sospettato di simpatie comuniste e di alleanza con l’Unione Sovietica, accuse che egli respinse sempre.

    Nato nel 1925, Lumumba guidò la formazione del primo governo congolese e, nel suo famoso discorso di indipendenza del 30 giugno 1960, davanti a un pubblico che comprendeva lo stesso monarca belga Baldovino, denunciò gli abusi coloniali, seminando indignazione e odio nelle file nemiche. Il primo ministro aveva anche degli oppositori interni. Infatti, la prima formazione del gabinetto includeva il moderato Joseph Kasavubu come presidente, con il quale si crearono rapidamente dei cortocircuiti. Kasavubu era più sottomesso allo straniero e difendeva anche gli interessi etnici della sua base politica. Lumumba, che sosteneva l’unità territoriale senza divisioni etniche, diffidava del Belgio, che riteneva avrebbe sabotato i suoi piani di sovranità. E così è stato.

    Il grande attore esterno, oltre all’ex metropoli, erano gli Stati Uniti. Washington, alleata di Bruxelles, cominciò a guardare con allarme alle mosse di Lumumba, a causa dei precedenti sospetti di alleanza con il blocco comunista. Questo timore si concretizzò quando, a pochi giorni dall’inizio del governo sovrano, l’amministrazione dovette affrontare la secessione di una ricca regione mineraria, il Katanga, il 10 luglio. Il primo ministro e il presidente dovettero chiedere aiuto alle Nazioni Unite, ma anche, al di fuori dell’intervento internazionale ufficiale, Lumumba chiese l’assistenza sovietica. Il processo andò male, ostacolato da eventi interni e, in parte, dalla compiacenza esterna: la secessione nel Katanga era sostenuta dal Belgio, che inviò una cooperazione militare.

    La lotta del primo ministro era contro l’imperialismo e contro il suo intervento. Lumumba fu accusato di essere un agente sovietico. Nel contesto della rivalità della Guerra Fredda, l’obiettivo era quello di assicurarsi un territorio strategico e ricco di risorse senza alcuna minaccia rossa, per cui qualsiasi infiltrazione comunista creava allarme. Pertanto, il piano migliore per i nemici del leader nazionalista era quello di eliminarlo. L’operazione ebbe un fattore scatenante: il licenziamento e il successivo arresto di Lumumba a metà settembre 1960. Kasavubu diede l’ordine di arresto a un ufficiale militare che fino a quel momento era stato il miglior collaboratore del leader spodestato, Joseph-Désiré Mobutu, allora principale capo militare. Dopodiché, non restava che sbarazzarsi dell’ex primo ministro.

    Lumumba fu messo agli arresti domiciliari all’inizio di ottobre, ma riuscì a fuggire. Il timore dei suoi oppositori era che potesse riunire le forze per rovesciare il governo neocolonialista, servo del Belgio e degli Stati Uniti. Durante la fuga per incontrare i suoi sostenitori, fu arrestato. Lì il suo destino fu segnato. Fu dapprima riportato nel luogo originario dell’arresto, Leopoldville, e poi trasferito nel Katanga, un luogo dove, anche in caso di sedizione, il prigioniero era particolarmente odiato. Ricevuto nella provincia, che è molto frammentata, è stato torturato e picchiato da ufficiali congolesi e belgi.

    Non fu il solo a subire questa prova: anche due collaboratori ed ex ministri del suo governo subirono il tragico destino di Lumumba. I tre prigionieri furono fucilati il 17 gennaio 1961. La loro esecuzione fu cinicamente negata. Giorni dopo si disse che erano fuggiti e che, catturati, erano stati linciati da una folla in un villaggio.

    La leggenda

    Lumumba fu ucciso perché iniziava a trascendere la scena locale e si temeva un contraccolpo all’interno dei suoi ranghi. In effetti, la notizia della sua morte scatenò proteste in varie città del mondo e l’eredità di Lumumba continuò a essere attiva attraverso una serie di sacche armate che lottavano per rovesciare l’ordine costituito protetto da poteri esterni.

    Il leader congolese divenne una figura popolare tra le masse e, nonostante una breve parentesi nel governo congolese, raccolse simpatia e affetto. Paradossalmente, Lumumba fu dichiarato eroe nazionale da chi lo aveva tradito, proprio da Mobutu nel 1966, che prese il potere nel novembre 1965 e governò fino al 1997 in modo corrotto e dispotico, come baluardo di stabilità e contro la minaccia a est della cortina di ferro. L’ex fidato collaboratore di Lumumba era stato uno dei promotori della sua destituzione.

    Per quanto riguarda gli Stati Uniti, l’allora presidente Dwight Eisenhower diede l’ordine di ucciderlo nell’agosto 1960. La CIA collaborò sia al suo rovesciamento in settembre sia alla pianificazione del suo assassinio in Katanga mesi dopo. La ferocia contro questo eroe fu tale che il suo cadavere, come quello dei suoi due compagni, fu immerso nell’acido solforico per non lasciare alcuna traccia del crimine. L’anno scorso è stato recuperato solo un dente.

    Lumumba ci ricorda che un mondo più giusto è possibile. Il martire dell’indipendenza di un paese definito “scandalo geologico” non cercava solo l’emancipazione locale, ma il suo progetto comprendeva l’indipendenza totale dell’Africa, come disse nel suo famoso discorso nel giorno dell’indipendenza. Era un panafricanista che lottava contro la penetrazione imperialista in tutte le sue forme e contro il suo proseguimento nonostante la liberazione, solo politica, del neocolonialismo. Quando l’imperialismo brama ciò che cerca, non perdona.

    Nel 2002 il Belgio ha ammesso la responsabilità del suo assassinio e non molto altro. Lumumba ha risvegliato un’ideologia di liberazione che è ancora viva oggi, quella di porre fine alle reminiscenze del colonialismo, quella di far sì che i popoli africani possano assumersi la responsabilità del proprio destino senza dover rendere conto a nessuno. È vero il detto dell’intellettuale terzomondista nativo della Martinica Frantz Fanon secondo cui l’Africa ha la forma di un revolver e il Congo è il suo grilletto. La violenza si è scatenata contro un uomo che sognava una patria dignitosa e un continente sovrano unito contro lo sfruttamento, quello sfruttamento che continua ancora oggi.

  • Il lavoro delle/gli anticapitaliste/i nel sindacato oggi

    Il lavoro delle/gli anticapitaliste/i nel sindacato oggi

    Con questo testo non pretendiamo di indicare soluzioni per i numerosi e complessi problemi che vivono coloro che cercano di rispondere adeguatamente al bisogno di una reale tutela sindacale, così diffuso nelle classi lavoratrici e popolari del nostro paese.
    Riteniamo però di indicare con franchezza le domande a cui si dovrebbe dare risposta.

    La “questione sindacale” riveste oggi, nella fase storica che stiamo vivendo, un’importanza e una specificità molto diversa da quelle che ebbe nel passato.

    La caduta delle certezze diffuse nella seconda metà del secolo scorso, la perdita verticale di credibilità del riformismo e del gradualismo, il venire meno dell’autorevolezza di massa dell’obiettivo socialista (soprattutto dopo il crollo dell’URSS e dei “paesi socialisti”), tutti fenomeni più ampiamente analizzati nel testo “Ricominciare su nuove basi”, fanno attribuire una rilevanza del tutto particolare e “nuova” alla questione del “lavoro sociale”. 

    Una sinistra politica che non si colleghi strettamente ad un lavoro paziente e quotidiano di radicamento sociale è una sinistra che parla solo ai settori già politicizzati, quando invece il compito centrale è quello di parlare alle masse più larghe, a tutte e tutti coloro che nei posti di lavoro sono costretti in situazioni di sfruttamento, precarietà, arbitrio padronale, qualunque sia il loro orientamento politico, a coloro che non votano, a chi vota, seppure disilluso, per le formazioni di centrosinistra o di sinistra, e perfino a chi, nei quartieri popolari, vota per disperazione per la destra.

    Questo non significa accantonare la battaglia propagandistica e quella teorica (anzi, semmai, in questi campi occorrerebbe fare di più), ma capire che limitarsi solo a quelle due significa galleggiare in una pozza in via di prosciugamento.

    Naturalmente, il “lavoro sociale” non si limita solo a quello verso i luoghi di lavoro e verso le lavoratrici e i lavoratori. “Lavoro sociale” è anche quello ambientalista, quello femminista, quello antirazzista, quello per la casa, ecc.

    Ma quello sindacale, tra i vari tipi di lavoro sociale, è quello che assume i maggiori caratteri di stabilità e di strutturazione, perché:

    • si innesta in una tradizione ultrasecolare,
    • si confronta in una battaglia di unità e di scontro con altre correnti sindacali, strutturate e con un loro “progetto”,
    • e, soprattutto, si rivolge ad interlocutrici e interlocutori (lavoratrici e lavoratori) che, nonostante la grande precarietà del mondo del lavoro e la sua crescente frammentarietà, hanno un legame stabile e codificato tra loro (si ritrovano quotidianamente negli stessi ambienti, sono messi di fronte agli stessi problemi, sono vittime degli stessi meccanismi e possono tutelarsi con gli stessi strumenti), una stabilità che non ha paragoni con altri movimenti.

    Non a caso numerosi quadri e interi raggruppamenti militanti radicalizzatisi nei decenni scorsi hanno scelto negli anni di dedicare il loro impegno al “lavoro sindacale”, alcuni dando vita a vere e proprie organizzazioni, altri aderendo individualmente o collettivamente ad organizzazioni già esistenti (compresi ovviamente i sindacati confederali e in primo luogo la CGIL).

    Un breve excursus storico sulla sinistra e i sindacati

    E’ per questo che alcuni dirigenti di Democrazia Proletaria nel 1978, quando sono apparsi i primi segni del “riflusso” e nei sindacati confederali si è formalizzata la “svolta dell’EUR”, hanno scelto di costruire Democrazia consiliare, cioè una “componente” che cercava di “movimentare” il panorama politico della CGIL fossilizzato attorno alle tre “componenti” tradizionali.

    Solo pochi mesi prima, alla fine del 1977, sulla base di uno scontro all’interno del “consiglio dei delegati” della sede romana dell’INPS, una parte allora maggioritaria di quell’organismo decise di rompere con la FLEP Cgil, dando vita ad un Comitato di lotta che fu l’embrione delle RdB e poi dell’USB.

    Così come, molto più recentemente, alcuni militanti reduci dall’impasse del progetto di costruzione dell’Organizzazione Comunista Internazionalista, hanno deciso di concentrare le loro iniziative nell’organizzazione sindacale dei lavoratori dei centri di logistica, dando vita ai primi nuclei del SiCobas.

    Ovviamente, questo spostamento dell’impegno militante dalla sfera prettamente politica a quella sindacale ha coinvolto nei vari decenni migliaia di militanti, con la nascita dei Cobas Scuola (1986) e successivamente della Confederazione Cobas, poi del Sincobas, del Sult, della CUB, ecc.

    La crescita del “sindacalismo di base” si è basata sulla diffusa percezione della inanità dell’azione delle confederazioni, in particolare dopo il varo della fallimentare politica della “concertazione”

    Un’analoga crescita di “militanza di sinistra” si è verificata anche nella Cgil, dove si sono ricollocati molti quadri in fuga dalla crisi dell’estrema sinistra e dove si sono sviluppate le battaglie contro gli “accordi di concertazione” (1992-93), con il Documento dei 39 (1990) e poi con Essere sindacato (1991), diretti da Fausto Bertinotti, e successivamente con Alternativa sindacale (1996) e con Cara CGIL (1996).

    La convergenza tra Alternativa sindacale e la maggioranza cofferatiana della CGIL (2002) e poi il patto di vertice tra Gianpaolo Patta (e la sua componente divenuta Lavoro società) e Guglielmo Epifani hanno portato alla nascita di un movimento di delegati insoddisfatti della deriva moderata della ex-sinistra sindacale, movimento che è sfociato nella creazione della Rete 28 aprile (2005) diretta da Giorgio Cremaschi, storico dirigente dei metalmeccanici, discepolo di Claudio Sabbattini.

    Nel frattempo, infatti, si era prodotta, a partire dalla vertenza Electrolux-Zanussi (2000), una rottura tra la FIOM Cgil, prima diretta da Sabbattini (1996-2002) e poi da Gianni Rinaldini (2002-2010), e gli altri sindacati confederali metalmeccanici (FIM e UILM), con la scelta da parte dei metalmeccanici Cgil di non sottoscrivere il “contratto separato” (2003) e poi gli accordi con la FIAT-FCA di Marchionne, oltre che di partecipare in maniera aperta alle iniziative del movimento altermondialista

    Anche la Confederazione intanto risentiva fortemente della pressione FIOM per non “omologarsi” a CISL e UIL, con la non condivisione da parte di Cofferati del “libro bianco” Biagi-Maroni (2000), con la conseguente mobilitazione culminata nella manifestazione di Roma del 23 marzo 2002 al Circo massimo, fino ad arrivare alla non sottoscrizione da parte della CGIL di Susanna Camusso del “protocollo di riforma del modello contrattuale” (2009).

    In quel periodo si sviluppò un fortissimo ed aspro dibattito nella CGIL, non solo tra nuclei di attivisti di base e vertici burocratici, ma verticalmente all’interno dell’intero apparato, tra una maggioranza desiderosa di “rientrare nei ranghi”, soprattutto dopo che il governo Monti aveva offerto l’illusione che fosse finita la stagione dei “governi ostili”, e una minoranza di quadri e di dirigenti (oltre che nella FIOM anche nella FP, nella FISAC e in altre strutture) che sostenevano la necessità di una svolta nei metodi e nei contenuti verso una struttura più democratica e verso una maggiore indipendenza dai governi.

    Quella fase di intenso scontro fu l’occasione per la Rete 28 aprile di passare dal livello di pura aggregazione di quadri e delegati alla costruzione di una vera e propria area congressuale: Il sindacato è un’altra cosa e di avere una propria politica autonoma nel quadro dello scontro interno alla confederazione, pur se in “alleanza critica” con il vertice FIOM.

    Questa situazione ha consentito ai componenti dell’area collocati nei diversi posti dell’apparato, di poter, seppur in maniera conflittuale, continuare a svolgere un vero e proprio lavoro sindacale, mantenendo ruoli e posizioni negli organismi politici e in quelli “esecutivi” dell’organizzazione (che poi sono i veri depositari delle scelte politico sindacali).

    E, soprattutto, l’area stessa ha potuto agire come soggettività politica autonoma, tanto dall’assumere un ruolo centrale nella costruzione del Comitato No debito (2010) e poi della mobilitazione contro il governo Monti (27 ottobre 2011), riuscendo a dare vita attorno a sé ad un fronte unico di tutto il “sindacalismo conflittuale”, che proseguì anche negli anni successivi, con importanti iniziative anche in grandi aziende.

    Questa situazione si è del tutto chiusa con gli accordi di palazzo tra il segretario della FIOM e la segretaria della CGIL (2015) e poi con l’elezione di Maurizio Landini prima in segreteria confederale (2017) e poi nella poltrona di segretario generale (2019).

    Le conseguenze della “svolta” di Landini

    La classe lavoratrice, di fronte alla “rivoluzione liberista”, ha più che mai bisogno di strumenti di ricomposizione, di difesa delle proprie condizioni di lavoro e di lotta antipadronale.

    La CGIL nella sua parabola involutiva ha sempre meno rappresentato uno strumento valido in questa direzione. E’ una parabola che ha radici lontanissime, nel riformismo moderato dei suoi dirigenti che già non si contrapposero efficacemente all’ascesa del fascismo (1919-1922) e che è continuata anche nel secondo dopoguerra. 

    Ma la CGIL è restata per lungo tempo un importante terreno per una battaglia politica e per dare un contributo per un progetto di costruzione di uno strumento sindacale alternativo: nella CGIL si poteva lavorare per radicarsi in vari settori, per acquisire un’esperienza sindacale preziosa anche in contesti diversi, per interloquire con altri quadri e organismi del sindacalismo di classe attorno all’esigenza di uno strumento diverso.

    Dal momento della svolta di Landini e della chiusura dell’ “anomalia FIOM”, però, gli spazi di battaglia politica e di lavoro sindacale nella CGIL si sono drasticamente ridotti.

    Questo non significa che la CGIL non continui ad essere un importante terreno di radicamento e di relazione sociale. Ma non è più un terreno di costruzione dell’alternativa sindacale di cui ha bisogno la classe lavoratrice italiana.

    Basta osservare alcune controprove: numerosi quadri che avevano partecipato alle varie battaglie di minoranza (e, in particolare a quella del Sindacato è un’altra cosa), per continuare ad avere un ruolo sindacale (che era la motivazione del loro impegno nella CGIL), sono dovuti uscire dalla CGIL oppure ritornare nell’alveo della maggioranza.

    Quanto agli spazi di battaglia politica, basti ricordare che per sopravvivere la corrente di “opposizione CGIL” si è dovuta fondere con quello che restava della corrente che, nel 2014 al 17° congresso, era accorsa in aiuto di Susanna Camusso contro la minoranza: altro che ricerca dell’alternativa sindacale…

    Questo significa che la base CGIL è largamente se non totalmente impossibilitata dal praticare pressioni e rivolte contro i vertici del tipo di quelle del 1992? 

    Negli ultimi 12-13 anni (a parte l’importante eccezione della vicenda GKN, su cui torneremo) non si sono verificati episodi significativi di seppur timida contestazione nei confronti dei vertici burocratici né di significativa pressione per una correzione di rotta. Non vanno considerati in questa disamina i malumori, le manifestazioni di scontento tipiche di qualunque sindacato. 

    Ovviamente non pregiudichiamo il futuro ma nella fase attuale qualunque elemento di analisi tende a escludere che possa prodursi una situazione nella quale diventi praticabile in relazione con la CGIL una forma di autorganizzazione alternativa alla burocrazia.

    Ed è anche estremamente improbabile che, in misura più modesta, si creino la condizioni perché settori rilevanti di base esercitino in maniera significativa una pressione sui vertici per un cambio anche solo parziale di rotta.

    Anche qui non si vuole escludere che l’atteggiamento esplicitamente antisindacale del governo di estrema destra e la durezza dell’attacco padronale inducano la burocrazia (o settori importanti di essa) ad un cambio di linguaggio e all’adozione di iniziative di mobilitazione. Cosa che peraltro sarebbe necessaria da tempo ma che la burocrazia ha evitato accuratamente di fare da oltre 10 anni a questa parte (ovviamente non fa testo la demagogia parolaia di Landini).

    Guardiamo alla recente esperienza francese, nella quale per piegare la determinazione della classe e del governo padronali non sono bastate 11 giornate di sciopero, una ventina di giornate di manifestazioni diffuse in tutto il paese e significativi settori produttivi (trasporti, energia, igiene urbana, ecc) segnati da scioperi tendenzialmente ad oltranza.

    Ovviamente, con ciò non si vuole affatto banalizzare la lotta straordinaria della classe lavoratrice francese negli ultimi 5-6 mesi che costituisce per tutti un punto di riferimento di eccezionale importanza, che abbiamo seguito con molta attenzione e con forte solidarietà. 

    Si vuole però sottolineare come le tiepide iniziative antigovernative che di tanto in tanto assumono le confederazioni italiane non abbiano alcuna speranza di scalfire la determinazione del padronato italiano e del governo di estrema destra, peraltro mossi da esigenze “macroeconomiche” perfino più stringenti dei loro omologhi transalpini. Ci vorrebbero impostazioni politiche e scelte organizzative che le burocrazie di CGIL, CISL e UIL sono intrinsecamente e strutturalmente incapaci di assumere.

    Non ha dunque senso, in questo contesto, invocare da Landini e dai sindacati confederali l’indizione di una giornata di sciopero generale, che, anche se ipoteticamente indetto, non sarebbe intrinsecamente capace di invertire o anche solo di attenuare l’offensiva padronale e governativa. Anzi, gli effetti inevitabilmente nulli delle fiacche e formali iniziative di testimonianza in vita prese dalle burocrazie sindacali rischiano di produrre ulteriore demoralizzazione e rassegnazione.

    Nel 2015, dopo l’esperienza del 17° congresso e dopo il “tradimento” di Landini e la sua ricomposizione conflittuale e burocratica con Susanna Camusso, che ha riportato in auge nella confederazione la pratica delle faide e degli accordi di palazzo, si era aperta una piccola possibilità di aggregare attorno alla proposta della ricerca di un progetto sindacale alternativo l’importante collettivo classista e antiburocratico (radicato in importanti realtà lavorative sparse nel paese) che si era enucleato nell’esperienza del Sindacato è un’altra cosa.

    Anche quella, come fu nel 1992, è stata un’occasione mancata, anche a causa di chi ha rivendicato come inevitabile la scelta di non perseguire quella possibilità.

    La GKN

    L’esperienza della lotta alla GKN di Campi Bisenzio (iniziata nel luglio 2021) ha costituito la più significativa esperienza di autorganizzazione operaia negli anni recenti. La lotta di quegli operai ha costituito per oltre un anno un punto di riferimento importante nell’ottica della “convergenza” delle frammentate esperienze di conflitto sociale e ambientale presenti nel paese.

    Ha aggregato attorno a sé settori importanti del sindacalismo di base, ha messo in contraddizione la politica della burocrazia CGIL (per non parlare di quella CISL), si è coraggiosamente mobilitata in occasione di più o meno grandi iniziative unitarie o di sigla del sindacalismo di base, ha offerto una qualche speranza alle frammentarie esperienze di lotta delle aziende “delocalizzate”.

    Ha mostrato l’efficacia di un’autorganizzazione (il collettivo di fabbrica) che andasse ben al di là dell’organizzazione degli iscritti a questo o quel sindacato.

    Ma, senza infingimenti, occorre anche riconoscere che nella sua scelta di “insorgenza” ha accuratamente evitato di “insorgere” contro un avversario non irrilevante e per certi versi centrale, cioè proprio contro i vertici della CGIL. Ha nei fatti rinunciato a far “convergere” veramente, cioè aggirando e scavalcando i canali burocratici, le numerose vertenze contro chiusure e delocalizzazioni.

    E, nei fatti, ha affidato alla CGIL la gestione della vertenza istituzionale e alla politica (cioè a qualche deputato volenteroso) la gestione della proposta sulle delocalizzazioni elaborata da un gruppo di giuristi e di economisti. 

    Purtroppo con i risultati che abbiamo visto.

    E non lo diciamo perché la vertenza si sta concludendo nel modo deteriore analogo a quello con cui si vanno sempre a concludere vertenze di quel tipo. Forse questo era, sì, inevitabile. Ma perché non sembra aver sedimentato granché nel sindacato. 

    Un panorama sindacale oggi ulteriormente deteriorato

    Della CGIL abbiamo detto.

    Quanto al sindacalismo di base, la “cartellizzazione” a geometria variabile rende tutte le sigle sul campo sempre meno utilizzabili per l’elaborazione di un progetto del tipo che sarebbe necessario.

    La durezza e la determinazione dell’attacco padronale e governativo e il disarmo delle direzioni confederali hanno drasticamente frammentato e disarticolato la classe lavoratrice. Il bisogno di un sindacato che operi con efficacia una difesa delle lavoratrici e dei lavoratori cresce esponenzialmente, anche se le lavoratrici e i lavoratori, proprio perché frammentati e disarticolati e a causa dei tradimenti del “sindacalismo reale”, non esprimono affatto in maniera consapevole ed esplicita questo bisogno.

    Ad esempio, il collateralismo corporativo tra alcuni sindacati (anche della CGIL) e le direzioni aziendali (in particolare in alcuni servizi e in parte del pubblico impiego) legittimano la visione che tende ad includere i sindacati nelle “controparti”.

    Anzi, comprensibilmente tante lavoratrici e tanti lavoratori considerano i “sindacati” corresponsabili della situazione di sofferenza sociale. Ma il saper dare risposta a quel bisogno bruciante ma inespresso è un compito cruciale dell’epoca, uno dei tanti compiti che la sinistra (compresa quella “radicale”) evita di considerare, delegandone la soluzione alle direzioni dei sindacati “di riferimento”.

    Inoltre, i sindacati confederali (e a modo loro anche quelli di base) si muovono, salvo marginali e inessenziali correttivi, utilizzando un metodo organizzativo e uno stile politico sostanzialmente consolidatosi nella fase di ascesa sociale (anni 60 e 70), del tutto inadeguato al contesto del capitalismo neoliberale, largamente incapace di intercettare veramente e di rispondere ai bisogni delle classi lavoratrici attuali, segnate dal diffondersi di multiculturalismo, gap generazionali e di genere, frammentazione aziendale, ecc.

    In tal modo offrono anche il fianco alla campagna padronale e corporativo-reazionaria sulla non funzionalità del sindacalismo.

    Anche le RSU, che pure in una prima fase avevano assunto il ruolo di parziali surrogati degli organismi democratici di base di altri periodi, hanno smesso di combattere la rassegnazione della base e spesso hanno conosciuto fenomeni di burocratizzazione e di disaffezione.

    Spesso a sinistra si mitizza la cosiddetta “indipendenza” sindacale, anche per evitare di discutere su quel che accade nel sindacato, su quali siano le prospettive, e si preferisce sopravvivere nelle nicchie di apparati piccoli o grandi sostanzialmente dannosi per lavoratrici e lavoratori.

    Nella opposizione CGIL, ad esempio, esiste un bilancio mai esplicitato ma scolpito nella testa della direzione di quella corrente: quando Il sindacato è un’altra cosa e la sua direzione, nel periodo 2010-2015, hanno praticato (occorre dirlo con il consenso di tutte/i gli aderenti di allora) una linea effettivamente di opposizione e di aggregazione trasversale del sindacalismo conflittuale, la reazione difensiva della burocrazia è stata risoluta e impietosa, con l’immediata emarginazione e la successiva espulsione dei delegati più esposti e del coordinatore dell’area.

    I dirigenti di quel che resta di quell’area nella CGIL hanno dunque impresso nel loro orientamento il fatto che occorre seccamente evitare di tornare su di un percorso di quel tipo per evitare di essere messi di fronte a scelte troppo difficili.

    La mitizzazione dell’indipendenza

    L’indipendenza del sindacato non significa che di come si lavora in un ambito sindacale non si possa discutere in qualunque altro ambito. Peraltro sia la CGIL sia i sindacati di base sono tutt’altro che indipendenti dalla politica e dai partiti. Ne soffrono l’ingerenza ed è giusto denunciarla. E a volte sono persino le burocrazie sindacali a “ingerirsi” nella politica: basta ricordare le ambizioni accarezzate da Landini, dalla sua poltrona CGIL, o, in un ambito più importante e più fattuale, il ruolo fondamentale che ebbe Bruno Trentin al momento della trasformazione del PCI in PDS. Così come sono noti i legami tra alcuni sindacati di base e alcune forze politiche.

    Storicamente, il sindacalismo di sinistra è stato uno strumento centrale della politica dei partiti operai. Basti ricordare che nella Russia pre 1917 non esistevano sindacati “indipendenti” ma agivano sindacalisti funzionari dei vari partiti (menscevichi e bolscevichi) che penetravano più o meno abusivamente nelle fabbriche per sostenere ed aiutare la base operaia nell’organizzare scioperi e iniziative antipadronali.

    Certo, indipendenza significa non subalternità a progetti di piccole o grandi conventicole partitiche. Significa soprattutto organizzazione democratica in cui le sedi decisionali siano il più possibile nella mani della base, significa far prevalere l’obiettivo dell’unità su basi di classe piuttosto che su quello della fedeltà ad un progetto politico extrasindacale.

    Certo, oggi la divisione del fronte sindacale (anche del sindacalismo cosiddetto “conflittuale”, tra quello interno alla CGIL e quelle esterno dei sindacati di base) è la conseguenza diretta delle scelte delle direzioni dei diversi raggruppamenti. Ma non basta rilevare questa divisione e denunciarne le conseguenze negative, se nessuno, né nel sindacalismo, né nella sinistra politica, si batte per elaborare un progetto unificante di costruzione di un sindacalismo alternativo.

    Il sindacato che vuole la classe lavoratrice

    Questa impellenza non può essere aggirata ripetendo l’ovvietà secondo cui il sindacato democratico e di massa di cui c’è bisogno nascerà solo se dalla CGIL si staccheranno fette consistenti della base, cosa su cui sono d’accordo anche grandissima parte dei dirigenti dei sindacati di base.

    Non basta questa constatazione. La consapevolezza di questa cosa, unita all’analisi delle conseguenze delle sconfitte storiche che la classe lavoratrice sta accumulando, non ci può far collocare in una posizione di semplice attesa che questa mitica “rottura antiburocratica” avvenga. Per il momento, il distacco dalla burocrazia sta avvenendo in senso negativo, con una progressiva spoliticizzazione della base CGIL, con una sempre più marcata desindacalizzazione di fatto delle aziende, con lo sviluppo del “sindacalismo assistenziale” (quello dei CAF, dei patronati, al massimo degli uffici vertenze), con una crescente indifferenza verso il sindacato da parte delle/dei giovani lavoratrici/tori e della classe lavoratrice immigrata, ecc.

    E’ possibile che le confederazioni sindacali italiane non conoscano un vero e proprio fenomeno di “desindacalizzazione” (prendendo per buone le cifre sulle iscrizioni fornite dagli uffici stampa delle burocrazie), ma la loro perdita di peso e di ruolo è percepibile da qualunque osservatore obiettivo.

    Avere la consapevolezza del fatto che il futuro sindacato “altro” nascerà veramente solo se e quando si staccheranno dal controllo burocratico settori importanti non significa porsi in una situazione di attesa semplicemente invocando dalla direzione collaborazionista un atteggiamento un po’ più “duro”. Avere quella consapevolezza significa prepararsi fin da oggi a quella auspicata evenienza. 

    Nel 1992 lo “sciopero dei bulloni” non produsse nessuna rottura significativa nella CGIL non solo a causa dell’opportunismo di Patta e Bertinotti, ma perché nessuno aveva preparato nulla per quella cruciale situazione.

    Inoltre, se quella rottura si verificherà, occorre rispondere alle domande:

    • Come avverrà? Avverrà con una rottura verticale o con un esodo sostanzialmente molecolare?
    • E, soprattutto, come stiamo lavorando perché questo avvenga?
    • Che apporto vogliamo dare?

    Sappiamo che le rotture si producono il più delle volte per fenomeni esterni e non per iniziativa di piccoli gruppi politici. Ma i gruppi politici possono o meno capitalizzare quelle rotture solo se si sono pazientemente ma coraggiosamente preparati a quello scenario. 

    Altrimenti si continuerà ad essere solo gli spettatori dell’inerzia o, nella migliore delle ipotesi, a poter solo commentare dinamiche gestite e dirette da altre/i.

  • Uruguay, 50 anni dopo il colpo di stato

    Uruguay, 50 anni dopo il colpo di stato

    50 anni fa, il 27 giugno 1973, l’Uruguay, governato fin dal 1968 in maniera autoritaria, conobbe una brusca accelerazione delle politiche repressive, con lo con lo scioglimento del parlamento e l’insediamento di una vera e propria dittatura civile-militare.

    I quasi undici anni di dittatura (la vita democratica riprese formalmente il 28 febbraio 1984) le politiche terroristiche delo stato portarono a migliaia di carcerazioni illegittime, a torture, a assassinii, a sparizioni, a crimini sessuali, al sequestro di minori, all’esilio.

    Il golpe uruguaiano si colloca nel periodo nel quale le classi dominanti del subcontinente latinoamericano, con l’esplicito sostegno politico e materiale dell’amministrazione di Washington, temendo di perdere il controllo della società, attraversata da importanti conflitti sociali, reagiscono violenetemente, affidando il potere statale alle gerarchie militari.

    In quel periodo oltre al golpe uruguaiano (27 giugno 1973) si collocano anche i golpe cileno (11 settembre 1973) e argentino (24 marzo 1976).

    Tutto il Novecento latinoamericano è segnato da decine di colpi di stato, segno della debolezza della borghesia dei diversi paesi del subcontinente di fronte all’ascesa delle masse popolari, in particolare dopo la vittoria della Rivoluzione cubana (1959).

    Per ricordare il cinquantesimo anniversario del golpe uruguaiano, pubblichiamo qui sotto un articolo di Ernesto Herrera, editore del sito Correspondencia de Prensa, e un estratto del libro Las historias que no nos contaron. 1973: Golpe de Estado y Huelga General, di Víctor L. Bachetta.

    1973, l’imposizione di un regime controrivoluzionario

    di Ernesto Herrera, da correspondenciadeprensa.com

    Giovedì 12 luglio 1973. Decine di migliaia di lavoratori tornano al lavoro. Nelle fabbriche, nei cantieri, nelle officine, nelle banche, negli stabilimenti di lavorazione della carne, negli ospedali, negli uffici, si comincia a ristabilire la “normalità” lavorativa.

    In molti di questi luoghi, appena arrivati, i lavoratori trovano le stesse immagini inquietanti: manifesti sindacali e cartelli di solidarietà strappati. Mancano gli spogliatoi, gli armadietti sono vuoti. Nessuna traccia di organizzazione o di lotta recente.

    Il giorno prima, il Consiglio di Rappresentanza della CNT (Convención Nacional Trabajadores), ormai fuori legge, ha deciso di revocare lo sciopero generale: 22 sindacati a favore, 2 contrari, 4 astenuti. Nella risoluzione si legge che:

    “Nelle attuali circostanze il suo prolungamento indefinito porterebbe solo a logorare le nostre forze e a consolidare quelle del nemico. Non usciamo da questa battaglia sconfitti o umiliati. Al contrario, l’eroismo dimostrato durante tutta la battaglia, in particolare dai distaccamenti più forti della classe operaia (…) dimostra che la forza dei lavoratori, nonostante le ferite ricevute, non è stata fondamentalmente intaccata”.

    (Il PIT-CNT, Plenario Intersindical de Trabajadores (PIT) e Convención Nacional Trabajadores (CNT), è la risultante della unificazione dei due principali sindacati uruguaiani, formatasi il 1° maggio 1983, quando la brutale dittatura civile-militare stava entrando nella sua fase finale, ndt).

    A quel punto, centinaia di scioperanti e militanti erano già imprigionati nelle caserme e nel Cilindro Municipal de Montevideo, il più grande stadio di basket del paese. Coloro che riuscirono a sottrarsi alla caccia repressiva si rifugiarono nella clandestinità. Alcuni vagavano all’aperto, altri si rifugiavano presso amici, parenti, centri parrocchiali. Tutti in clandestinità.

    A differenza dei dirigenti della CNT, gli imprenditori lessero la situazione con precisione. Fecero i conti e agirono, senza indugio. Felici della vittoria golpista, impedirono qualsiasi sforzo di riorganizzazione sindacale di base, vietando persino i distintivi. La parola “compagno” divenne sospetta per capisquadra e dirigenti. Doveva essere pronunciata sottovoce. I “facinorosi” più in vista furono licenziati quasi immediatamente. Era il test dei padroni per valutare la capacità di reazione dei lavoratori. Non c’è stata.

    Gli accordi firmati e le categorie funzionali sono stati immediatamente disattesi. I turni di lavoro, i “buoni” quindicinali e le ferie annuali sono stati “riprogrammati”. Gli straordinari sono tornati a essere una “semplice” retribuzione. Gli abiti da lavoro divennero costosi. Tutte le conquiste precedenti furono calpestate.

    Non c’era spazio per la confusione. Questi erano i primi segni di un’innegabile sconfitta strategica. Lo sciopero generale che affrontò il colpo di stato del 27 giugno non poté impedire il consolidamento di un regime “civile-militare” che avrebbe spazzato via tutte le libertà democratiche per più di un decennio.

    Nei giorni e nelle settimane successive alla revoca dello sciopero, l’indignazione si accelerò. Cominciarono a circolare innumerevoli “liste nere”. In esse, le camere di commercio e il ministero degli Interni “marchiavano” gli attivisti. A questi ultimi veniva impedito di lavorare in qualsiasi settore dell’economia. Migliaia furono licenziati nel settore privato (anche senza indennizzo). Altri furono “riassunti” e poi licenziati nel servizio pubblico.

    Era necessario riqualificarsi per sopravvivere. E molti non hanno trovato altra scelta che il lavoro precario dei changa (i lavortetti, ndt), che non richiedeva un precedente impiego o una fedina penale pulita. Si muovevano attraverso varie “professioni”. In questo modo, hanno improvvisato un nuovo “sapere lavorativo” in condizioni di sovra-sfruttamento. Tra il 1974 e il 1981, i salari sono diminuiti del 30%.

    Vennero imposte “nuove forme di rapporti di lavoro”. Generate dalla “caduta dei salari reali, dall’aumento dell’orario di lavoro e della sua intensità e dalla maggiore partecipazione delle donne, con salari medi più bassi, al mercato del lavoro. Tutto ciò ha portato a un sostanziale aumento del plusvalore assoluto e relativo estratto. A ciò si è aggiunta una squalificazione delle conoscenze dei lavoratori, dovuta all’esilio forzato del contingente più qualificato della forza lavoro”. (da La Dictadura Financiera, di Juan Berterretche e Aldo Gili, sotto gli pseudonimi di Juan Robles y Jorge Vedia, Editorial Letro, Montevideo, 1983)

    A metà del 1974, migliaia di lavoratori e le loro famiglie erano partiti per un esilio economico in Argentina, Europa, Canada e Australia. Con lo sgomento nelle loro valigie. Alcuni non sono più tornati. Altri sono tornati solo nel 1985, con la “restauración democrática”.

    La fine del mito dell’Uruguay “democratico”

    La revoca dello sciopero significava “tornare al lavoro” alle condizioni imposte dai putschisti. Si trattava di una prova categorica che l’equilibrio del potere si era rovesciato contro i lavoratori e le loro organizzazioni.

    Con l’interruzione dello sciopero, lo stato e le fazioni dominanti delle classi proprietarie hanno ristabilito il controllo della “disciplina sociale”. Senza bisogno di tornare alle “tradizioni civiche”, che erano diventate obsolete. Che erano obsolete.

    La “vecchia classe politica”, logora, “inetta e corrotta”, è stata estromessa dal potere. Non c’era bisogno di espedienti legalistici. Il formato istituzionale del regime di dominio è stato radicalmente rovesciato. Non solo di facciata. La favola dell’”Uruguay liberale”, egualitario e tollerante, famoso per il suo modello “esemplare” di partitocrazia, lasciò il posto a un granitico ordine controrivoluzionario. Atroce, oscurantista.

    Pioniere, è bene ricordarlo, nell’inaugurare il ciclo del terrorismo di stato nel Cono Sud durante gli anni Settanta. Senza le bombe e le sparatorie di massa fin dal primo giorno, come avvenne nell’assalto fascista che rovesciò il governo popolare di Salvador Allende, ma certamente con lo stesso istinto criminale.

    Da questa parte della cordigliera, “solo due morti”: Ramón Peré e Walter Medina, giovani studenti uccisi dalla polizia mentre scrivevano sui muri durante lo Sciopero Generale. Anche se l’infame elenco dei crimini contro l’umanità, con migliaia di prigionieri politici e torturati, centinaia di assassinati e scomparsi, sarebbe stato compilato più tardi, nell’ambito dell’oscuro Plan Cóndor che operava in Argentina, Cile, Paraguay e Uruguay.

    L’apparato totalitario prese di mira le organizzazioni sindacali e studentesche, il Frente Amplio e tutte le forze di sinistra, la libertà di stampa, la creatività culturale. Erano i nemici principali, obiettivi strategici da distruggere. Così insegnavano i manuali di controinsurrezione della “Dottrina della sicurezza nazionale” ispirata da Washington.

    In questo quadro di terrore implacabile, ogni espressione di resistenza valeva una lunga condanna per il reato di “sedizione”, dettata da un sistema giudiziario militare che a sua volta metteva a disposizione giudici, pubblici ministeri e “avvocati d’ufficio” (civili e militari) che fingevano di difendere gli accusati.

    Le illusioni delle direzioni sindacali

    Nel 1964, il movimento sindacale aveva deciso uno sciopero generale in caso di colpo di stato. La misura fu ratificata dalla CNT nel 1967, poco dopo la sua fondazione. Si sarebbe aggiunto “con l’occupazione”, per concentrare la forza nei luoghi di lavoro ed “evitare la dispersione”. La resistenza sarebbe avvenuta con “metodi pacifici”.

    Nessuna delle innumerevoli sequenze fotografiche dell’epoca mostra poliziotti o soldati feriti o attaccati nel corso dello sciopero. Una prova ineludibile che la resistenza non andò mai oltre le indicazioni della CNT, egemonizzata dal Partito Comunista.

    Le proposte di utilizzare metodi di resistenza più militanti sono state soffocate in nome dell’“unità” del movimento operaio. Iniziative isolate per esercitare il legittimo diritto di autodifesa non rientravano nell’orientamento strategico dello sciopero. Sono state criticate nelle assemblee degli attivisti in cui si sono discusse le alternative: lasciare il confino delle occupazioni, che consentiva di concentrare la repressione; portare la vertenza in piazza con proteste di massa, che avrebbero insinuato nella società la percezione di qualcosa di simile a un “doppio potere”; che lo sciopero mirava a rovesciare la dittatura.

    Ma non era così. Questi obiettivi non rientravano nelle aspettative della CNT, né del Frente Amplio. Essi continuarono a giocare tutte le loro carte su una fantasiosa alleanza con i settori “costituzionalisti” delle Forze Armate. Che, tra l’altro, se esistevano, non avevano alcun potere di comando sulle truppe, né potenza di fuoco. Le unità militari più importanti erano decisamente favorevoli al colpo di stato.

    In questo contesto, l’unico arsenale degli scioperanti consisteva nella loro convinzione, nell’incoraggiamento dei quartieri, nel sostegno degli studenti e nell’inevitabile canto dell’inno nazionale al momento degli sgomberi.

    D’altra parte, le fotografie mostrano la furia repressiva in decine di fabbriche, nella raffineria, nel Frigorífico Nacional e in tanti altri luoghi occupati. Operai picchiati, feriti, insanguinati, gassati, ammanettati e presi a calci per terra. Costretti a cancellare con la lingua muri e manifesti con slogan contro il colpo di stato.

    Armi da guerra contro volantini stampati su macchine da stampa artigianali. Quartieri operai invasi, militarizzati, per disarticolare l’ampia solidarietà popolare con gli scioperanti. Una lotta tremenda, eroica, impari, in cui i lavoratori hanno dimostrato una costante volontà di lotta e di sacrificio:

    “Senza direzione o direttive chiare, hanno resistito agli sgomberi e alla repressione per rioccupare non appena i militari se ne sono andati (…) sono arrivati, come ad Alpargatas, a occupare e rioccupare la fabbrica fino a 8 volte, per finire a continuare l’occupazione a Cervecerías quando l’esercito si è installato nello stabilimento” (da 15 días que conmovieron al Uruguay, saggio di Pablo Ramírez, con lo pseudonimo di Jorge Guidobono, Revista de América, 1974, Buenos Aires).

    Da febbraio si sapeva che il colpo di stato era “imminente”. Tuttavia, la CNT non fece un passo in direzione dello scontro decisivo. Nessuna preparazione centralizzata. Nemmeno la minima raccomandazione difensiva. Zero “fondi per lo sciopero”.

    Ogni sindacato, ogni comitato di base, gli scioperanti nel loro insieme, hanno dovuto rispondere con tutto ciò che avevano a disposizione.

    Lo hanno fatto, disciplinati dalle poche linee guida della centrale sindacale.

    1. Occupare e non opporre resistenza in caso di sgombero;
    2. rioccupare se le condizioni lo permettono;
    3. non lasciare che gli altri lavoratori sgomberati entrino nel luogo occupato;
    4. fare affidamento sulla solidarietà del quartiere, svolgendo attività con i vicini, i piccoli negozi e le fiere.

    Ma la portata dello sciopero si stava indebolendo. Il quinto giorno, i trasporti urbani ed extraurbani, guidati da sindacalisti del Partito Comunista, hanno disertato (vedi l’estratto sullo sciopero dei trasporti, più sotto). Da quel momento le grandi aree commerciali tornarono alla piena attività. Lo stesso accadde nell’interno del paese. Il clima di scontro dei primi giorni cominciò ad affievolirsi.

    In successivi incontri con i dirigenti della CNT (nel corso dello sciopero stesso), i comandanti militari avevano già respinto le richieste che riassumevano il “programma” dello sciopero “per la ripresa del paese”. Piena validità dei diritti sindacali e politici; libertà di espressione; misure di “riorganizzazione economica” come la nazionalizzazione del sistema bancario, del commercio estero e dell’industria della lavorazione della carne; recupero del “potere d’acquisto” di salari e pensioni; controllo dei prezzi con sovvenzioni ai prodotti di consumo popolare.

    Non un solo accenno a Juan María Bordaberry (Partito Colorado), il Presidente della Repubblica che nel febbraio 1973 aveva accettato di “co-governare” con le Forze Armate, istituendo il Consiglio di Sicurezza Nazionale (COSENA), da allora il vero organo del potere statale. Non si parla nemmeno delle sue dimissioni e della richiesta di indire nuove elezioni, anticipandole, senza aspettare il 1976.

    A questo proposito, la dirigenza della CNT mantenne la sua irresponsabile coerenza durante lo sciopero. Scommettendo fino all’ultimo momento sull’illusorio “contro-golpe” dell’ala “progressista” delle Forze Armate.

    Lunedì 9 luglio, “alle cinque” del pomeriggio, nel centro di Montevideo, circa 30.000 persone hanno sfidato i carri armati dell’esercito e i cannoni ad acqua “guanacos” della polizia con pietre e bombe molotov improvvisate. Centinaia di manifestanti sono stati colpiti, altrettanti arrestati, tra cui il generale Líber Seregni, presidente del Frente Amplio. È stato l’unico appello della CNT per una protesta di massa in due settimane. Fu una dimostrazione di forza tardiva. A quel punto lo sciopero era già morto dissanguato.

    Ci sono voluti decenni perché alcuni dei principali dirigenti della CNT e del Partito Comunista di quegli anni potessero svelare il “bilancio” che la centrale sindacale presentò nella risoluzione dell’11 luglio, quando lo sciopero fu revocato. La vicenda cambiò il quadro storico:

    (…) Lo sciopero generale si sviluppò in modo molto isolato dalla società nel suo complesso, con molta simpatia popolare, ma senza forze politiche e sociali che si unissero in qualche modo. Non è diventato uno sciopero civico, uno sciopero nazionale (…) È stato uno sciopero di resistenza, che ha resistito finché ha potuto. È stato utile, sicuramente è stato utile. Non ho mai detto che li abbiamo sconfitti. Ci hanno sconfitto e massacrato, ma in qualche modo lo sciopero ha isolato socialmente la dittatura”. (dall’intervista a Vladimir Turiansky contenuta nel libro di Alfonso Lessa, El “pecado original”. La izquierda y el golpe militar de febrero de 1973, Editorial Sudamericana, Montevideo, 2012)

    Anche se non c’era autocritica in ciò che diceva sull’accumulo di disinformazione e disorganizzazione che era la CNT durante lo sciopero, né sulla strategia adottata, era più vicino alla realtà di ciò che accadde.

    L’altra conclusione era una vecchia verità. La dittatura uruguaiana è nata “orfana” di una base sociale attiva a suo favore. Una differenza che vale la pena notare anche rispetto ai colpi di stato in Cile (settembre 1973) e in Argentina (marzo 1976). Ma il costo politico ed economico, sociale e umano pagato dalla classe operaia è stato molto simile. Tragico.

    Una sconfitta storica

    Qualche mese prima, il 9 febbraio (quando il colpo di Stato era già in gestazione), le Forze Armate avevano pubblicato i “Comunicati 4 e 7”. Furono accolti con entusiasmo dal Partito Comunista che, per bocca del suo principale teorico, Rodney Arismendi, propose il fronte unito “tra la tuta, la tonaca e l’uniforme”. La stessa posizione fu assunta da altre forze del Frente Amplio e dalla direzione della CNT. Si trovarono d’accordo sulla diagnosi: il pronunciamento militare esprimeva “obiettivi programmatici comuni” e l’esistenza di una corrente nazionalista di pensiero “peruvianista” (cioè in sintonia con ill regime peruviano del generale Juan Velazco Alvarado, definito “nazionalista” e “progressista”) all’interno dell’apparato militare. Doveva essere sostenuto. Perché riconfermava che il dilemma chiave continuava a essere tra “oligarchia o popolo”, e le Forze Armate erano, in questa logica, parte del popolo e non semplicemente il braccio armato dell’oligarchia.

    Qualche tempo dopo, gli stessi militari avrebbero riconosciuto che i comunicati erano serviti a “neutralizzare” la sinistra sulla via della dittatura.

    E ancora: che alcune delle questioni economiche sollevate nei comunicati erano state il risultato di negoziati con i leader del Movimiento de Liberación Nacional-Tupamaros (la maggior parte dei quali già in carcere) presso la caserma del Battaglione Florida. Questi negoziati si erano svolti quando la struttura militare del MLN era stata già smantellata dalla repressione e furono sospesi dai militari con la richiesta di una resa política “incondizionata” della guerrilla.

    Il 27 giugno si concluse la lunga “crisi nazionale”. Il blocco del regime di dominazione fu sbloccato. Il Parlamento, cassa di risonanza della scissione dei “partiti tradizionali”, fu sciolto. La “soluzione autoritaria” aveva un percorso chiaro.

    Anche se la sua genesi risale a molto tempo prima. Sotto i governi del Partido Colorado di Jorge Pacheco Areco e Juan María Bordaberry, la repressione era in cima all’agenda: “misure di sicurezza immediate” per reprimere gli scioperi, militarizzazione dei dipendenti pubblici, assassinii di studenti, torture di prigionieri politici (per lo più della sinistra “guerrigliera”), squadroni della morte, messa fuori legge dei partiti di sinistra, chiusura dei giornali.

    Con la sconfitta strategica di giugno-luglio, si è chiuso il ciclo di ascesa delle lotte operaie e popolari, che aveva raggiunto il suo apice negli anni 1968-1972. Con essa, il processo di “accumulazione di forze” del movimento popolare è stato bloccato. Le organizzazioni di orientamento rivoluzionario sono state distrutte.

    I dibattiti sul programma di “riforme strutturali”, sul ruolo dello sciopero generale, sulle “modalità di avvicinamento al potere” e sull’“armamento dell’avanguardia” non erano più presenti. Non è stata riconquistata nemmeno la forza delle correnti “militanti e consapevoli della classe” che, negli “anni duri“, si sono contese spazi di influenza con l’egemonia “riformista” nel movimento sindacale. I metodi di “lotta politica con le armi” del MLN e di altri gruppi ispirati al guevarismo erano stati sconfitti molto prima del colpo di stato.

    Il cinquantenario per la “nuova” classe lavoratrice

    In un certo senso, il filo della “memoria storica” è stato reciso. Anche se le commemorazioni rituali continuano a evocare, legittimamente, quel “glorioso sciopero”. Mezzo secolo dopo, la classe operaia è molto diversa, non solo per ragioni generazionali.

    La “coscienza di classe” ha lasciato il posto all’“identità nazionale” in una società in cui i principali attori politici, di tutti i partiti del sistema, si riconoscono come “avversari ma non nemici”. Il Frente Amplio si è riciclato nel “campo progressista” e ha governato per 15 anni. Il “cambiamento possibile” ha tenuto sotto chiave qualsiasi idea di orizzonte anticapitalista. Ora, la “lotta di classe” può svolgersi, senza antagonismi radicali, nel quadro di un’indissolubile “convivenza democratica” che si attiene rigorosamente al rito del “Mai più”.

    Martedì 27 giugno 2023, il PIT-CNT ha indetto uno “Sciopero Generale Parziale” tra le 9.00 e le 13.00 e una marcia dalla raffineria ANCAP (compagnia petrolifera statale) alla sede della Federazione del Vetro, il luogo in cui nel 1973 la CNT decise di iniziare lo Sciopero Generale, nell’emblematico quartiere operaio di La Teja. Come omaggio ai combattenti contro il colpo di stato. Diverse centinaia di manifestanti accompagnarono l’appello.

    Nel frattempo, come in tutti gli “scioperi generali parziali” decretati dall’apparato sindacale, la maggior parte dei salariati, più del 60%, è andata al lavoro. Hanno rispettato il loro orario giornaliero. In altre parole, non hanno preso le quattro ore libere per ricordare. Anche i sindacati dei trasporti non si sono paralizzati, anche se questa volta hanno “aderito” all’appello.

    In ogni caso, gran parte dei lavoratori ha seguito con attenzione l’intensa copertura mediatica delle commemorazioni. Molti di loro si sono emozionati. In mezzo, naturalmente, alla precarietà del lavoro e dei salari e alla massiccia povertà imposta dalle “moderne” forme di sfruttamento capitalistico. Che non considerano produttivo il tempo perso a memorizzare formidabili esperienze di lotte collettive. Queste sono, inoltre, irripetibili.


    Il crollo dei trasporti

    Estratto dal libro Las historias que no nos contaron. 1973: Golpe de Estado y Huelga General, di Víctor L. Bachetta. A cura di Sitios de la Memoria Uruguay, 2023.

    Perché gli autobus della capitale non sono stati distribuiti nelle fabbriche occupate? O, in alternativa, perché non sono state rimosse le parti del motore dagli autobus, che avrebbero impedito di utilizzarli senza danneggiarli? Queste domande non trovarono risposta all’epoca e potrebbero spiegare perché i trasporti non svolsero il ruolo che avrebbero dovuto avere nello sciopero generale.

    Una delle spiegazioni accettate 20 anni dopo gli eventi può essere molto semplice, ma ha avuto un impatto molto importante. Héctor Bentancurt, il principale leader del sindacato AMDET (il sistema di trasporto urbano municipale di Montevideo, che non esiste più da decenni) e della Federazione dei Lavoratori dei Trasporti (FOT), fu preso dal panico e scomparve dalla scena, lasciando l’organizzazione alla deriva. Il fatto che ciò sia avvenuto indica che le relazioni all’interno di quel sindacato erano totalmente verticali.

    Secondo uno dei presenti, Bentancurt era presente alla riunione nella sede del Partito Comunista la notte del 26 giugno, quando Gerardo Cuesta (metalmeccanico) riferì dell’imminenza del colpo di stato e sollevò la determinazione di organizzare lo sciopero generale previsto dalla CNT. Quando la breve riunione finì e la maggioranza se ne andò al proprio sindacato, Bentancurt non riuscì a decidersi a lasciare la sede.

    “Cosa faccio adesso?”, disse Bentancurt, seduto con la testa tra le mani e piangendo, secondo il racconto di un altro dei presenti alla riunione. “Vai e fai il tuo dovere”, avrebbe risposto uno dei suoi compagni comunisti. Bentancurt se ne andò, ma non si sa dove andò, e nei giorni successivi fu impossibile trovarlo, sia nel sindacato che nei luoghi di lavoro dove era stato deciso lo sciopero.

    Ignacio Huguet (Partito Socialista), segretario del COT (Congreso Obrero Textil) e membro del Comando della CNT, ha incontrato Bentancurt per strada sabato 30 giugno, nei pressi dell’Avenida General Flores. Secondo il leader tessile, Bentancurt gli ha detto che stava cercando il Comando della CNT per riferire che lo sciopero dei trasporti era insostenibile.

    Un uomo scomparso e un sindacato crollato? Ebbene, sì, all’epoca questo era possibile. C’erano molti sindacati che dipendevano dalla presenza di uno, due o tre leader, senza strutture intermedie e di base in grado di supplire all’assenza di un leader. Questo verticismo si verificava più frequentemente nei sindacati che seguivano le linee guida del Partito Comunista.

    Tuttavia, non è questa l’intera spiegazione di ciò che accadde in quel settore durante lo sciopero generale. Il Comando dello sciopero della CNT e del PCU ha tentato di recuperare l’interruzione dei trasporti e ha chiamato Salvador Escobar, un vecchio dirigente sindacale dell’AMDET (azienda di trasporto urbano del Comune di Montevideo), che era stato assegnato a compiti interni al Partito.

    Escobar ha raccontato che domenica 1° luglio gli è stata affidata la missione di ripristinare lo sciopero all’AMDET. “Bentancurt aveva iniziato a dare l’orientamento per tornare al lavoro”, ha spiegato l’ex dirigente sindacale. Da un bar vicino alle officine AMDET, Escobar è riuscito a raggruppare i lavoratori lunedì e a raggiungere un accordo per paralizzare le unità martedì in tutte le stazioni, ma era convinto che lo sciopero non potesse andare oltre se il sindacato doveva rimanere unito.

    “Se i blu (le unità AMDET) si fermano, lo sciopero è assicurato”, era lo slogan che definiva le condizioni di lotta in tutto il sindacato. Per Escobar, la risposta dei trasporti era stata data nei fondamentali. “La classe operaia da sola non può farcela, diventeremo sempre più deboli”, era la loro posizione. Ma Escobar ha sottolineato che il comando della CNT è stato consultato e ha approvato la fine dello sciopero in AMDET.

    “Quello che è successo in AMDET è stata una sorpresa. La responsabilità non è solo di Bentancurt, sarebbe una spiegazione troppo facile”, ha commentato Mario Plasencia, segretario generale dell’Organización Obrera del Ómnibus (Tres O), il sindacato di CUTCSA (la principale azienda privata di trasporto urbano e suburbano fino ad oggi), che risponde alla CNT. La situazione nella CUTCSA era complessa, perché esisteva il Sindicato Autónomo del Ómnibus (SAO), con un peso simile a quello del Tres O, e c’erano 1.600 lavoratori-proprietari, a causa dell’organizzazione cooperativa dell’azienda.

    “L’appropriazione di un bene privato non è mai stata presa in considerazione. Il trattenimento delle unità ha significato un conflitto con i padroni”, ha risposto Plasencia quando gli è stato chiesto della dispersione o della rimozione di una parte degli autobus per evitare che uscissero in strada. I lavoratori che hanno occupato gli uffici, le officine e il parcheggio più grande della CUTCSA sono stati sgomberati sabato 30 e non hanno potuto rioccupare, perché i militari hanno lasciato una guardia permanente sul posto.

    “I padroni non hanno agito come in un conflitto interno, hanno rispettato l’atteggiamento dei lavoratori in difesa delle istituzioni, ma non si sarebbero comunque fermati”, ha spiegato il leader dei Tre O. Dopo i decreti repressivi del 4 luglio e i “plebisciti” organizzati dai militari, il sindacato autonomo è tornato al lavoro. I Tre O hanno continuato a scioperare fino alla decisione della CNT di revocare lo sciopero, ma rappresentavano un quarto del personale dell’azienda.

    “Le informazioni che avevamo nella CNT sul livello di organizzazione dei trasporti erano false. Forse per un conflitto di protesta avrebbe funzionato, ma nello sciopero generale era rapidamente crollata”, ha spiegato Luis Iguiní (leader della Confederazione dei Funzionari di Stato, membro del Partito Comunista), allora membro della segreteria della CNT. Salvador Escobar, che a un certo punto fu coinvolto in questo episodio, si rammaricava che nel movimento sindacale non fosse stata aperta alcuna istanza per analizzare ciò che era accaduto nel settore dei trasporti durante lo sciopero generale.

    Diversi sindacati hanno proposto al Comando dello sciopero di dare fuoco agli autobus usciti in strada. Con diverse migliaia di attivisti determinati, la misura era perfettamente realizzabile, ma la CNT naturalmente respinse la proposta. Sia perché aveva appoggiato il ritorno al lavoro nel sindacato AMDET, sia perché non la riteneva una misura conflittuale adeguata. Le tendenze più radicali cercarono di metterla in pratica, ma non avevano capacità sufficienti.

    Nella fabbrica tessile La Aurora, durante l’assemblea per la conclusione dello sciopero generale, il leader Juan Ángel Toledo (Partito Comunista) ha affermato che, quando si sarà tracciato un bilancio di quanto accaduto, ai dirigenti dei trasporti dovrà essere data “una medaglia di merda”. Toledo ha raccontato che i suoi ex compagni comunisti lo hanno denunciato alla direzione del partito per questo atteggiamento. A quei tempi non era permesso criticare pubblicamente un compagno, per quanto avesse sbagliato.

  • Un dilemma dalle banlieue della Francia al mondo

    Un dilemma dalle banlieue della Francia al mondo

    Tra i “giovani barbari” delle periferie e la vera barbarie del capitalismo

    di Yorgos Mitralias

    Ovviamente, i danni materiali, ambientali, umani e di altro tipo attualmente causati dalle guerre imperialiste (ad esempio in Ucraina) o dalle guerre civili (ad esempio in Sudan) sono incomparabilmente maggiori di quelli causati durante le recenti “rivolte” popolari in Francia o quelle a Londra nel 2011 o quelle negli Stati Uniti tre anni fa.

    Nel XXI secolo, come nel XX secolo e nelle sue due guerre mondiali, la barbarie ha sempre avuto un volto, quello del capitalismo in tutte le sue forme, varianti e manifestazioni.

    Ciò non impedisce che tutte queste “rivolte” popolari, che tendono a diffondersi in Europa e nel resto del mondo, si caratterizzino per la loro violenza – spesso indiscriminata – che fa sì che i benpensanti di tutte le parti, governi, estrema destra e poliziotti in particolare, possano accusarle di… barbarie.

    È così che i giovani ribelli delle periferie francesi vengono allegramente dipinti come “giovani barbari”, il che peraltro “giustifica” gli appelli all’omicidio da parte dell’estrema destra e di altri sindacati di polizia che non esitano a descrivere questi giovani come “guastatori” da sterminare.

    In primo luogo, va detto che la descrizione di questi giovani ribelli provenienti dalle periferie trascurate delle nostre metropoli come “barbari” colpisce e viene adottata da una parte più che apprezzabile della popolazione. In secondo luogo, questa parte della popolazione dei nostri paesi comprende una parte significativa delle persone sfruttate, povere, oppresse e razzializzate in basso, persone che vivono accanto ai “giovani barbari”, che sono i loro vicini e persino i loro genitori. Conclusione: il problema esiste e richiede urgentemente risposte chiare e convincenti.

    Ma se abbiamo a che fare con dei “barbari”, la domanda logica da porsi è come siamo finiti in una simile catastrofe. E chi è il responsabile? La risposta è ovvia: la proliferazione di queste “rivolte” in quasi tutto il mondo, la loro tendenza a diffondersi al di là delle periferie disagiate, la loro frequenza sempre maggiore, e soprattutto la partecipazione sempre più massiccia della popolazione, significano che non si tratta di esplosioni di rabbia dovute agli impulsi (auto)distruttivi dei loro autori, o di rivolte isolate legate alle particolarità di questo o quel paese, o all’origine etnica o alla religione dei loro partecipanti.

    In realtà, abbiamo a che fare con un fenomeno di massa davvero pervasivo, tipico delle nostre società sempre più diseguali e violente nell’era delle politiche neoliberiste, degli stati di polizia e dei domani da incubo.

    Quindi, se si tratta di un fenomeno di massa internazionale, tutto cambia. E di conseguenza, quelli che la destra descrive come “giovani barbari” non possono più essere considerati come un fugace ed effimero incidente della storia, ma un fenomeno che è destinato non solo a mostrarsi, ma a svilupparsi fino a influenzare seriamente la nostra vita quotidiana.

    In breve, se sono coerenti con se stessi, i detrattori di questi “giovani barbari” dovrebbero trarre la conclusione che la più grande minaccia per le nostre società e il nostro mondo sarebbe la… barbarie incarnata da questi “giovani barbari”!

    Questa visione del nostro futuro non è del tutto impressionistica e priva di verità. Le nostre società, trasformate in giungle dove regna il caos e tutti combattono tutti in un’atmosfera di estrema violenza generalizzata, non sono solo uno scenario fantascientifico alla Mad Max.

    Potrebbero benissimo verificarsi se la crisi attuale continuerà a peggiorare. Cioè, se i “giovani barbari” continueranno a essere non solo ferocemente controllati e repressi, ma anche sempre più colpiti.

    E se le loro condizioni di vita continueranno a peggiorare, se lo stato capitalista sempre più autoritario – della borghesia impaurita – che li ha trattati a lungo come cittadini di seconda classe, deciderà di dichiarare loro guerra, come già chiede la Santa Alleanza tra polizia, estrema destra e una parte crescente della destra tradizionale.

    Quindi, se esiste una cosa come la “barbarie”, sono la borghesia regnante, i suoi governanti e le loro politiche capitalistiche che non solo l’hanno inventata, ma anche e soprattutto creata.

    E va detto che i “giovani barbari” non sono solo il prodotto automatico delle loro politiche neoliberiste, che emarginano intere fasce di popolazione delle nostre società, ma anche il risultato voluto di politiche volte a escludere e a sottoproletarizzare quelle che sono le “classi pericolose” del nostro tempo, cioè una certa gioventù delle periferie, che lo stato borghese teme e vuole “neutralizzare” a tutti i costi.

    Tuttavia, il successo dell’operazione di “neutralizzazione” di questi giovani delle periferie sembra più che contraddittorio. Sì, questi giovani sono ghettizzati e quindi isolati dal resto della popolazione. Sì, sono tagliati fuori dalla sinistra e dai sindacati, e quindi mancano di sostegno, di alleanze e di espressione politica per la loro rabbia. Sì, sono confusi nelle loro idee e confusi nelle loro azioni, sono depoliticizzati e mancano di organizzazione. Ma questo significa che sono innocui per coloro che fanno di tutto per combatterli?

    Ovviamente no. La preoccupazione, se non la paura, che le “rivolte” di questi giovani suscitano in loro è evidente, come dimostrano le misure straordinarie e gli altri stati di eccezione che adottano per reprimerle.

    Insomma, la nostra borghesia e i suoi curatori politici si trovano ora nella trappola del loro stesso machiavellismo: come il buon… dottor Frankenstein, vedono la loro creatura radicalizzarsi, diventare sempre più incontrollabile e persino potenzialmente pericolosa per i loro interessi.

    Ma attenzione: questi giovani ribelli di periferia sono, per il momento, solo “potenzialmente pericolosi” per i loro superiori. Ma perché?

    Perché, più della discriminazione razzista, più della peggiore povertà e più della più feroce repressione, è la mancanza di un progetto unificante con obiettivi chiari e precisi, nonché l’assenza di un sostegno politico di massa, a spingere questi giovani ribelli alla disperazione di una violenza cieca e persino autodistruttiva.

    In altre parole, ciò che manca a questi giovani radicalizzati per diventare veramente pericolosi per chi sta sopra di loro non è una loro responsabilità. È responsabilità delle forze politiche di sinistra, dei sindacati e delle associazioni, insomma di tutti coloro che non si accontentano di questo mondo mostruoso.

    Va da sé che queste forze di sinistra devono recuperare al più presto e impegnarsi anima e corpo nell’opera di solidarietà attiva con i rivoltosi delle periferie, per stringere con loro stabili legami organici e militanti. I progressi saranno enormi per entrambe le parti…

    Tuttavia, dobbiamo ammettere l’ovvio: il pericolo che le nostre società si trasformino gradualmente in “giungle dove regna il caos e tutti combattono tutti in un’atmosfera di estrema violenza generalizzata” è molto reale.

    E la minaccia che le nostre società, e l’intera umanità, ricadano in una barbarie – questa volta reale – diventerà inevitabilmente più grande e diretta fino a quando non avremo un nuovo progetto e messaggio messianico umanista e comunista in grado di ispirare e mobilitare le masse, compresi i giovani delle periferie, ovunque nel nostro mondo.

    E per dirla senza mezzi termini, lo spettro della barbarie diffusa continuerà a incombere sull’umanità finché il dilemma (eco)socialismo o barbarie non sarà risolto una volta per tutte a favore dell’ecosocialismo. Né più né meno…

    .

  • Francia, Nahel aveva il diritto di vivere

    Francia, Nahel aveva il diritto di vivere

    Intorno alle 8 di martedì mattina, il diciassettenne Nahel è stato vigliaccamente ucciso da un agente di polizia a Nanterre, alla periferia di Parigi.

    Si è trattato dell’ennesimo cosiddetto “rifiuto di obbedire”, che avrebbe giustificato l’ennesima cosiddetta “autodifesa”.

    Noi, il Fronte delle madri, denunciamo questa esecuzione e ci uniamo al dolore della famiglia. Oggi tutti noi abbiamo perso un figlio!

    Negli ultimi mesi si è assistito a un aumento della violenza e dei crimini razziali contro i giovani nei quartieri popolari, senza che venisse intrapresa alcuna azione di risposta o che gli agenti di polizia coinvolti si preoccupassero anche solo lontanamente.

    Il rispetto della legge non si applica quando si tratta dei nostri figli. I discorsi di odio e il clima di fascistizzazione sono i principali responsabili di questo disastro.

    Come possiamo continuare a vivere in un paese che discrimina, esclude e maltratta i giovani perché non sono bianchi o musulmani?

    Come possiamo descrivere un paese in cui la polizia uccide impunemente?
    I nostri figli non sono più al sicuro da una polizia razzista.

    I media mainstream propagandisti, che giustificano questi crimini evocando una storia di delinquenza, svolgono un ruolo importante in questo clima velenoso.

    Questa violenza sistemica da parte della polizia è durata troppo a lungo!

    È necessario adottare misure politiche strutturali!

    I nostri figli hanno il diritto di vivere e muoversi liberamente negli spazi pubblici!

    Le esecuzioni devono cessare!

    Riposa in pace piccolo Nahel. Condoglianze alla famiglia. Sosteniamo i suoi cari nella loro ricerca di verità e giustizia.

  • Appello globale a sostegno dei Soulèvements de la Terre

    Appello globale a sostegno dei Soulèvements de la Terre

    Ciò che ricresce ovunque non può essere dissolto

    Contro la criminalizzazione dei Soulèvements de la Terre in Francia, un appello per azioni di solidarietà ovunque nei nostri territori !

    In Francia, il governo di Macron ha appena compiuto un passo senza precedenti nella repressione del movimento sociale ed ecologista. 

    Il 21 giugno, il governo ha decretato lo scioglimento del movimento Soulèvements de la Terre, che rivendica oltre 140.000 sostenitori e più di 150 comitati locali. La dissoluzione è stata accompagnata da due ondate inedite di arresti di decine di attivistə ecologistə in tutta la Francia, il 5 e il 20 giugno, da parte di agenti di polizia della Sottodirezione antiterrorismo (SDAT). 

    Finora, 2 persone sono state imprigionate e decine sono state gravemente ferite dalla polizia durante le manifestazioni degli ultimi mesi.

    Da due anni in Francia, i Soulèvements de la Terre hanno dato nuova forza alla lotta ecologista costruendo un movimento multiforme composto da sindacati di agricoltori, associazioni ambientaliste, attivistə e abitanti di tutte le età e di tutti i ceti sociali.

    Blocchi dei cantieri, manifestazioni di massa, occupazioni di terre, azioni legali, disarmo di industrie criminali come la multinazionale Lafarge… 

    Gli attivisti di Soulèvements de la Terre adottano una varietà di tattiche e agiscono in prima persona, a partire dai loro territori, per costruire mondi abitabili e porre fine, con tutte le loro forze, all’accaparramento di terra e acqua da parte dell’agrobusiness, alla cementificazione dei suoli, alle devastazioni ecocide dell’industria chimica e alla distruzione degli esseri viventi.

    Il governo francese, che ha imposto con la forza una riforma pensionistica antisociale, cerca oggi di dissolvere questo movimento in crescita, che ha già iniziato a creare legami in Europa e altrove.

    In Francia come in Uganda, in Colombia come in Chiapas, nel Regno Unito come in Brasile, in Libano come in India o in Rojava, e ovunque, la resistenza dei movimenti ecologisti e sociali e i mondi che stanno costruendo stanno provocando una violenta risposta autoritaria, che distrugge vite in nome del potere e del profitto. 

    Questa corsa autoritaria, patriarcale e neocoloniale ci sta portando verso un futuro mortale di caos climatico, militarizzazione, pandemie, controllo tecnologico e migrazioni di massa.

    Per il governo francese, questa repressione e questa messa fuori legge dovrebbero segnare l’arresto della crescente potenza di una rivolta logica per la riappropriazione delle nostre vite, la nostra terra e i beni comuni. 

    E se questa dissoluzione diventasse, suo malgrado, una chiamata a rafforzare un grande movimento di resistenza internazionale? 

    Un invito a far risuonare la nostra solidarietà al di là delle frontiere, a dare nuovo adito alle numerose rivolte in tutto il mondo?

    Un invito a costruire nuove alleanze globali “dal basso”, secondo la scala dei nostri corpi e dei nostri territori, in difesa della terra e della vita contro le predazioni capitaliste e imperialiste degli stati-nazione e delle multinazionali?

    Insieme, nei giorni e nelle settimane a venire, chiediamo di moltiplicare i gesti di solidarietà, per dimostrare che ciò che sta crescendo ovunque non può essere dissolto! 

    Proponiamo di continuare a dare visibilità ai Soulèvements de la Terre nello spazio pubblico, nei nostri territori in tutto il mondo: davanti ai centri sociali, attraverso scritte sui muri, all’interno delle nostre lotte e dei nostri territori, attraverso striscioni e feste, presidi e azioni dirette, e qualsiasi altra azione adatta ai nostri contesti.

    Per delle sollevazioni delle terre intermondiali e in solidarietà con tuttə coloro che nel mondo affrontano la repressione, noi, collettivi di lotta e organizzazioni di diversi paesi, chiamiamo a manifestare tutta la nostra solidarietà mercoledì 28 giugno (o nei giorni successivi, a seconda del contesto) in diversi modi. 

    Decine di manifestazioni contro la criminalizzazione si terranno ovunque in Francia, Austria, Belgio, Germania, Catalogna… e altri territori seguiranno!

    Non si può dissolvere una rivolta!

    Informazioni pratiche per diffondere il vostro evento:

    Se state organizzando un’azione nella vostra zona, vi preghiamo di registrarla su questo modulo qui. Se la scadenza del 28 giugno vi sembra troppo ravvicinata, è anche possibile organizzare azioni in un altro momento nei prossimi giorni.

    Inviate le foto dei vostri gesti di solidarietà al seguente indirizzo mail: we-cant-get-no-dissolution@immerda.ch.

    Qui la mappa delle manifestazioni.

    Questo testo è aperto alla firma di singoli, gruppi e organizzazioni fino al 10 luglio.

    Compilare il modulo di firma qui.

    Hanno finora aderito:

    • Grondements des Terres Suisse
    • amicale intergalactique des soulévements de la terre France
    • Climáximo Portugal
    • Interventionistische Linke Allemagne
    • Centre sociaux Est d’Italie
    • Rise Up 4 climate justice Italie
    • Venice Climate Camp Italie
    • Freundeskreis Sternbrücke Allemagne
    • Lützerath lebt ! Allemagne
    • Soulèvements de la Terre Bruxelles
    • Bure Solikomittee Dreyeckland Allemagne
    • Zusammen Kämpfen Allemagne
    • Solidaritäts Service Team Hamburg
    • Free svydovets group Ukraine
    • Coalition Code Rouge Belgique
    • L’Agora des Habitant.e.s de la Terre
    • Café Libertad Allemagne
    • Buzuruna Juzuruna Liban
    • Ecologia politica Network Italie
    • Climate Social Camp Italie
    • Acteurs.ice.s des temps présents
    • Associazione Rurale Italiana, Italie
    • Movimento NOTAV (Italie)
    • CRID (France)
    • Movimento dos Atingidos por Barragens (MAB) (Brazil)
    • Tools for Action (Netherlands)
    • Re-set : platform for socio-ecological transformation (Czech Republic)
    • Interventionistische Linke [iL] (Germany)
    • Limity jsme my/We are the limits ! (Czech Republic)
    • Aseed europe (Netherlands)
    • Anarchist Solidarity Hamburg (Germany)
    • Levice / The Left (Czech Republic)
    • Studio JL (Belgium)
    • SolidaritéS (Switzerland)
    • RisingTideUK (UK)
    • Bakers food and allied workers union (UK)
    • Colectivo Propalando (Portugal)
    • Ill Will (USA)
    • Ateneo libertario Xose Tarrio (Espana)
    • World Congress for Climate Justice – wccj.online (Milano, 12-15 October) (Italy)
    • Lucy Parsons knife and gun club (So called USA)
    • Raksha.ch (Switzerland)
    • Global Justice Now (UK)
    • La Graine Solidaire(France)
    • Stay Grounded (International)
    • GRAIN (International)
    • Ecologistas en Acción (Spain)
    • Entrepueblos-Entrepobles-Herriarte-Entrepobos (Spain)
    • El Punt. Espai de lliure aprenentatge. (Spain)
    • Vall de Can Masdeu (Spain)
    • Ruralitzem-Veus per la sobirania alimentària (Spain)
    • cBalance Solutions Pvt. Ltd (India)
    • Attac Liège (Belgium)
    • Les DoMineurs (Belgium)
    • La Bruguera de Pubol (Spain)
    • Horteras Ca la Dona Barcelona (Spain)
    • Red de información y Acción Ambiental de Veracruz (Mexico)
    • Working group Food Justice (Netherlands)
    • Forsvara Blodstensskogen (Sweden)
    • Ingénieurs Sans Frontières (France)
    • Rise for Climate Luxembourg
    • ClimAcció (Spain)
    • Gastivist Collective (Europe)
    • Sindicato STEILAS (Bask Country)
    • Extcintion Rebellion Limoges (France)
    • Collettivo redazionale del sito rosarossaonline.it (Italie)
    • Revista Soberanía Alimentaria, Biodiversidad y Culturas (Spain)
    • Igapo Project (France)
    • Nieczytelne/Illegibles (Poland)
    • Colectivo Memoria Viva de los Pueblos (Spain)
    • África en el corazón (Spain)
    • Arabako Mendiak Aske (Bask Country)
    • Pakistan Fishefolk Forum (Pakistan)
    • IIPM – International Institute of Political Murder (Germany)
    • Juntes fem caliu (Spain)
    • Per L’Horta (Spain)
    • Degrowth Movement – Projet de Décroissance (France / Hongrie)
    • France Insoumise Rome (Italie)
    • Comunitat UJIxPlaneta (Spain)
  • Hugo Blanco ci ha lasciati

    Hugo Blanco ci ha lasciati

    di Fabrizio Burattini

    E’ morto ieri, 25 giugno 2023, Angel Hugo Blanco Galdós, leader della sinistra peruviana ed ex deputato della Repubblica. Ce lo hanno comunicato ieri i figli. 

    Hugo Blanco Galdós aveva 88 anni, perché era nato a Cuzco  il 15 novembre 1934.

    La notizia di un’indigena che era stata marchiata a fuoco sulla natica dal padrone del latifondo in cui viveva segno l’infanzia di Hugo e ne condizionò le scelte di vita.

    Più grande, nel 1954 si recò a La Plata, in Argentina, per studiare agronomia e là conobbe il movimento trotskista, abbandonò gli studi e andò a lavorare come operaio in una fabbrica di confezioni di carne, dove fece le sue prime esperienze sindacali. 

    Durante il suo soggiorno in Argentina, il 16 settembre del 1955, si verificò il colpo di stato del generale Eduardo Lonardi contro Perón e Hugo Blanco partecipò alla resistenza al golpe.

    Tornato in Perù aderì al Partido Obrero Revolucionario (POR) di Lima e si trasferì di nuovo a Cusco, il suo dipartimento natale, dove sposò Vilma Valer Delgado, originaria di Apurimac, con la quale ebbe la sua prima figlia.

    Là iniziò la sua militanza nei movimenti e nei sindacati contadini, dove arrivò ad essere eletto nel 1962 segretario generale della Federazione Contadina Provinciale de La Convención, la zona di Cuzco.

    Da quella postazione Hugo Blanco chiamò le forze della sinistra peruviana a sostenere le occupazioni di terre da parte dei contadini. Nacque così, su sua iniziativa, il Fronte della Sinistra Rivoluzionaria (FIR), di cui uno dei principali leader fu Juan Pablo Chang Navarro, che anni dopo morì con Che Guevara in Bolivia.

    Nel 1962, durante una rivolta contadina, l’hacienda di Santa Rosa a Chaupimayo, di proprietà della famiglia Romainville, si organizza in autogestione. I contadini si organizzano in brigate di autodifesa per protestare contro i proprietari terrieri per i loro abusi. 

    Il governo rispose a questa radicalizzazione con una violenta repressione in tutta l’area. Così, diversi sindacati scelsero di difendersi e incaricarono Blanco di organizzare e guidare un’autodifesa armata. Nel maggio 1963 la colonna di autodifesa contadina “Brigada Remigio Huamán” (dal nome di un contadino ucciso dalla polizia), guidata personalmente da Hugo Blanco, si scontra con la polizia sopraggiunta a garantire il diritto di proprietà dei latifondisti. Nello scontro periscono tre poliziotti.

    Hugo viene così arrestato e minacciato di pena di morte.

    Si sviluppa così una campagna internazionale per salvargli la vita “Hugo Blanco non deve morire!” (di cui sono reperibili i materiali su “Bandiera rossa”, il periodico dei trotskisti italiani). La campagna, che raccolse tra le altre migliaia le adesioni di Amnesty International, di Jean-Paul Sartre, di Simone de Beauvoir, e di Mario Vargas Llosa, riuscì a far commutare la condanna in 25 anni di carcere. 

    Hugo restò in carcere otto anni, nel bagno penale dell’isola di El Fronton, fino all’amnistia concessa dal presidente generale Juan Velasco Alvarado nel 1970, ma fu esiliato in Messico, e poi in Argentina (dove venne arrestato), infine in Cile.

    Durante la sua permanenza in Cile, sotto il governo di Salvador Allende, Hugo collabora con il movimrnto dei “cordones industriales”: Dopo il golpe di Pinochet dell’11 settembre 1973, riuscì a sfuggire alla repressione che colpì i numerosissimi rivoluzionari di altri paesi latinoamericani che si erano rifugiati in Cile, rifugiandosi nell’ambasciata svedese, nella quale ottenne l’asilo politico nel paese scandinavo.

    Nel 1976, dopo la crisi del governo militare guidato dal generale Francisco Morales Bermudez, Blanco riuscì a tornare in Perù, dove si candidatò all’Assemblea Costituente nelle liste del Frente Obrero Campesino, Estudiantil y Popular, FOCEP (Fronte dei lavoratori, dei contadini, degli studenti e del popolo). 

    Hugo Blanco riesce così a parlare a più riprese alla televisione, negli spazi gratuiti consentiti dalla campagna elettorale. E lì denuncia, senza mezzi termini, l’esorbitante aumento dei prezzi dei generi alimentari di base e fa appello alla partecipazione ad uno sciopero generale indetto dalla Confederazione Generale dei Lavoratori del Perù (CGTP)

    Ciò spinge il governo ad espellerlo di nuovo. Ma, a seguito della sua elezione alla Costituente con il voto più alto tra i candidati della sinistra, gli è stato permesso di tornare in Perù.

    Successivamente, sarà deputato al parlamento (1980-1985) per il Partido revolucionario de los trabajadores peruanos e membro della Commissione per i diritti umani della Camera dei deputati.

    Fu poi di nuovo eletto come senatore nel 1990 per Izquierda Unida, ma il suo mandato è stato interrotto violentemente dopo l’ “autogolpe” di Alberto Fujimori nel 1992.

    Nel 1994, quando viveva temporaneamente in Messico, la ribellione zapatista lo indusse a riflettere sul ruolo strategico delle popolazioni indigene.

    Il mensile da lui diretto Lucha Indígena” ha pubblicato numersi articoli su vari temi legati alle lotte indigene e contadine. Autore di vari libri (segnaliamo Terra o morte” del 1971 e Noi, gli indios nel 2017).

    Per me, come per molti altri allora giovani trotskisti, è stato un esempio, un punto di riferimento. Quando verso la metà degli anni ’70 in Francia ebbi l’onore di incontrarlo, di stringergli la mano e di ascoltarlo, fu un po’ come aver incontrato Guevara.

    Oggi, di fronte alla notizia della morte, ci resta comunque il suo esempio indelebile. 

  • Ricominciare su nuove basi

    Ricominciare su nuove basi

    Questo testo vuole affrontare il tema della necessità ed urgenza di superare l’attuale fase socioeconomica globale nella prospettiva di fuoriuscita dal capitalismo. Naturalmente il tema è complesso e richiede uno sforzo collettivo da parte delle soggettività politiche, sindacali, di movimento a livello internazionale. In questa sede si vogliono solo gettare delle coordinate utili per sviluppare il dibattito.

    C’è sicuramente ampio consenso sulla drammaticità della situazione sociale e politica che stiamo attraversando. Ma, nella “sinistra radicale” manca invece una sufficiente consapevolezza del fallimento storico di tutto ciò che, negli scorsi decenni, si è autodefinito “sinistra”. E, di conseguenza, non c’è affatto la percezione di dover ridefinire i programmi e le strategie. 

    Invece, noi crediamo che avere coscienza di ciò sia la premessa necessaria (ovviamente non sufficiente) per una “ripartenza” che deve necessariamente innovare metodi, prospettive, forme dell’azione politica, adeguandola ai nuovi scenari che hanno stravolto la storia di questo secolo. 

    Assistiamo impotenti alla distruzione e all’eliminazione delle conquiste e dei diritti, tutti reinterpretati a favore delle élite e delle grandi imprese. 

    Potremmo perfino dire che la stessa categoria di “essere umano” viene riconfigurata in base al denaro che ciascuno possiede, al luogo in cui si è nati, al colore della propria pelle.

    Cosicché il sistema universale di protezione dei diritti umani si trova in una fase di accelerata decomposizione. Ogni quattro secondi un essere umano muore di fame. Ogni giorno sette persone muoiono nel Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l’Europa. Ogni undici minuti una ragazza o una donna viene uccisa da un familiare. Gli ultimi otto anni hanno registrato le temperature più alte degli ultimi secoli. Il lavoro minorile è potentemente riemerso anche nel “Nord del mondo”. Ovunque, la violenza contro le donne, contro gli attivisti ambientali e contro i difensori dei diritti umani è in aumento: in Colombia, nei primi quattro mesi di quest’anno sono stati assassinati 55 leader sociali.

    Tutto ciò viene presentato come “incidente” collaterale che non avrebbe nulla a che fare con il modello altrimenti trionfante, come errori che l’evoluzione dello sviluppo neoliberale correggerà, quando invece tutte queste tendenze si stanno espandendo in maniera pervasiva perché intrinsecamente necessarie al “modello capitalistico terminale”. 

    Le crisi interconnesse tra loro 

    Il pianeta intero sta attraversando una crisi multidimensionale che si intreccia con l’inasprirsi dell’offensiva capitalista.

    Generalmente, si analizzano separatamente le diverse “crisi” che attraversano il pianeta: ecologica, economica, demografica, militare, democratica. Sarebbe, invece, più produttivo cogliere la radice di tutte le espressioni della “crisi complessiva”, cioè la sempre più evidente incapacità del modo di produzione capitalistico di continuare a reggere il sistema mondo. 

    Occorre dire che il capitalismo oggi, proprio per le sue molteplici e sempre più gravi crisi, non appare più agli occhi delle grandi masse un sistema sociale ed economico portatore di uno sviluppo culturale e sociale, per quanto disegualmente distribuito. Ma, paradossalmente, il capitalismo continua a raccogliere un consenso passivo e spesso regressivo proprio perché appare privo di qualunque alternativa. 

    Questa assenza di alternative è il suo principale strumento di conservazione, imposto sia grazie al collasso del “modello sovietico”, sia grazie al largo fallimento di tutte le principali correnti della sinistra “novecentesca”.

    La tradizionale divisione dei paesi del mondo in due sfere di influenza con riferimenti economici sociali e politici diversi è finita con la caduta del muro, ma, invece di un nuovo ordine mondiale, si è prodotto un disordine crescente con l’emergere di potenze sub-regionali e super-regionali in competizione economica, politica e, in prospettiva, militare. 

    I conflitti si moltiplicano e si cronicizzano ed i protagonisti non sono solo gli stati, ma anche le fabbriche d’armi, le agenzie del capitalismo militare, mentre i “nuovi capitani di ventura” tendono ad assumere funzioni di gestione amministrativa. 

    La crisi economica non si deve misurare solo in termini di diminuzione complessiva del PIL e di aumento dell’inflazione, ma, più concretamente, in un aumento generalizzato delle disuguaglianze, un impoverimento progressivo delle classi medie e una crescente emarginazione dei diseredati, espulsi dal contesto del vivere civile. 

    Il disastro ecologico produce effetti disastrosi, alcuni previsti e prevedibili, altri inattesi: il sistema è definibile fisicamente con una dinamica non lineare, ma “caotica”. Il disastro ecologico non è solo relativo ai cambiamenti climatici, ma include elementi quali il consumo di suolo, l’inquinamento, l’estinzione di numerose specie, i disequilibri microbiotici con periodiche ripetizioni di pandemie delle quali è imprevedibile il tasso di letalità. 

    L’atteggiamento dei governi e dei centri di potere economico è passato prima dall’incredulità all’allarme per il dilagare di eventi e di fenomeni che stridevano platealmente con l’ideologia del capitalismo trionfante che risolve ogni male. Ora il ceto dominante cerca di adattarsi alla situazione e, ancora una volta, di trarre profitto dalla cosiddetta “riconversione ecologica”, che, in buona sostanza, altro non è che speculazione finanziaria sui presunti “meccanismi di compensazione”. 

    Parallelamente i trend demografici comportano incrementi insostenibili di alcune popolazioni e invecchiamento e decremento di altre, con i conseguenti, crescenti e inarrestabili fenomeni migratori, che riversano grandi masse da un territorio all’altro.

    La drammaticità bruciante di impellenti esigenze primarie (fame, guerre, siccità, inondazioni, povertà, precarietà, mancanza di alloggio, ecc.) spingono le masse alla ricerca di “soluzioni concrete e immediate”, con la conseguenza di eludere ogni ricerca di possibili alternative di sistema e di indirizzare i consensi su personaggi ritenuti salvifici. Si diffondono pulsioni populiste, nazionaliste, integraliste.

    La “privatocrazia”

    Lo stato, come espressione della tutela degli interessi delle classi dominanti, di mediazione tra le diverse loro fazioni, ma anche di gestione del consenso sociale in forza dei dogmi neoliberali, tende sempre più a ritrarsi. 

    Nei “Trenta gloriosi” (1945-1975), governare significava spendere e amministrare direttamente. Nell’era neoliberista governare sempre più significa incentivare e coordinare una serie di attori privati (aziende, imprese sociali, istituzioni private) a cui si delegano funzioni un tempo cruciali nella politica pubblica: sanità, scuola, distribuzione dell’energia e dell’acqua, gestione delle comunicazioni, raccolta dei rifiuti, trasporti e sicurezza, asili nido e assistenza agli anziani e ai disabili…

    Sappiamo bene che queste “liberalizzazioni” il più delle volte riproducono meccanismi di gestione privata monopolistica molto simile ai “vecchi” monopoli pubblici, con la differenza che ora sono in mano a privati, senza costituire affatto esempi di efficienza né di risparmio né di trasparenza gestionale. Hanno però il pregio di separare in modo visibile lo “stato” dagli strumenti con cui un tempo si gestiva il consenso di massa.

    Inoltre la perdita di sovranità fiscale degli stati, dovuta a un movimento globale dei capitali sempre più massiccio ma anche incontrollato, sottrae un’altra importante funzione sociale agli apparati istituzionali, quella di una seppure parziale redistribuzione delle risorse.

    Cosicché, la “privatocrazia” si è andata a sovrapporre alla “democrazia”, inducendo parti crescenti di opinione pubblica dal ritenere sempre meno rilevante la scelta della forza politica da cui farsi amministrare, visto che buona parte dei servizi sociali, almeno apparentemente, non dipendono più dalla politica.

    Inoltre la spinta alla privatizzazione aiuta a spostare la gestione del consenso dalle clientele dei partiti politici (un tempo di massa) nelle mani dei “leader” (di vario colore) che possono così più agevolmente costruire i propri clan, i gigli magici, le cordate, le reti di relazioni interpersonali fatte di amicizie, scambio di favori, convergenza di interessi non sempre confessabili e spacciati come condivisione di progetti politici.

    Il passaggio di tanti servizi ai privati fa sì che i politici di governo (nazionale o locale che sia) si deresponsabilizzano. La qualità, la quantità, la fruibilità di quei servizi non dipende più da loro. 

    Il disinteresse alla poltica

    Tra le tante concause dell’astensionismo elettorale e del disinteresse di parti crescenti dei cittadini riguardo alla politica c’è dunque anche il fatto che i cittadini non vedono più lo stato come il fornitore prioritario dei beni essenziali; così smettono di interessarsi alle sue sorti e di partecipare più o meno attivamente alla politica

    E il rapporto dei leader con l’opinione pubblica e con l’elettorato diventa sempre più legato al loro “carisma” piuttosto che ai risultati concreti per le persone concrete. La politica diventa sempre più “marketing elettorale”, tanto più di fronte al pervasivo utilizzo dei social network

    Non a caso l’istituzione del Reddito di cittadinanza da parte del Movimento 5 Stelle è stata spudoratamente etichettata come un’operazione di “scambio elettorale”: per la politica neoliberale non deve più esserci alcuna relazione tra il voto, il consenso e gli interessi sociali.

    Ulteriore prova della crescente “irrilevanza del consenso” nella gestione “democratica” della “cosa pubblica” è stata la decisione sfacciatamente antidemocratica di Emmanuel Macron di imporre nottetempo a un paese e persino ad un parlamento riottoso una riforma delle pensioni smaccatamente impopolare.

    Nei decenni del dopoguerra la “democrazia” occidentale era esibita come “prova di superiorità” rispetto al “totalitarismo”. Il confronto propagandistico stridente esimeva le classi dominanti dal dover specificare le caratteristiche profonde della “democrazia”. 

    L’idea di politica, intesa come scelta cosciente tra progettualità alternative, è messa così da parte e l’autoritarismo, la repressione del dissenso, l’individualismo, la violenza, l’irrazionalità, il fascismo acquistano spazi sempre più vasti.

    Naturalmente le crisi sconvolgono in maniera differente i singoli stati, ma i lineamenti essenziali si riproducono ovunque. 

    In questi contesti, la “personalizzazione leaderistica” della politica e l’assottigliamento sempre più visibile dello stato hanno messo in crisi gli strumenti novecenteschi della politica come i partiti, un tempo “organizzatori delle idee”. 

    E il “trionfo antidemocratico” del leaderismo si verifica anche nella totale mancanza di percorsi democratici dentro i partiti politici, tutti retti da un uomo (o da una donna) al comando.

    Non essendoci più i centri di organizzazione territoriali, mancando il confronto e la discussione, l’afferenza politica è ridotta ai minimi termini ed è determinata nella capacità persuasiva del leader, da interessi di categoria, da vincoli clanici spesso malavitosi, dagli spazi di illegalità promessi.

    Le conseguenze sulla sinistra

    La proclamazione della politica come idealità complessiva e come affermazione di principi di giustizia e di interessi collettivi è dunque largamente messa fuori gioco in questo contesto.

    Ma, soprattutto, sono divenute per niente credibili le strategie basate sui “piccoli passi”, riforma dopo riforma, sperando un giorno di “entrare nella cabina di comando”; le elezioni sono basate sull’affidamento al leader e al suo clan. Votare per un partito che è strutturalmente escluso dall’esercizio del potere risulta un esercizio testimoniale, ininfluente per le larghe masse, perché incapace di incidere sulla realtà sociale. 

    Il lento ma deciso avanzamento (o arretramento) elettorale che un tempo si verificava nei cicli elettorali non ha più senso; e ancor meno senso ha l’idea che dalla opposizione parlamentare si possano ottenere risultati sociali o, almeno, “limitare i danni”. 

    E non si tratta più solo del più volte richiamato “esaurimento dei margini di riformismo”. La crisi ecologica rende sempre meno plausibile una strategia che si basi su di un approccio espansivo e produttivistico che punti a dare di più ai ceti popolari non modificando le dimensioni delle diverse fette della torta ma auspicando una torta più grande. Non può essere la “crescita del PIL” a soddisfare anche solo in parte i bisogni popolari.

    Il XX secolo è stato il secolo dell’affermarsi della  politica, Il XXI è il secolo dell’esaurirsi della politica. 

    La cabina di comando è saldamente in mano al potere economico che indirizza le istituzioni e rende irrilevante l’esistenza dell’opposizione parlamentare, non concede spazi né tregua; se tentenna e sembra in crisi è solo per il permanere di interessi contrastanti all’interno dei diversi settori capitalistici, in concorrenza tra loro, ma uniti nell’aumentare sempre più lo sfruttamento dei lavoratori, nell’incrementare sempre più l’astio dei penultimi nei confronti degli ultimi. 

    La cosiddetta “sinistra di alternativa”, quella cioè che si schiera a sinistra del PD, critica la pratica compromissoria, sottolinea l’allontanamento dai modelli sociali della fase precedente, e si propone come alternativa istituzionale coerente con gli interessi delle classi subalterne. Ma lo fa con l’assillo della “presenza istituzionale”, una presenza considerata sia rivelatore veritiero del proprio radicamento sociale sia il più efficace strumento di azione a sostegno dei bisogni dei più. Ma si rimuovono le constatazioni che fin qui abbiamo cercato di indicare e, soprattutto, si evita di trarne lezioni e conseguenze. 

    La “democrazia istituzionale” è stata oggi praticamente annullata, via via con il maggioritario, con le soglie di sbarramento, con la diminuzione del numero degli eletti, con leggi elettorali diverse tra elezioni nazionali e locali, tra regione a regione, con l’uninominale, con una sempre più difficile raccolta di firme per presentare le liste. Questo processo di devastazione antidemocratica è tuttora in atto con i progetti di presidenzialismo e di autonomia differenziata. Tutto ciò ha potentemente contribuito all’allontanamento dal voto e dalle istituzioni. 

    La difesa degli spazi di agibilità politica è stata una battaglia mancata ed ora si spaccia per democrazia l’occupazione delle istituzioni da parte di una esigua minoranza degli elettori, peraltro sempre più trincerati nelle zone benestanti delle città. Dunque, inseguire le elezioni, inventandosi liste mediaticamente “accattivanti”, non può essere una strategia pagante per chi vuole tentare di opporsi al sistema. È necessario trovare una strategia alternativa. 

    Sicuramente non ci si può aggrappare alla ripetizione di vecchi schemi che al massimo può mettere insieme i militanti di classe dispersi nelle frantumazioni dei “movimenti”. Una strategia di trasformazione ha senso se riesce a parlare alle masse, a tutte le vittime del capitalismo, cioè alla grande maggioranza delle persone: lanciare messaggi semplici, apparentemente limitati, ma con un’intrinseca valenza anticapitalista; messaggi che accolgono le speranze, le aspettative, anche quelle inconsce, della gente. 

    Non si può rivendicare un inverosimile ampliamento del “benessere occidentale”, dei modelli di vita degli ultraricchi, ma il “buen vivir”, cioè la sicurezza e la tranquillità della vita, il riposo, lo svago: tutte parole d’ordine apparentemente minimali, ma incompatibili con l’attuale capitalismo e, al contrario, compatibili con l’ecosistema. Non i privilegi, non la scalata sociale, ma l’uguaglianza dei diritti, la sicurezza di non essere sopraffatti e di non sopraffare. 

    L’égalité della Rivoluzione francese è ancora attuale, come lo è la fraternité, cioè il vivere bene con gli altri, praticare interessi condivisi. La specie sapiens è una specie cooperativa e la lotta, lo sfruttamento, l’oppressione, lo scontro, la violenza non gli appartengono, ma sono strumenti delle classi dominanti e del capitale. Oggi fraternité significa antimilitarismo, antirazzismo, antiomofobia.

    Quali possono essere gli strumenti per rivendicare e per conquistare questi obiettivi? Certamente non una lista elettorale, bensì le mobilitazioni di massa, l’intersezione dei movimenti sui vari obiettivi: il movimento dei lavoratori, i movimenti femministi, quelli per l’ambiente. 

    La tela da tessere è quella convergenza che deve tendere all’obiettivo della rivolta, obiettivo per ora lontano, che certamente al momento va solo prospettato, ma che non si costruisce senza dare una soluzione di fase. 

    Attualmente non esiste nessuno spazio di vera affermazione istituzionale. Non vogliamo qui negare la possibilità di presenza elettorale in assoluto, ma occorre essere consapevoli del fatto che questa presenza è uno strumento largamente impraticabile e che dunque il suo perseguimento, perlomeno nell’Italia di questa fase, è del tutto subordinato all’azione sui terreni sociali. 

    E tantomeno è possibile rivendicare come programma “la difesa e l’applicazione della Costituzione”, una Costituzione che, certo, nel 1948, risultava “la più bella del mondo”, una seppur illusoria “promessa di rivoluzione”, ma che oggi risulta ai più un feticcio residuale. La sinistra “costituzionalista” si aggrappa ad un testo che rappresenta senza alcun dubbio la cristallizzazione di rapporti di forza che oggi non esistono più. 

    Gli elettori sono perfettamente consapevoli del fatto che se l’articolo 3 della Costituzione (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”) non è stato applicato negli anni 60 e 70, quando i rapporti di forza ne avrebbero aiutato la concretizzazione, risulta del tutto proclamatorio rivendicarne oggi l’applicazione.

    E così gli elettori hanno anche massicciamente abbandonato (e non solo dal 25 settembre 2022) la “discriminante antifascista”, dopo che l’ “antifascismo di palazzo” aveva completamente scollegato il rifiuto del fascismo da ogni legame con il sociale.

    Questo non significa affatto abbandonare le trincee della difesa di una costituzione, peraltro già ampiamente stravolta nella lettera e nella sostanza e che oggi si vuole ulteriormente e definitivamente storpiare con il presidenzialismo e con l’autonomia differenziata; né abbandonare le trincee dell’antifascismo, tanto più di fronte alla crescita planetaria dell’estrema destra. Ma significa che quei valori debbono essere sostenuti con parole d’ordine nuove, con collegamenti più evidenti agli interessi sociali e di classe in gioco.

    Rivolta è imporre nuovi assetti istituzionali, ottenere una nuova assemblea costituente che riscriva le regole del gioco. Eventi simili si sono recentemente prodotti in alcuni paesi: paesi arabi, Africa, America latina; essi non hanno prodotto risultati stabili perché per vari motivi si sono arenati, non si sono collegati tra loro, hanno subito repressioni da forze militari che non erano state esautorate, e, soprattutto, non avevano prodotto avanzamenti della vita reale della gente.

    Il “problema del partito” nel XXI secolo

    È chiaro che accanto alle mobilitazioni sociali bisogna costruire l’organizzatore politico, senza il quale le rivolte si spengono o vengono spente. Questo è il compito che ci riguarda da vicino; compito estremamente difficile su cui dobbiamo sforzarci di elaborare; per il momento si possono delineare solo alcuni elementi.

    Non c’è una ricetta universale sul partito rivoluzionario da applicare in ogni tempo ed ogni contesto; non è una fusione fredda da fare in un teatro romano in mezza giornata; non è l’unificazione di gruppi dirigenti residuali ai quali manca una base, ma che cercano una poltrona istituzionale; non è nucleo omogeneo per orientamento ideologico che decide di autodefinirsi partito.

    Non può essere avulso dallo scontro sociale, ma si deve rapportare costantemente ad esso; deve darsi prioritariamente una proiezione esterna larga; deve avere il coraggio e la capacità di includere compagne e compagni con differenti disponibilità di tempo, con differenti capacità, differente grado di cultura, età e provenienza geografica; deve dare a tutti lo stesso spazio di discussione e di critica, deve chiedere ad ognuno non più di quanto ciascuno può e vuole dare; deve organizzarsi dal basso; deve avere coordinatori e non capi che devono essere sostituibili e sostituiti; deve usare preferenzialmente il metodo del consenso; deve riverificare costantemente le scelte; deve promuovere lo studio e l’approfondimento teorico; deve saper usare un approccio scientifico alle analisi. 

    Il partito a cui si deve pensare deve essere adeguato al contesto in cui viviamo, in cui è crollato ogni “modello” di società anticapitalista, si stanno progressivamente esaurendo le generazioni che hanno vissuto le lotte del XX secolo, le classi sociali sono segnate dalla globalizzazione e dalle migrazioni, ecc.

    Occorre un partito che sappia anche avanzare un progetto di radicamento nelle classi popolari attraverso una strumentazione sindacale che non può essere quella che ha raccolto gli allori delle fasi storiche passate e che poi è riuscita a sperperarli. Dunque un partito che avanzi anche un progetto di ricostruzione sindacale paziente ma coraggioso al contempo. 

    Dal punto di vista organizzativo, nel definire il funzionamento del partito e la sua relazione con gli attivisti e i movimenti, occorre adottare una concezione materialista dell’organizzazione, dunque sapere che il lavoro in rete è all’ordine del giorno. 

    Questo era già in atto negli anni Novanta, quando gli zapatisti hanno adottato questo tipo di organizzazione. 

    Invece, la “sinistra radicale”, pur nelle sue variegate espressioni, continua a scimmiottare il modello del “partito di massa” di togliattiana memoria, pur se spacciato per “modello leninista”, con il “segretario generale”, la struttura piramidale degli organismi dirigenti, le sezioni (o i circoli) locali, totalmente svincolate da ogni radicamento nelle lotte sociali.

    Ovviamente per il “partito”, cioè un’organizzazione politica di persone che la pensano sostanzialmente allo stesso modo, di persone che, come i comunisti del Manifesto, condividono determinate idee e vogliono promuoverle, una qualche forma di centralizzazione sarà necessaria, ma il grado qualitativamente più elevato di democrazia organizzativa reso possibile dalla tecnologia moderna deve applicarsi anche al partito.

    Identificati gli assi portanti nella rivolta e lo strumento nel partito rivoluzionario, occorre indicare la prospettiva: la rivoluzione anticapitalista

    Questo, per il momento – e ancor più per questo testo – è, e resta solo, un titolo, tutto da definire, ma è comunque importante ribadire l’assoluta necessità di un processo di trasformazione del modo di produzione, di trasformazione delle istituzioni dello stato, del rapporto tra gli individui e dello stesso rapporto tra i popoli. 

    Ma per noi progettare il “mondo che verrà” non è affatto un compito prematuro, perché non si tratta di immaginare il mondo dei desideri di un’ipotetica umanità riscattata, ma il mondo della necessità di preservare dal disastro sociale ed ecologico la nostra casa, cioè il pianeta Terra.

    La redazione di Rosa Rossa

  • Il naufragio in Grecia impone la fine di un sistema criminale: “Aprite le frontiere!

    Il naufragio in Grecia impone la fine di un sistema criminale: “Aprite le frontiere!

    Il numero delle vittime dell’ennesimo naufragio di migranti nelle acque del Mediterraneo è e resterà sconosciuto, così come approssimato per difetto è il bilancio dei migranti morti nel “mare nostrum” dal 2014 ad oggi (oltre 26.000, pari alla media di 8 morti per annegamento al giorno).

    Ma i responsabili di queste morti non sono affatto sconosciuti: sono l’Unione europea, i suoi stati membri, i governanti che si sono succeduti alla guida di questi stati nel corso degli ultimi decenni.

    La fortezza Europa sa di non poter fermare le migrazioni, ma vuole rendere più pericolosi e mortali i viaggi di chi fugge da guerre, povertà e riscaldamento globale… 

    Dunque, doppiamente responsabili, perché responsabili delle guerre, della depredazione dei paesi coloniali, dei cambiamenti climatici e responsabili di mancato soccorso in mare.

    Convergenze disumanitarie

    Mentre i migranti annegano, Macron riceve Giorgia Meloni. Nonostante le finte polemiche italo-francesi, i governi di Roma e di Parigi perseguono la stessa politica, rifiutando di accogliere dignitosamente migranti e rifugiati e preferendo lasciarli morire in mare o marcire sulle imbarcazioni delle ONG a cui viene impedito di attraccare liberamente nei porti più vicini al naufragio.

    Nei giorni scorsi, Macron e Meloni a Parigi, all’Eliseo, non hanno affatto discusso di come accogliere in sicurezza i migranti ma di come sviluppare meglio i reciproci interessi economici e di come far fruttare l’ipotizzato Expo 2030 di Roma.

    Macron e il suo ministro dell’Interno Darmanin , in Francia, cercano di evitare il prossimo possibile futuro successo elettorale della fascista Marine Le Pen, inseguendola e anticipandola nei comportamenti razzisti, dando la caccia ai migranti. 

    In Italia, Giorgia Meloni indica drammaticamente i risultati di una politica di quel tipo. Quando i “liberali” imitano la destra (come hanno fatto qui da noi Minniti e Lamorgese) non evitano affatto che la destra vada al potere, ma anzi le spianano la strada.

    La strada vera è quella di indicare un’alternativa complessiva al capitalismo razzista e autoritario, una prospettiva di società che rompa con le politiche capitaliste, che ponga fine alle disuguaglianze, una prospettiva emancipatrice che rompa con lo sfruttamento e l’oppressione: per l’accoglienza dei migranti, l’apertura delle frontiere e la libertà di scegliere dove risiedere.

  • Francia, le prospettive incerte della mobilitazione

    Francia, le prospettive incerte della mobilitazione

    di Léon Crémieux, da alencontre.org

    Le prime due settimane di giugno hanno appena concluso sei mesi di scontro tra Macron e il suo governo, da un lato, e le classi lavoratrici, il movimento sindacale, tutti i movimenti sociali e la sinistra politica, dall’altro.

    Vittoria di Pirro è sicuramente il termine che meglio descrive la situazione di Macron alla fine di questo periodo. Sarà riuscito a imporre la sua riforma reazionaria, isolandosi, riducendo ulteriormente la sua base sociale e superando questo episodio solo grazie al sostegno dei Repubblicani (LR), sia all’Assemblea Nazionale che al Senato.

    Può vantarsi di aver innalzato l’età pensionabile a 64 anni, ma finora non è riuscito a superare le due crisi che sta attraversando: una crisi parlamentare, poiché la sua debolezza all’Assemblea e la sua inesistenza al Senato sono oggi più evidenti con la crescente dipendenza dal partito ex gollista dei “Repubblicani” e dal Rassemblement national di Marine Le Pen per approvare le sue proposte di legge; una crisi di legittimità, di base sociale, poiché Macron e i suoi sostenitori sono ancora disconosciuti nel paese, sia sulla questione delle pensioni che sulla politica del governo nel suo complesso.

    D’altra parte, i risultati del movimento sociale sono inevitabilmente contrastanti. La 14esima giornata di mobilitazione, il 6 giugno, a quasi due mesi dalla promulgazione della legge, è stata caratterizzata da 250 manifestazioni. Con una media di due terzi di manifestanti in meno rispetto al 1° maggio, è stato il numero più basso di manifestanti (281.000 secondo la polizia e 900.000 secondo la CGT) dall’inizio del movimento. Ma anche questo numero ridotto riflette il persistente rifiuto di questa legge e la determinazione a combattere le riforme del governo.

    Inoltre, gli ultimi sondaggi mostrano ancora un’ampia maggioranza che rifiuta i 64 anni e sostiene il movimento, anche se una larghissima maggioranza pensava ancora che Macron sarebbe riuscito ad approvare la sua legge.

    L’Intersindacale aveva indetto la giornata il 6 giugno perché l’8 giugno l’Assemblea avrebbe dovuto votare una proposta di legge presentata dal gruppo indipendente LIOT (Libertés, indépendants, outre-mer et territoires), che mirava a riportare l’età pensionabile a 62 anni. Nell’ultima battaglia istituzionale che non ha avuto luogo, il governo ha fatto di tutto perché i deputati utilizzassero gli stratagemmi della Costituzione (in questo caso l’articolo 40), in modo che questa votazione non avesse luogo, invocandone l’inammissibilità.

    Ancora una volta, è stato l’appoggio del gruppo dei Républicains che gli ha permesso, con una mossa senza precedenti, di far insabbiare un disegno di legge proposto dall’opposizione per “mancanza di fondi per la misura”, anche se la Commissione giuridica dell’Assemblea lo aveva già ritenuto ammissibile…

    L’atto finale non avrà quindi luogo. È chiaro che Macron non voleva che l’unico vero voto dei parlamentari sulle pensioni da gennaio fosse un voto di bocciatura della sua legislazione. Anche senza alcun impatto – perché la maggioranza reazionaria del Senato avrebbe bloccato l’iniziativa – lo spettacolo era insopportabile per Macron e il suo governo.

    Le illusioni frustrate

    L’ultima riunione dell’Intersindacale nazionale, la sera del 15 giugno, ha riaffermato la sua unità, la sua opposizione alla riforma delle pensioni e il suo impegno ad agire su altre questioni, a partire dall’autunno, ma senza formulare alcuna richiesta sociale comune nei confronti del governo o dei datori di lavoro o alcun appello concreto a preparare, anche in autunno, una nuova mobilitazione per le centinaia di migliaia di lavoratori e attivisti che sono stati coinvolti nel movimento dall’inizio di gennaio.

    Quindi ora il movimento sindacale, il movimento sociale, la NUPES e la sinistra radicale devono affrontare le loro responsabilità nei mesi a venire. Il governo intende accelerare la sua politica di attacchi sociali e democratici e, paradossalmente, Marine Le Pen (Rassemblement National) è in crescita nei sondaggi di opinione, con grande gioia della maggior parte degli editorialisti che vedono la sinistra in minoranza!

    Ciò solleva alcuni importanti interrogativi. In primo luogo, come può un movimento sociale creare una forza sufficiente per bloccare un attacco alle classi lavoratrici?

    Da questo punto di vista, i risultati degli ultimi 6 mesi sono ovviamente contraddittori. Il movimento è stato molto forte, unendo la grande maggioranza dei lavoratori, con un sostegno schiacciante da parte dell’opinione pubblica. L’Intersindacale, che ha dovuto lavorare sulla base del consenso per non sciogliersi, ha seguito lo schema delle grandi giornate di mobilitazione (dal 14 gennaio a giugno), con l’obiettivo di esercitare una pressione sufficiente sul governo e sui membri eletti del parlamento.

    Si è trattato quindi di una battaglia di opinione pubblica, contando sul fatto che l’isolamento del paese avrebbe costretto Macron ed Elisabeth Borne (il primo ministro) a fare marcia indietro. Ma questi ultimi sapevano di avere strumenti istituzionali che avrebbero potuto permettere loro di scavalcare la situazione, nonostante la loro posizione di minoranza nell’Assemblea.

    Se c’era una piccola speranza che i voti dell’Assemblea bloccassero Macron, era la crisi della destra repubblicana (LR), combattuta tra il desiderio di affermare la sua opposizione a Macron e il suo orientamento fondamentalmente neoliberale, in accordo con questo progetto di legge reazionario.

    La stessa candidata dei “Repubblicani” alle elezioni presidenziali del 2022 (Valérie Pécresse) aveva fatto campagna per l’innalzamento dell’età pensionabile a 65 anni. Quindi, sul fronte istituzionale, il movimento sociale si è scontrato con una maggioranza di parlamentari reazionari, anche se la RN ha mantenuto una posizione di rifiuto della legge. Il movimento non poteva quindi riporre la maggior parte delle sue speranze in queste crisi all’interno della destra e negli obiettivi parlamentari.

    Le ambiguità irrisolte

    L’alternativa posta a questo orientamento dell’Intersindacale, già a gennaio, da Solidaires e, in modo meno evidente, dalla CGT, era la prospettiva di sviluppare gli scioperi, lo sciopero della ricomposizione, di “bloccare il paese”, contando non solo su una battaglia all’interno dell’opinione pubblica, ma anche su una pressione diretta sui datori di lavoro, bloccando la vita economica.

    Molti pensavano che il movimento potesse camminare su due gambe, con alcuni settori che entravano in un periodo di scioperi ad oltranza e altri che partecipavano essenzialmente alle grandi giornate di sciopero. Questa ambiguità non ha aiutato il movimento.

    Non è stato facile convincere una buona parte dei settori professionali ad aderire allo sciopero straordinario. Non tanto per ragioni finanziarie (molti dipendenti hanno scioperato per molti giorni tra gennaio e giugno, pur non essendo coinvolti in uno sciopero prolungato). La questione essenziale è che in nessun momento l’Intersindacale ha dato come obiettivo, come segnale a tutti i dipendenti, l’inizio comune di uno sciopero prolungato, anche se solo per due o addirittura una settimana. Non ha quindi dato fiducia ad agire insieme in questa direzione, e le giornate settimanali di scioperi e manifestazioni sono diventate rapidamente contraddittorie con la partenza degli scioperi a oltranza.

    Molti scioperi duri nel settore privato negli ultimi mesi, in particolare per aumenti salariali reali, sono durati diverse settimane, in aziende con bassi salari e bassa densità sindacale, e il più delle volte senza un fronte sindacale comune. Ma la determinazione è nata dalla sensazione, condivisa dagli scioperanti di queste aziende, di poter vincere bloccando l’azienda, imponendo la propria forza, con tutti che spingono nella stessa direzione.

    Pochi settori hanno la forza, da soli, di bloccare la vita economica del paese, ma l’aggiunta di diverse centinaia di aziende può dare una forza collettiva, creare un equilibrio di potere e una nuova situazione politica di confronto che avrebbe potuto permettere la bocciatura della legge.

    Tutti hanno percepito che eravamo vicini a creare una situazione di questo tipo il 7 marzo, con la frase volutamente ambigua usata dall’Intersindacale di “bloccare il paese”, unita all’appello di 7 federazioni della CGT a scioperare in modo prolungato, e con l’appello di Solidaires sulla stessa linea. Puntare sull’inizio di uno sciopero rinnovabile, alla stessa ora, nel maggior numero possibile di aziende non era certo un compito facile da realizzare, e le conseguenze di tutti gli attacchi che hanno decimato la forza del movimento sindacale, così come le divisioni sindacali in molte aziende, si stanno facendo sentire.

    Ma questa prospettiva era ovviamente la più realistica di fronte a un governo tanto più teso su questa legge perché politicamente debole, anche se non sarebbe stato facile attuarla. Dobbiamo abbandonare le immagini stereotipate di milioni di lavoratori pronti a lottare, ma imbavagliati e ostacolati dalle burocrazie sindacali. Inoltre, la debolezza delle assemblee generali nelle aziende contrastava con la massa delle manifestazioni.

    I tanti nodi da sciogliere

    Oggi si è voltata pagina e ci saranno molti dibattiti sui risultati, in particolare all’interno della CGT, di Solidaires e della FSU, sindacati all’interno dei quali sono state sostenute sia la richiesta di uno sciopero prolungato sia la lotta per mantenere unito il fronte intersindacale. Il movimento sindacale può vantarsi di aver conquistato un’importante posizione sociale e politica nel paese, migliorando nettamente il suo indice di fiducia tra i lavoratori e registrando 100.000 nuove adesioni dal gennaio 2023, in particolare tra i dipendenti del settore privato delle piccole imprese.

    Ma dobbiamo fare progressi su questi temi, perché l’impegno dell’Intersindacale a mantenere la sua posizione e ad aprire altre questioni, come dichiarato nella dichiarazione del 15 giugno, chiaramente non sarà sufficiente. Da metà giugno, il movimento sociale non è morto e le forze che si sono concentrate sulla questione dell’età pensionabile sono ancora attive e presenti, ma hanno perso il loro punto di convergenza comune.

    La questione rimane quella di costruire un’offensiva delle classi lavoratrici per bloccare gli attacchi sociali reazionari che, come quelli sulle pensioni, stanno peggiorando le condizioni di vita; costruire un fronte che proponga rivendicazioni sociali urgenti, senza esitare a prendere di mira la distribuzione della ricchezza, la messa in discussione delle regole capitalistiche imposte nelle aziende e la società nel suo complesso. Non sarà possibile costruire questo fronte con il solo riferimento di un’Intersindacale nazionale di tutte le confederazioni, molte delle quali sposano e hanno sposato politiche liberali.

    Sebbene i vertici della CFDT, della CFTC e della CGC si siano chiaramente opposti all’età pensionabile di 64 anni, spesso accettano gli imperativi dettati dai datori di lavoro o dal governo, come nel caso dello scorso febbraio, per l’accordo interprofessionale nazionale “sulla condivisione del valore aggiunto” che, in un contesto di forte inflazione, ha totalmente ignorato la questione degli aumenti salariali e dei minimi di settore, concentrandosi invece su meccanismi di bonus, partecipazione agli utili e piani di risparmio.

    Allo stesso modo, alcune vertenze salariali sono state vinte, anche se nel caso dell’azienda tessile Vertbaudet [Tourcoing, Nord], ad esempio, a marzo è stato firmato dalla CFTC e dalla CGC un accordo di minimo nella NAO-negoziazione annuale obbligatoria che prevedeva un aumento di 0 euro e due bonus per un totale di 765 euro netti. Lo sciopero dei lavoratori, durato più di due mesi e sostenuto e pubblicizzato dalla CGT, e in particolare dalla sua nuova segretaria generale Sophie Binet, ha portato a un accordo il 2 giugno che ha dato aumenti salariali reali tra i 90 e i 140 euro netti e ha portato all’assunzione di 30 lavoratori temporanei con contratti a tempo indeterminato.

    Pertanto, creare nuove dinamiche di mobilitazione e costruire un confronto sociale con il governo significherà costruire unità basate il più possibile su richieste urgenti e cercare di riunire il più ampio fronte sindacale possibile attraverso la mobilitazione.

    Ciò significa anche sviluppare i legami e il coordinamento con le associazioni del movimento sociale che difendono e si mobilitano intorno alle richieste urgenti, come gli attacchi all’ambiente, ai diritti delle donne, all’alloggio, contro la discriminazione e contro gli attacchi razzisti.

    Mantenere e ampliare il clima sociale creato negli ultimi 6 mesi, dandogli l’obiettivo di mobilitarsi su tutte le questioni sociali urgenti. Questo è importante perché, mentre la forza della mobilitazione popolare negli ultimi 6 mesi si è basata sulla rabbia sociale e sugli incessanti attacchi subiti, spesso solo gli attivisti della CGT, di Solidaires e della FSU sul campo hanno regolarmente creato un collegamento con altre urgenti rivendicazioni sociali, insistendo su una diversa distribuzione della ricchezza che prenda di mira i profitti capitalistici e le loro esenzioni fiscali.

    L’offensiva non è solo sulle pensioni

    Macron e il suo governo continuano quindi ad andare avanti e, per uscire dall’isolamento e andare oltre la questione delle pensioni, cercano di deviare la rabbia sociale del governo e dei datori di lavoro prendendo di mira gli immigrati e i più vulnerabili, e polarizzandosi su questioni in cui i macronisti possono stringere alleanze con i repubblicani e il Rassemblement National, senza temere la paralisi parlamentare.

    Macron, Elisabeth Borne e Gérald Darmanin (il ministro dell’Interno) hanno intrapreso una guerra sociale contro le classi lavoratrici su una serie di questioni, tra cui la sicurezza sociale e gli alloggi, di solito con un fronte reazionario di deputati che riunisce quelli dell’Ensemble pour la majorité présidentielle (i “macronisti”), i Repubblicani e quelli del Rassemblement national.

    È il caso della scellerata legge sull’alloggio, la legge Kasbarian-Bergé, che è una vera e propria dichiarazione di guerra contro gli inquilini in situazioni precarie, che manda in frantumi quel poco di protezione che c’è in caso di affitto non pagato e permette di intensificare gli sfratti accelerati. Questo nonostante il fatto che la questione sociale più urgente sia l’accesso all’edilizia popolare per le classi lavoratrici.

    Sta funzionando un meccanismo formidabile. Da un lato, il costante aumento dei tassi ipotecari e il declino del potere d’acquisto delle famiglie operaie hanno arrestato la piccola tendenza che negli anni precedenti consentiva a chi poteva permetterselo di acquistare una casa o di passare dall’edilizia popolare al più costoso settore privato.

    Allo stesso tempo, la costruzione di alloggi sociali (gli HLM, gli “alloggi a costo minimo”) nel 2021/2022 è stata inferiore del 25% rispetto ai 250.000 ufficialmente previsti, e già ampiamente insufficienti. Di fatto, 2,3 milioni di famiglie sono in attesa di un alloggio sociale, e in Francia ci sono almeno 300.000 senzatetto e 4,1 milioni di persone non adeguatamente alloggiate.

    Quindi, di fronte a un problema sociale importante, il governo sceglie di colpire gli inquilini e criminalizzare i senzatetto. Questa alleanza di destra ed estrema destra non solo ha votato per una legge scellerata che colpirà in primo luogo le famiglie monoparentali e quindi le donne, ma ha anche votato per il diritto dei proprietari di aumentare gli affitti del 3,5% nel 2023 dopo l’aumento del 3,5% votato nel 2022, mentre la NUPES (Nouvelle Union Populaire Ecologique et Sociale) ha proposto un congelamento degli affitti. Nonostante le sue presunta “opposizione popolare”, il Rassemblement National è sempre dalla parte delle classi proprietarie.

    Allo stesso modo, negli ultimi giorni, il governo ha decretato una riduzione della copertura sociale per le cure dentistiche dal 70% al 60%. Allo stesso tempo, il governo sta criminalizzando le classi lavoratrici nella sua caccia alle frodi alla previdenza sociale: “abuso di congedi per malattia, prestazioni ingiustificate”, con un evidente sfondo razzista che prende di mira le persone di nazionalità nordafricana e l’”abuso” dell’assistenza medica statale, di cui beneficiano gli immigrati clandestini e che rappresenta lo 0,5% della spesa sanitaria pubblica.

    Sia il Rassemblement National che il governo prendono di mira gli immigrati, sia regolari che clandestini, e gli “evasori fiscali” della classe operaia, mentre l’evasione fiscale delle imprese (per non parlare dell’”ottimizzazione” legale) ammonta tra gli 80 e i 100 miliardi di euro all’anno, l’assenza di dichiarazioni previdenziali da parte delle imprese tra i 20 e i 25 miliardi di euro, e un importo equivalente alla dichiarazione fraudolenta dell’IVA.

    Sulla stessa linea, e per non lasciare la RN e la LR sole ad assecondare l’elettorato reazionario, Gérald Darmanin vuole approvare tra qualche mese una nuova legge anti-immigrazione (la trentesima dal 1980…).

    La repressione si è fatta più sistematica

    Questo percorso reazionario va di pari passo con lo sviluppo di una politica autoritaria e repressiva da parte dello stato, che sta ampliando il suo arsenale repressivo con nuove restrizioni ai diritti di manifestazione e di riunione, l’uso di leggi antiterrorismo e misure eccezionali di polizia per attaccare i diritti democratici (in particolare la videosorveglianza algoritmica tramite droni con telecamera prevista per le Olimpiadi del 2024).

    Le ultime proteste ambientaliste, dopo quelle contro i megabacini di Sainte Soline (marzo 2023), hanno avuto luogo contro il collegamento TGV Lione-Torino nel fine settimana del 17 e 18 giugno. Più di 5.000 persone si sono riunite nella valle della Maurienne, in Savoia.

    Il titanico progetto da 30 miliardi di euro prevede il raddoppio del tunnel del Fréjus, l’eliminazione di 1.000 ettari di terreni agricoli e l’imposizione di un drenaggio annuale da 60 a 135 milioni di m3. Sebbene la manifestazione dovesse riunire centinaia di attivisti provenienti dalla Svizzera e dall’Italia, il governo ha utilizzato l’arsenale delle leggi antiterrorismo per bloccare l’accesso di 7 pullman di attivisti ambientalisti italiani mediante uno IAT (divieto amministrativo di ingresso), un atto arbitrario del ministro degli Interni che aggira qualsiasi intervento giudiziario e non deve nemmeno essere giustificato.

    È chiaro che ora il governo vuole tagliare le gambe alla rete di lotte sociali intorno al movimento per il clima, il cui slancio, combattività e impatto tra i giovani sono cresciuti nel calore della mobilitazione contro la pensione a 64 anni.

    L’assurda minaccia di Darmanin di sciogliere Soulèvements de la Terre (che riunisce la Confédération paysanne, ATTAC, Union syndicale Solidaires e Alternatiba) illustra il timore del governo nei confronti del ruolo politico svolto da questo movimento.

    La valenza sociale complessiva del movimento

    Il movimento contro le pensioni a 64 anni è stato il movimento sociale più potente e mobilitante dal 2010. Avrà avuto una profondità senza precedenti, in particolare nelle piccole città e nelle zone rurali, spesso escluse dalle precedenti mobilitazioni sociali ma già molto attive durante il movimento dei Gilets jaunes nel 2018.

    Sarà stata motivata dall’attacco frontale alle classi lavoratrici rappresentato dal rinvio dell’età pensionabile a 64 anni, che avrà l’effetto concreto di rendere più precari i lavoratori vicini all’età pensionabile e di ridurre ulteriormente le loro pensioni, perdendo i due anni migliori di pensionamento, in particolare per coloro che hanno lavorato in occupazioni faticose.

    Ma è stata la sofferenza sociale della vita quotidiana ad avere un impatto così profondo e duraturo su questa mobilitazione: la sofferenza sul lavoro, la fatica e la lunghezza dei trasporti, le condizioni abitative deplorevoli e la diminuzione delle case popolari, i salari bassi e il costo della vita aggravato dalla pandemia e dall’inflazione, l’impossibilità di provvedere all’assistenza sanitaria, le difficoltà della vita quotidiana causate dagli evidenti tagli ai servizi pubblici locali e dalla proliferazione dei “servizi online” che rendono più difficili anche le più piccole procedure amministrative.

    A questo si aggiungono, per le famiglie, i costi sempre più onerosi dell’assistenza agli anziani, il costo esorbitante delle EPHAD (le strutture di accoglienza per anziani non autosufficienti, corrispondenti alle nostre RSA), spesso in condizioni spaventose, e la difficoltà per i giovani di autonomizzarsi e di trovare lavoro.

    Si trattava quindi di una questione sociale, di una questione sociale complessiva, e quindi di una questione politica che riguardava la collocazione e la difesa degli interessi delle classi lavoratrici che veniva sollevata, espressa e spesso rilanciata da questo movimento. La sfida era, ed è tuttora, quella di dare visibilità e sostanza politica a questa questione di classe, tracciando un’alternativa politica basata sulla lotta contro questi attacchi sociali e quindi per scelte alternative, anticapitaliste, basate sulla soddisfazione dei bisogni sociali.

    Per “loro” non c’è alternativa

    È sorprendente vedere lo zelo con cui gli ideologi capitalisti hanno sparato a tutto spiano nelle ultime settimane per combattere e persino schiacciare qualsiasi accenno di “deviazione” dalla narrazione neoliberista ufficiale.

    La NUPES viene quotidianamente presa di mira come irrazionale, incompetente, asservita alla sinistra e all’islamismo e priva di credibilità economica. Il TINA (There Is No Alternative), sposato da Reagan e Thatcher negli anni ’80, ha ora un posto predominante, in particolare tra i portavoce e gli editoriali macronisti dei media mainstream, la maggior parte dei quali sono di proprietà di pochi miliardari capitalisti.

    Le reazioni sono talvolta epidermiche. È il caso delle parole della regista Justine Triet, dopo la vittoria della Palma d’Oro all’ultimo festival di Cannes 2023. La regista ha osato fare un discorso per denunciare “il modo scioccante in cui il governo ha negato le proteste contro la riforma delle pensioni”. Ha poi denunciato “la mercificazione della cultura che il governo neoliberista sta difendendo”.

    Mentre tutti i sindacati professionali hanno condiviso e sostenuto questo discorso, è stato spettacolare vedere la velocità e la violenza delle reazioni ostili provenienti dal governo e dagli apologeti del neoliberismo. Era ancora più importante cercare di screditare il suo discorso perché il prestigio del festival di Cannes è uno dei vettori culturali in cui si suppone che l’”élite intellettuale” condivida il discorso della classe dominante. Lo spettro del Festival di Cannes del 1968 era evidentemente ancora fresco nella mente di alcuni.

    Più sorprendenti sono state le reazioni a un rapporto scritto dall’ispettrice delle finanze Selma Mahfouz e dall’economista Jean Pisani Ferry, uno dei mentori del giovane Macron.

    Il rapporto sul finanziamento della transizione ecologica, redatto da questo economista liberale, ha osato suggerire che, data l’urgenza e l’entità dei finanziamenti necessari, si dovrebbe introdurre una “tassa eccezionale per il 10% più ricco della popolazione francese”, un’imposta una tantum corrispondente al 5% del loro patrimonio finanziario.

    In questo modo si raccoglierebbero 150 miliardi di euro in un’unica soluzione. Aver osato prendere di mira le famiglie ricche che possiedono la metà della ricchezza netta totale (immobiliare e finanziaria) è chiaramente intollerabile. Solo i “sinistrorsi” della NUPES potevano avere proposte del genere. Traditi da uno di loro, Bruno Le Maire ed Elisabeth Borne hanno immediatamente e con veemenza respinto questa ipotesi, ritenendola contraria all’intera politica del governo di riduzione della pressione fiscale.

    Questi due esempi sono indicativi della volontà del governo di affermare che esiste una sola risposta possibile ai problemi finanziari e sociali.

    Ciò avviene screditando non solo il discorso anticapitalista, ma persino quello antiliberista che negli ultimi mesi è stato portato in piazza da una parte del movimento sindacale, dal NUPES e dalla sinistra radicale. In particolare, è importante screditare la NUPES in quanto non in grado di rappresentare un’alternativa alle politiche neoliberiste, e addirittura come un’opzione più pericolosa del Rassemblement national.

    Da questo punto di vista, gli editorialisti dei principali media hanno seguito in larga misura il loro consiglio di effettuare il “NUPES bashing” (la stroncatura della NUPES) e di impedire che questa alleanza politica appaia credibile alle prossime elezioni.

    In un altro registro, complementare, i nostalgici della sinistra socialdemocratica suonano una musichetta volta a screditare la France insoumise e la sinistra di Europe Ecologie Les Verts, privilegiando le questioni sociali (tra cui i movimenti LGBTQ+, climatici, femministi e antirazzisti) a scapito delle “serie” preoccupazioni quotidiane che si suppone siano quelle delle classi lavoratrici.

    Eppure, all’interno delle classi lavoratrici, tutte le sofferenze quotidiane sono ancora maggiori quando si è donna, spesso con i salari più bassi e genitore single, spesso soggetta a violenze, molestie e discriminazioni sul lavoro; quando si appartiene a una generazione post-coloniale, soggetta a discriminazioni quotidiane, retrocessione spaziale, razzismo di stato e violenza della polizia.

    Queste questioni sociali non sono problemi sociali esterni alle classi lavoratrici, ma parte integrante dei problemi quotidiani di milioni di uomini e donne. Lo stesso vale per le preoccupazioni ambientali, che riflettono anch’esse un’urgenza sentita principalmente dalle classi lavoratrici.

    Quel che c’è e quel che manca a sinistra

    Ma la questione di un’espressione politica basata sui bisogni sociali, globale, che delinei un’alternativa alle politiche liberali, è effettivamente un punto di debolezza nella situazione attuale.

    È vero che la sinistra antiliberale, la NUPES, è screditata quotidianamente dai media e ha difficoltà a far sentire una voce coerente, al di là della caricatura di cui è oggetto.

    È anche vero che gli ambienti governativi e i loro sostenitori hanno chiaramente scelto di non usare più la demonizzazione del Rassemblement National, trattandolo come un’opposizione seria e responsabile, contrapposta ai “pericolosi eco-terroristi e islamosinistri della France Insoumise”. Nonostante tutti i suoi limiti, la NUPES sembra essere l’unica forza politica a rifiutare le politiche liberali.

    Questo non è ovviamente il caso dei resti della socialdemocrazia che alcuni vorrebbero far rivivere. Ma ovviamente non è nemmeno il caso del Rassemblement National, che come Giorgia Meloni è totalmente devoto a queste politiche neoliberali, seguendo Macron in molte delle sue leggi reazionarie, aggiungendo solo il veleno di una maggiore discriminazione razzista.

    Il pericolo principale per i difensori del sistema, quindi, è il possibile emergere di una forza che colmi il divario tra le richieste sociali e un’alternativa politica. Da questo punto di vista, la Francia si trova in una posizione particolare in Europa, con la forza dell’ultimo movimento sociale e la presenza della NUPES che pongono il paese per il momento in contrasto con la situazione altrove, con una sinistra che mantiene una significativa forza elettorale, prevalentemente antiliberale.

    Di conseguenza, si è fatto di tutto per far sì che il Rassemblement national apparisse nei media e nei sondaggi come l’unico vincitore degli ultimi mesi (anche se, in realtà, secondo gli ultimi sondaggi, la NUPES progredirebbe e otterrebbe la maggioranza relativa in caso di elezioni anticipate).

    Purtroppo, questa crescita e le difficoltà della sinistra non sono solo il riflesso di una manovra mediatica.

    C’è ovviamente un deficit, che è presente dall’autunno. Già ampiamente analizzato, deriva dall’incapacità di mettere insieme un fronte comune, unito, sindacale, sociale e politico. Persino la NUPES, invece di preoccuparsi delle sue responsabilità comuni in una situazione del genere, rifiuta qualsiasi organizzazione militante comune nelle città e nelle regioni, la France insoumise (LFI) si irrigidisce su qualsiasi idea di organizzazione e funzionamento democratico interno e non viene presa alcuna iniziativa, al di fuori dell’Assemblea nazionale, per organizzare riunioni comuni su scala locale o nazionale.

    In realtà, più che cercare un’espressione comune oggi, tutti i componenti della NUPES, a parte la France insoumise (FI), sembrano interessati soprattutto a una propria specifica presentazione nelle prossime elezioni europee.

    Questa situazione ha portato a critiche all’interno di LFI, a un appello comune all’unità da parte dei leader delle organizzazioni giovanili NUPES e a diversi forum. In ogni caso, dopo questo movimento sociale, i leader della NUPES sembrano incapaci di prendere iniziative per proposte sociali e politiche comuni per affrontare Macron, rafforzando i limiti del loro accordo elettorale.

    All’interno della sinistra radicale, diverse centinaia di attivisti dell’NPA, di Ensemble, del movimento femminista, dei sindacati, degli ambientalisti, degli antirazzisti e delle associazioni hanno appena indetto un processo di assemblee locali e regionali per realizzare un forum sociale all’inizio di luglio “per costruire infine una nuova forza democratica e pluralista”.

    Nel complesso, la costruzione di un fronte sindacale, sociale e politico unito dovrà essere il compito del momento, per rendere credibile un’alternativa politica che lotti contro le politiche liberali. Il programma di questa alternativa è molto presente nelle rivendicazioni delle correnti sindacali in lotta, in particolare nella CGT, in Solidaires e nella FSU, e nelle associazioni militanti del movimento sociale. France Insoumise e NUPES si sono fatti portavoce di molte di queste istanze nelle ultime elezioni.

    Ma ora si tratta di costruire un crogiolo militante comune, capace di organizzare, promuovere il dibattito e creare la base delle mobilitazioni da costruire.