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  • 8 marzo, sciopero dal lavoro produttivo e riproduttivo

    8 marzo, sciopero dal lavoro produttivo e riproduttivo

    del Collettivo femminista di inchiesta sociale “Ipazia”, da Facebook

    Anche quest’anno scendiamo in piazza per la giornata dell’8 marzo per riaffermare la nostra volontà di lotta contro tutte le forme di oppressione, di sfruttamento e di razzismo che riguardano le donne.

    La nostra lotta riguarda l’oppressione sulle donne che si manifesta come oppressione di genere, che produce anche la violenza sulle donne, come oppressione di classe e spesso, nelle diverse parti del mondo, come oppressione di “razza”.

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  • La democrazia che vogliamo

    La democrazia che vogliamo

    di Fabrizio Burattini e Umberto Oreste

    Per la sinistra esiste un’urgente necessità di rimettere all’ordine del giorno della politica il concetto di “democrazia”. Questo tanto più oggi, quando in Italia, una democrazia rappresentativa già logorata ed asfittica è minacciata da proposte di modifica ulteriormente devastanti attraverso la prospettata riforma del “primierato”.   

    Parlare di democrazia oggi

    Il concetto di democrazia (che troppi danno per definito ab aeterno) va al contrario attualizzato storicamente. Quello a cui generalmente ci si riferisce è databile dal secondo dopoguerra, e i suoi “successi” sono dovuti in particolare al fatto che questo “modello” si è in genere associato all’immagine di società mediamente più ricche, meno sconvolte da guerre, generalmente o almeno apparentemente meno corrotte, con cittadine e cittadini che diffusamente potevano sperare in una dinamica di “crescita” e di “miglioramento” delle condizioni di vita per loro stessi e per i loro figli. 

    Sono state società che, in maniera più o meno efficace, riuscivano a cancellare il fatto che il loro relativo benessere si basava anche su secolari esperienze di sfruttamento coloniale o neocoloniale di altri paesi “meno fortunati”. 

    Quando le basi strutturali di quel contesto sono andate esaurendosi, è rimasta formalmente in piedi l’idea di “democrazia occidentale” come espressione di democrazia più compiuta. Al contrario, è un modello che fa acqua da tutte le parti. Ed è per questo che è necessario riprendere una discussione sulla democrazia. 

    Esempi di democrazia negata sono ben visibili in tanti paesi occidentali: in Francia, la riforma pensionistica, contrastata dalla stragrande maggioranza dei francesi e senza una maggioranza parlamentare, è passata per decreto presidenziale; in Germania, si è negata la legittimità della solidarietà alla Palestina, per non parlare di Israele che si continua a presentare come “unica democrazia in Medio Oriente” ma nella cui costituzione è legittimata la discriminazione su base etnica e la cui politica di apartheid suprematista è ormai diffusamente riconosciuta a livello internazionale. 

    Democrazia e scontro di classe

    La parola democrazia è universalmente abusata, e la risposta alla domanda “Che cos’è una democrazia?” è sempre più difficile, a meno di non adottare la risposta semplicistica e fuorviante secondo cui essa sarebbe un sistema di governo in cui a tutti i cittadini è concesso di votare: nella storia sono numerosissimi gli esempi di regimi ultra-autoritari inizialmente “legittimati” dal voto popolare. 

    Al di là del richiamo alla presunta “democrazia” ateniese (in realtà un modo di produzione maschilista e schiavista), la “democrazia” nella storia non è mai stata la forma di governo più diffusa. Gli storici ci dicono che nel 1941 i paesi che più o meno legittimamente potevano definirsi “democratici” erano solo 11: Finlandia, Islanda, Irlanda, Svezia, Svizzera, Regno Unito, Australia, Canada, Nuova Zelanda, Stati Uniti e Cile. 

    Nel corso della seconda metà del XX secolo, la “democrazia”, dopo aver sconfitto la Germania nazista e l’Italia fascista, si è insediata anche in paesi precedentemente autoritari, come la Spagna, il Portogallo, la Grecia, o come  l’India postcoloniale, ha eliminato l’odioso apartheid sudafricano, ha raggiunto molti paesi in Africa e Asia e ha “garantito” nell’Europa occidentale per molti decenni una pace stabile e duratura. 

    Verso la fine del “secolo breve”, poi, ha riportato il successo per lei storicamente più significativo, con la caduta dell’URSS e degli altri regimi “comunisti” dell’Europa dell’Est.

    Dopo la Seconda guerra mondiale, i sistemi democratici dell’Occidente nel governare lo sviluppo capitalista, sotto la spinta delle classi lavoratrici, ne distribuivano parte dei benefici ai ceti popolari, le società sembravano più prospere, più colte e più libere, le disuguaglianze sembravano ridursi lentamente ma apparentemente in modo irreversibile e si assisteva ad una mobilità sociale dal basso verso l’alto certamente limitata, ma senza precedenti nella storia.

    La straordinaria stagione delle lotte operaie e di massa degli anni Sessanta e Settanta è coincisa con il periodo dell’avanzamento della “democrazia liberale”. Dunque, quel “trionfo storico” del modello “democratico” si è affermato in un periodo di protagonismo delle masse popolari sia in Occidente che nei paesi coloniali e l’affermazione di quel modello è uno dei risultati della lotta di classe e non un evento storico indipendente, dovuto alla presunta “forza intrinseca” della “democrazia”. 

    Sono state proprio la progressiva sconfitta delle lotte operaie dagli anni Ottanta in poi e la ripresa di controllo da parte delle forze capitalistiche che hanno determinato la crisi e il declino di quel modello. E la ricerca da parte del capitalismo della ricostituzione di margini di profitto a scapito dei lavoratori sta determinando un ulteriore e grave regresso del “modello democratico”. 

    In Italia, il discredito della classe politica ha trascinato con sé il discredito della politica stessa, senza essere contrastato dai partiti “di sinistra”: è a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta (proprio quando sul campo venivano travolti alcuni fondamentali bastioni della lotta delle classi popolari (la scala mobile dei salari, l’organizzazione operaia nelle grandi fabbriche, ecc.) che prende piede l’idea di una “riforma istituzionale” e costituzionale in senso efficientistico. Certo, il “sogno” di “un uomo solo al comando” che riesca a dominare la dialettica politica aveva già conquistato il “socialismo” craxiano con il suo “decisionismo”, ma ha fatto breccia in primo luogo nella destra (Berlusconi, Fini, ecc.), che rispolverò, “modernizzandolo”, il progetto presidenzialista funzionale ai poteri forti custodito per lungo tempo dal solo Movimento sociale di Almirante. 

    Il presidenzialismo diventò allora il cavallo di battaglia di Forza Italia, ma i “postcomunisti” non si tirarono indietro e, soprattutto con D’Alema, mostrarono tutta la loro disponibilità a discuterne. Il modello gollista francese (pur con tutte le correzioni italiche possibili) cominciò a fare proseliti, assieme ad argomenti come la necessità di dare “maggiori poteri al primo ministro”, la “sfiducia costruttiva”, il superamento del “bicameralismo perfetto”, ecc.

    E’ così che si è arrivati in Italia alla diminuzione del numero dei parlamentari, al “pareggio di bilancio” in Costituzione, a leggi elettorali sempre più truffaldine, ai progetti presidenzialisti, alla voglia di monocameralismo, al disegno della “autonomia differenziata”, in un’unica e contestuale sequenza di attacchi ai diritti dei lavoratori e alla democrazia. Attacchi alla democrazia che disgregano la società nel suo complesso, contrapponendo i vari settori produttivi, finanza e produzione, territorio e territorio, nonché individuo e individuo e creando individualismi violenti, alienazione, irrazionalismo. 

    È in questo clima che emerge la proposta di “premierato” lanciata dal governo Meloni e che a breve andrà in discussione in parlamento. E’ un governo che al di là del mantenimento o meno delle sue promesse elettorali sta cercando di concretizzare il suo progetto reazionario di cui il premierato e la violenza che comporta nella riscrittura della lettera e della sostanza della costituzione costituiscono tasselli fondamentali.

    Non a caso sono emerse negli anni ipotesi autoritarie “a fini democratici”. Prendendo atto del fatto che le masse non sarebbero più in grado di esercitare la democrazia, sono in tanti a chiedersi se sia “giusto” far dipendere il “prezioso e delicato” governo del paese da un elettorato in larga parte volubile, distratto, demotivato e disincantato. Con il risultato di introdurre argomenti che negano alla base la stessa idea del suffragio universale

    Paradossalmente, anche il sostenitori più lucidi del capitalismo si rendono conto che in questo contesto il sistema rischia di conoscere una patologia distruttiva. Oggi, dunque, la famosa frase di Woody Allen (“Dio è morto, Marx è morto… E anch’io oggi non mi sento molto bene”) può essere non abusivamente riscritta: “il socialismo è morto, ma anche il liberalismo non si sente tanto bene”.

    La democrazia nel XXI secolo

    All’inizio dell’attuale secolo, in tutto il mondo, “paese dopo paese” (lo scriveva l’Economist in un noto articolo del 2014“la gente si riuniva a protestare nelle piazze. I regimi dittatoriali o comunque non pienamente democratici reagivano con violenza, ma perdevano il controllo di fronte alla fermezza popolare e alle proteste”. Ci si riferiva alle “primavere arabe” (in Tunisia, in Egitto, in Libia, in Siria e, in qualche modo anche in Yemen, nel Sudan, in Libano, ecc.) e a quelle “colorate” in vari paesi delI’ex blocco sovietico (Georgia, Kirghizistan, Azerbaigian, Bielorussia e perfino in Mongolia, oltre che, quella “arancione”, la più nota, in Ucraina).

    Sono state tutte vicende, naturalmente con storie e protagonisti diversissimi, condotte nel nome della “democrazia”. E, in modo brutalmente diretto (l’esempio più sanguinoso è quello siriano) o in maniera più subdola, sono state tutte sconfitte, con economie ancor più disastrate delle precedenti, disuguaglianze peggiori, governi ancor più autoritari, speranze crudelmente frustrate. Con il risultato che molti di coloro che si erano battuti contro le dittature per creare nuove “democrazie” hanno legittimamente raggiunto la conclusione di aver sbagliato strada.

    Questo bilancio negativo viene avvalorato dal fatto che, anche in quei paesi in cui la “democrazia” è più solida e longeva, il “modello democratico” più che fondatamente non è più identificato con un benessere e una giustizia sociale diffusa e in crescita, ma viene associato a crisi e fallimenti economici, a sistemi politici disfunzionali e inefficienti, a corruzione e a prepotenze. 

    Di fronte alla devastante crisi economica e finanziaria del 2007-2008, i sistemi politici dell’Occidente hanno ovunque platealmente dimostrato tutta la loro incapacità e perfino la loro non volontà di affrontare la situazione, hanno appoggiato e aiutato il sistema economico e bancario responsabile della crisi, minando agli occhi dei propri cittadini e del resto del mondo l’immagine di forza e di efficacia del “modello democratico”.

    E questo, peraltro, non si è prodotto nel vuoto, perché contemporaneamente (sempre in quegli anni) il “modello” cinese (e per certi versi anche quello indiano) ha dimostrato l’inconsistenza dell’associazione tra crescita economica e democrazia, accumulando tassi di sviluppo molto superiori a quelli degli stati occidentali dei tempi migliori, rafforzando l’idea che il “modello autoritario” (rigido controllo dall’alto sull’economia e su tutta la società) sia meno impotente e più efficiente della democrazia. 

    E non dobbiamo nasconderci che, nonostante le limitazioni delle libertà personali, il controllo sul diritto di opinione, la censura, la repressione del dissenso, e nonostante i poco conosciuti episodi di lotte sindacali, e i ricorrenti episodi di ribellione che spuntano ogni tanto qua e là nella sconfinata società cinese, il consenso di quel popolo verso il sistema politico che lo governa non sembra affatto scemare, anzi.

    Da tener presente che già Marx in “Forme economiche precapitaliste” parlava di un modello di produzione asiatico (storicamente molto diffuso in Asia e nell’America precolombiana, parzialmente presente negli imperi ottomano e russo. Una forma di produzione basata su una formale comunità dei mezzi di produzione, ma sul trasferimento delle ricchezze prodotte ad una centrale estremamente autoritaria, che, in qualche modo, ricambiava le masse produttrici espropriate gestendo un sistema amministrativo centralizzato e estremamente efficiente, che assicurava la circolazione dei beni e il sostegno in caso bisogno. 

    Quel modello è oggi rintracciabile nelle moderne autocrazie che poggiano i loro “successi” e comunque la loro esistenza su di un consenso, o quanto meno sull’indifferenza delle masse popolari fintanto che non intervengano elementi sconvolgenti come ad esempio una guerra (come avvenne in Russia con conflitto con il Giappone nel 1905 e poi con la Prima guerra mondiale nel 1917).

    L’Economist, nell’articolo citato, arriva a dire che “la democrazia sta distruggendo l’Occidente, perché istituzionalizza l’impasse decisionale, impoverisce i processi di decisione e promuove leader mediocri come George W. Bush … la democrazia complica cose semplici e permette ai politici di ingannare la gente”

    Il modello cinese, al contrario, fa proseliti in giro per il mondo, soprattutto in quello che un tempo veniva definito “terzo mondo”, ben sapendo che quel modello può funzionare anche se lo strumento politico di potere non si richiama (d’altra parte ormai del tutto abusivamente) al “comunismo”. La vicenda della crescita dell’alleanza dei BRICS sta a dimostrarlo.

    I clamorosi fallimenti delle guerre statunitensi in Afghanistan e in Iraq, guerre che vennero motivate con lo slogan della “esportazione della democrazia”, hanno convinto il mondo di quanto quella “democrazia” fosse solo un alibi per le ambizioni imperialiste a stelle e strisce. E il caos in cui sono ancor più precipitati l’Afghanistan e l’Iraq spingono a pensare che la democrazia in fin dei conti genera instabilità, che essa non sia affatto quella “aspirazione universale” a cui tutto il mondo tenderebbe come predicavano Bush, Blair, Clinton e Obama. O perlomeno che la democrazia sia un “lusso” riservato ai popoli “benestanti” e che non possa funzionare che in “determinati contesti”.

    Ma anche in quei “determinati contesti”, le cose non vanno per niente bene. Negli Stati Uniti, la democrazia è diventata sinonimo di inefficienza politica e economica. La crescita del trumpismo si basa anche su questo. E, anche ignorando la crescita della destra negli ambienti dei “ceti medi” statunitensi, la disillusione verso la “democrazia” cresce anche e soprattutto negli strati sociali più disagiati, alimentando anche lì l’impressione che la democrazia sia una cosa in vendita per chi ha i soldi per comprarla. Il discredito della “democrazia americana” è enormemente diffuso all’interno della società statunitense, come dimostrano da un lato gli avvenimenti di Capitol Hill del 6 gennaio del 2021 e dall’altro lo straordinario movimento di Black Lives Matter.

    Né le cose vanno meglio nell’Unione Europea. L’euro è precipitato sui bilanci economici delle famiglie sulla base di decisioni prese da tecnocrati, mentre, in tutte le occasioni nelle quali i cittadini sono stati consultati, in maniera varia e con quesiti formulati in modo molto diverso (in Danimarca, in Svezia, in Francia, in Irlanda), hanno sempre prevalso i contrari. A tutto ciò va aggiunto l’esito del referendum britannico sulla “Brexit”. Né va trascurato come la UE abbia del tutto trascurato il “suo” modello democratico quando ha costretto l’Italia (con l’imposizione del governo Monti e il diktat di Draghi e di Trichet del 2011) e la Grecia (nel 2015) a contraddire scelte democraticamente assunte.

    Democrazia e globalizzazione

    Il modello un tempo trionfante della “democrazia occidentale” (“La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”) è entrato in lampante contraddizione con la globalizzazione che ha colpito e reso più deboli e meno indipendenti le politiche nazionali, il tutto a favore di istituzioni “sopranazionali” senza alcuna legittimazione democratica, o, peggio ancora, dei “mercati”

    Il declino dello stato-nazione (sul quale la democrazia moderna era stata edificata a partire dal XVIII secolo, che prevedeva un’etnia dominante e minoranze etniche marginalizzate) ne ha accelerato e reso sempre più profonda la crisi. La gente capisce benissimo che i programmi che i partiti presentano per le elezioni sono un collage di promesse fatte su temi che ormai non dipendono più da loro.

    E le cittadine e i cittadini sanno che, per quel poco che contano, gli strumenti per esercitare una qualche influenza sulle decisioni politiche sono molto più le lobby, le associazioni di interessi, i gruppi di pressione, perfino le petizioni online, piuttosto che la partecipazione ogni cinque anni alle elezioni. Il processo elettorale parlamentare, con le sue scadenze e i suoi riti, appare sempre più anacronistico e rigido. L’Economist (in un altro più recente articolo) afferma che “la democrazia rischia di fare la fine dei negozi di dischi ai tempi di Spotify e iTunes”.

    Ma i colpi maggiori che minano la credibilità della “democrazia” sono strutturali, legati al “modello economico” capitalista e al suo carattere intrinsecamente non democratico, tanto meno democratico quanto meno tenuto sotto pressione dalle lotte dal basso. Il “modello” si è separato dall’idea di una società che fondatamente promette ai suoi cittadini, a tutti i suoi cittadini, un futuro migliore del presente. Si assiste ad una “democrazia” che si associa a povertà e disuguaglianze violentemente crescenti, ad una politica priva di fondi per rispondere ai bisogni della gente perché le risorse sono sempre più destinate al privato (banche, imprese, gruppi di interesse) piuttosto che al “bene pubblico”.

    E’ stata persino criminalizzata l’acquisizione del consenso attraverso la proposta di politiche economiche particolari. E’ emblematica la grottesca accusa di “voto di scambio” avanzata nel corso della campagna elettorale italiana del 2022 nei confronti del Movimento 5 Stelle a causa della sua volontà di “difendere a tutti i costi” il reddito di cittadinanza.

    La questione democratica e la sinistra comunista

    La sinistra, e in particolare quella che si è autodefinita “comunista”, nel corso della sua storia ha avuto sempre un rapporto difficile con la questione democratica. Ha condotto lotte fondamentali e sanguinose (a volte vittoriose a volte perdenti) contro regimi autoritari e dittatoriali. Basti pensare (per limitarsi al Novecento) alla guerra di Spagna o alla resistenza antifascista. Ma ha il più delle volte banalizzato la mortifera soppressione di ogni forma di democrazia nei paesi in cui era giunta al potere.

    Con questo comportamento, stridentemente contraddittorio, ha avallato l’idea di un movimento comunista per il quale la lotta per la democrazia non costituisce un obiettivo in sé, per quanto collegato all’altro fondamentale obiettivo della giustizia sociale, ma è solo uno strumento per una più agevole lotta per la conquista del potere. D’altra parte, in quella sinistra ha cominciato ad essere usato il termine “democraticismo” per sottolineare il carattere “accessorio” e “illusorio” delle aspirazioni democratiche delle masse e per evidenziarne la subalternità alla propaganda e alla ideologia “democratica” delle classi dominanti.

    Naturalmente non vogliamo qui trascurare la critica della democrazia che hanno fatto Marx e tanti altri marxisti. Marx in particolare non sviluppò mai in maniera esauriente la sua concezione della democrazia. Nella Critica del Programma di Gotha, il regime politico tedesco viene caratterizzato così: “uno stato che non è altro se non un dispotismo militare, mascherato con forme parlamentari, mescolato con appendici feudali, influenzato già dalla borghesia, tenuto assieme da una burocrazia, difeso con metodi polizieschi”. Nei suoi scritti sulla Rivoluzione francese del 1848, Marx segnalò che la democrazia era la forma migliore di dominazione della borghesia. Ma nel Manifesto scrive: “Il primo passo nella rivoluzione operaia è l’elevarsi del proletariato a classe dominante, la conquista della democrazia”, indicando dunque quest’ultima come una delle finalità centrali del socialismo marxista.

    Lenin stesso, nel suo Stato e rivoluzione, che è il suo scritto più completo contro le forme di dominazione politica sulle masse popolari, dice testualmente: “In regime capitalistico, la democrazia è ristretta, compressa, monca, mutilata, da tutto l’ambiente creato dalla schiavitù del salario, dal bisogno e dalla miseria delle masse”.

    Ancora più chiara e polemica perfino nei confronti dei compagni rivoluzionari russi vittoriosi fu Rosa Luxemburg, che nel suo “La rivoluzione russa” scrisse: “Sicuramente ogni istituzione democratica ha i suoi limiti e i suoi difetti, come tutte le istituzioni umane. Ma il rimedio trovato da Lenin e Trotsky – sopprimere la democrazia in generale – è ancora peggiore del male che si deve curare, perché ostruisce proprio la fonte viva dalla quale possono venire le correzioni alle imperfezioni congenite delle istituzioni sociali”.

    Ancora più chiaramente, Rosa, nel suo “Riforma o rivoluzione?” del 1898 descrive tutti i limiti e le falsità delle “forme democratiche” che la classe borghese ha adottato nel dominare numerosi paesi, e al fatto che tali forme democratiche “universalistiche” non contraddicono la natura di classe del potere e dello stato.

    Resta che il nodo dell’approccio alla questione democratica non è stato chiarito in modo esauriente dai “classici” e dunque, nel 1985, non casualmente mentre il “socialismo reale” si apprestava a soccombere, la Quarta Internazionale, su impulso soprattutto di Ernest Mandel e di Daniel Bensaid, aprì un approfondito dibattito sulla questione, che portò all’approvazione nel 12° congresso mondiale di un complesso documento (“Dittatura del proletariato e democrazia socialista” – qui il testo completo in francese, qui in inglese), nel quale si recita così:

    La conclusione del documento è il rigetto di qualunque concezione della società postcapitalista come una società nella quale le libertà democratiche siano soffocate, appaiano anche solo messe in discussione o comunque più ristrette di quelle che le masse sono riuscite a conquistarsi nell’ambito del capitalismo, quindi: no al partito unico, no ai sindacati di stato, no alla restrizione della libertà di autorganizzazione, di stampa, di riunione, ecc.

    L’argomento è importantissimo in questa fase e deve essere affrontato nell’approfondimento teorico e nella pratica di lotta. Il vecchio rifiuto del “democraticismo” va profondamente riconsiderato, va evitata ogni idea di difesa della democrazia astratta, ma vanno denunciate puntualmente tutte le azioni che il capitale, di fronte alla sua crescente difficoltà di “gestione democratica”, assesta a tutte le conquiste democratiche delle lotte dei secoli e dei decenni scorsi.

    La parola “democrazia”, l’abbiamo già detto, è abusata, in sé non significa niente, non a caso persino la destra ha cercato di recuperarla stravolgendola in senso “sovranista” nella fase attuale di crisi della globalizzazione. Occorre specificarne i contenuti, rispetto ai rapporti di produzione, nella dinamica dello scontro di classe e nella prospettiva di un’alternativa complessiva. 

    Democrazia come partecipazione

    A conclusione è da ricordare che il concetto di democrazia va al di là dello specifico della rappresentanza istituzionale, ma va esteso e avvalorato da altri ambiti dove viene prodotta la partecipazione alle scelte collettive. Ci riferiamo essenzialmente alla democrazia sul lavoro, dove deve essere ripreso il concetto di rappresentanza dei lavoratori nelle scelte produttive e nei modi per attuarle.  

    I soggetti politici, compresi quelli che si autodefiniscono “antagonisti” sono gestiti in modo sempre meno democratico; prevale spesso un verticismo che esclude ogni protagonismo degli iscritti fino a cancellarne l’esistenza organizzata o a ridurla ad una scelta si/no in rete; il dibattito politico viene esercitato in ambiti sempre più ristretti e viene portato alla base solo in occasione dei congressi nazionali, momento di verifica tra componenti precostituite. 

    Deficit crescenti di democrazia sono rintracciabili anche nei sindacati, dove spesso non si confrontano concrete strategie di lotta ma solo riferimenti astratti di “componenti” interessate a dividersi le rappresentanze negli organismi dirigenti. La banalizzazione della democrazia investe anche il sindacalismo conflittuale dove il protagonismo della base viene valorizzato solo a patto che non metta in discussione i gruppi dirigenti e i loro progetti.

    Altro tema da aprire è quello della democrazia nei “movimenti” dove non dovrebbe cristallizzarsi un gruppo dirigente, neanche esclusivamente organizzativo, ma le scelte operative dovrebbero essere sempre riverificate a livello il più ampio possibile. D’altronde dovrebbero essere studiate e attualizzate nella pratica politica tutte le esperienze di democrazia partecipata maturate  storicamente, dai soviet, ai consigli di fabbrica, alle assemblee popolari, al bilancio partecipato, alle pratiche zapatista o del Rojava. 

    Non si può lottare per la democrazia nelle istituzioni se non la si promuove e la si pratica nel profondo del corpo sociale.

  • Basta ai femminicidi, proposta di discussione

    Basta ai femminicidi, proposta di discussione

    riceviamo e pubblichiamo, del Collettivo Ipazia di Napoli, da Facebook

    Astraendo dal singolo caso e dalle ipocrite affermazioni delle forze politiche e mediatiche dominanti, proviamo ad elencare qualche spunto tematico su cui è necessario sviluppare la nostra discussione:

    I rapporti di potere, come carattere fondante della società capitalista, che permeano anche le relazioni affettive, vale a dire quelle che riguardano la sfera più intima e forse più fragile nella vita delle persone, facendone un terreno di esercizio di dominio padronale.

    Il senso del possesso, inseparabile dall’esercizio di questo potere, e dall’ideologia che attribuisce valore agli individui solo se possiedono.

    Il patriarcato, inteso come sistema di relazioni di dominazione ed oppressione delle donne, che il capitalismo ha assunto da società arcaiche ma che, dato il percorso di emancipazione e liberazione intrapreso dalle donne soprattutto a partire dall’ondata femminista degli anni Settanta, oggi è messo in crisi. Ne deriva uno smarrimento e una evidente fragilità di molti uomini, giovani e meno giovani, di fronte alla loro sensazione di perdita di potere e la loro strenue e vigliacca resistenza per non perderlo e mantenere il controllo proprietario sulle loro compagne, mogli, figlie.

    La crisi del rapporto tradizionale uomo- donna, da quando le donne avanzano su tutti i fronti, mostrando di essere più forti, più attrezzate, più solide, anche forse a causa delle durezze dell’esperienza e dell’educazione storicamente diseguale, mentre molti maschi appaiono deboli, fragili, incapaci di tenere il passo, rispondono alla frustrazione con la violenza fisica che spesso sfocia in gesti estremi come l’omicidio di Giulia e di tante altre ma che, in maniera più frequente e meno appariscente, si manifesta come violenza verbale, psicologica, altrettanto dannosa e pericolosa, soprattutto perché spesso non viene percepita come tale.

    L’idea che le relazioni tra gli individui debbano passare solo attraverso lo stereotipo eterosessuale, cioè l’idea di coppia maschio-femmina, spesso vissuta come relazione fortemente accentrata sulla coppia stessa e che rappresenta l’estensione a due di quello che è l’accentramento individualistico e isolazionistico in cui siamo spinti dall’atomismo della società in cui viviamo.

    Il modo di riproduzione sociale del sistema capitalista, la base materiale su cui tutto questo si erge. Il capitalismo si serve del ruolo subalterno delle donne per conservare gli equilibri sociali, a partire dall’opera di quotidiana cura psico-fisica dei membri della famiglia, che struttura l’identità di uomini e donne facendo leva su una dedizione femminile spacciata per naturale ma in realtà instillata nelle donne fin dalla nascita. Questo meccanismo serve, inoltre, per risparmiare i costi di servizi gratuitamente forniti da un lavoro non riconosciuto come tale, e per la conseguente svalutazione della capacità di lavoro femminile anche sul mercato formale, dove tassi di occupazione e salari meno elevati per le donne sono una costante.

    Tutti gli elementi citati costituiscono un mix capace di generare l’oppressione di genere, le diseguaglianze tra uomini e donne, i comportamenti violenti. La domanda che è logico porsi è : che fare?

    La paradossale e inefficace risposta del governo in questi giorni, tra altri provvedimenti facciata, è stata quella di rinviare alla scuola il compito di svolgere una artificiosa “educazione ai sentimenti”, in un breve modulo didattico annuale che dovrebbe essere risolutivo per le problematiche di questo tipo! Ma una vera educazione a vivere le proprie relazioni con responsabilità e rispetto dell’altra o dell’altro passa attraverso una coscienza acquisita durante un lungo processo di formazione, in cui sicuramente la scuola è protagonista ma attraverso i mezzi, gli strumenti e i contenuti che le sono propri. Se si svilisce il compito della scuola, come si é fatto con le ultime controriforme, se la si fa oggetto di una trasformazione aziendalistica e autoritaria, come pretendere che metta una toppa su una lacerazione culturale e morale così profonda, che fa esplodere le potenzialità distruttive del sistema del patriarcato capitalista?

    Per noi la risposta risiede nella lotta che le donne sono in grado di fare per un cambiamento sociale radicale. Ma per questo bisogna guardare oltre il velo delle ipocrisie e degli stereotipi: lo ha fatto la sorella di Giulia, lo hanno fatto le donne che sono scese in piazza per manifestare a Roma il 25 novembre e in molte altre città nei giorni precedenti e seguenti, dando vita a cortei, flash mob, iniziative diverse.

    Un movimento che, tra l’altro, ha saputo cogliere il nesso tra la violenza contro le donne, inarrestabile qui da noi, e la violenza del genocidio in atto contro la popolazione palestinese, scatenata dal governo sionista. Le decine di bandiere per la Palestina chiedevano di smantellare le strutture che dappertutto nel mondo ingabbiano le donne e porre fine ai rapporti di dominio patriarcali e di classe, razzisti e imperialisti.

  • Politica dell’identità o politica di classe?

    Politica dell’identità o politica di classe?

    Diversi movimenti si organizzano contro le forme di oppressione legate al genere, all’orientamento e all’identità sessuale. Al contrario di una diffusa visione soggettivista e individualista, noi pensiamo che alle discriminazioni e alle oppressioni fondate sulle caratteristiche personali sia necessario dare risposta con una lotta sociale intersezionale che coniughi genere, “razza” e classe.

    Il difficile binomio classe/identità

    Il femminismo marxista ha un assunto teorico fondamentale: esiste un rapporto strutturale tra il capitalismo e l’oppressione delle donne, perciò la contraddizione uomo-donna potrà essere superata realmente solo nel quadro di una rivoluzione sociale anticapitalista; ad essa dovranno partecipare, insieme alla classe operaia, tutti i soggetti sfruttati e diseredati che combattono per la loro liberazione. 

    Quest’idea ha condotto ad affermare l’importanza strategica della convergenza tra le lotte delle donne, dei lavoratori e delle minoranze razzializzate che, in condizioni e modalità diverse, contribuiscono alla produzione e alla riproduzione del sistema capitalistico: ma questo è un obiettivo che appare tuttora lontano e difficile da realizzare. Il capitale differenzia e gerarchizza categorie di individui – la classe operaia ”bianca”, le donne, le persone di colore – non solo come espediente divisorio tra gli sfruttati – l’antico motto divide et impera fa sempre scuola – ma anche per poterli assegnare a sfere di ruolo distinte della divisione sociale del lavoro su presunte basi naturali.

    Per quanto riguarda il femminismo contemporaneo, mentre è poco conosciuta in Italia la riflessione materialista sulla contraddizione di genere, dilaga invece una politica identitaria delle minoranze sessuali smaterializzata e subalterna all’egemonia neoliberista sulla base di correnti di pensiero radicate nelle filosofie post-moderne. 

    C’è, dunque, una contrapposizione tra una “politica di classe”, che punta a ribaltare il sistema di tutte le oppressioni nella lotta contro il capitale, e una “politica dell’identità” che elude la lotta anticapitalista e preclude la possibilità di alleanza su larga scala tra diversi soggetti oppressi. 

    In questa nota ricapitoliamo le riflessioni prodotte nella storia del femminismo sull’integrazione delle lotte delle donne, degli immigrati e dei lavoratori, mettendole a confronto con teorie identitarie di segno diverso.

    L’intersezione di sesso, razza e classe

    Una teorizzazione femminista e anticapitalista sul rapporto tra diverse categorie di oppressioni emerse negli Stati Uniti alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, nell’ambito del femminismo afroamericano. Di fronte al sessismo dilagante nel movimento per i diritti civili dei neri – gli uomini pensavano che la loro battaglia avesse bisogno di una riaffermazione di “virilità” –  si formarono nuclei organizzati (Black Women’s Alliance, Third World Women’s Alliance) che adottavano una visione insieme anti-razzista e femminista e, infine, l’espressione più chiara e completa di questa tendenza, il Combahee River Collective, un collettivo di femministe lesbiche nere, che mosse i primi passi a Boston nel 1974 per iniziativa di Barbara Smith. Nel suo Manifesto, pubblicato nel 1977, questa organizzazione sosteneva che la visione dell’oppressione delle donne di colore, sia nei movimenti antirazzisti, sia nel movimento femminista nordamericano e nella sinistra bianca degli anni Sessanta e Settanta, fosse insufficiente e dichiarava di sentirsi impegnata nella lotta contro l’oppressione razziale ma anche in quella anti-sessista e di classe, considerato che queste tre forme di oppressione erano presenti nella loro esistenza quotidiana e costituivano determinanti significative nella loro vita lavorativa.  

    La sintesi di queste oppressioni crea le condizioni della nostra vita. […] Crediamo che la politica contro il sessismo sotto il patriarcato sia tanto pervasiva nella vita delle donne nere quanto la politica della classe e della razza. Troviamo anche spesso difficile separare la razza dalla classe e dall’oppressione sessista, perché nella nostra vita sono spesso vissute simultaneamente”.

    Il principale nemico da combattere, affermava il collettivo, era il capitalismo ma finché il movimento di liberazione dei neri non si fosse accorto che sessismo, razzismo e classismo erano tre facce dello stesso dominio, la lotta non sarebbe stata completa e sarebbe risultata inefficace. Questo, però, richiedeva anche che la lotta di classe superasse il suo economicismo teorico tradizionale.

    “Ci rendiamo conto che la liberazione di tutti i popoli oppressi richiede la distruzione dei sistemi politico-economici del capitalismo e dell’imperialismo così come del patriarcato ma il socialismo non basta, l’analisi di Marx deve essere ulteriormente estesa […]. Se le donne nere fossero libere, significherebbe che tutti gli altri dovrebbero essere liberi, poiché la nostra libertà richiederebbe la distruzione di tutti i sistemi di oppressione” (sempre dal Manifesto del Combahee River Collective).

    Il Black Feminism degli anni Ottanta ha proseguito lo sviluppo di queste prime formulazioni del concetto di integrazione della lotta di classe, di genere e di “razza”. La maggior parte delle sue rappresentanti, Angela Davis, Audre Lorde, Patricia Hill Collins, bell hooks e molte altre, ha una chiara prospettiva rivoluzionaria. Il saggio di Davis Donne, razza e classe , considerato uno dei testi seminali del femminismo nero americano, analizza l’interconnessione dei rapporti di classe, razza e genere non solo nella loro dimensione soggettiva, ma anche sul piano del loro sviluppo all’interno dei rapporti di produzione capitalistici.

    A Colette Guillaumin, una figura importante nel femminismo materialista francese, si deve un’analisi della “razza” e del genere come due diverse forme di naturalizzazioni di un dominio di origine sociale: è l’oppressione a creare categorie sulla base di semplici attributi personali che non dovrebbero avere alcun riflesso sociale; è l’ideologia della classe dominante che fabbrica un’idea di “natura” immodificabile che nasconde l’origine sociale dell’asimmetria di rapporti tra i gruppi1. Allo stesso tempo Guillaumin critica la tendenza della classe bianca occidentale a considerare il resto del mondo una propria periferia e quella del femminismo bianco a ritenere universali i propri modelli di emancipazione. Questo spiega perché il suo pensiero non trova quasi spazio nell’istruzione universitaria e nei centri di ricerca accademica italiani (e non solo), negli studi di genere in cui, invece, la teoria essenzialista della differenza occupa posizioni predominanti2 .  

    Sul finire degli anni Ottanta Kimberlé Crenshaw, giurista nera americana, ha usato il termine “intersezionalità” in un articolo scritto per il Forum legale dell’Università di Chicago per mostrare l’insufficienza della politica del governo americano a favore della minoranza nera, invitandolo a non guardare al genere e alla razza come aggregato informe ed omogeneo se voleva fare giustizia alle donne proletarie di colore, che sperimentano forme di discriminazione sovrapposte. Il saggio ha avuto un grandissimo successo, non solo negli Usa, e nei decenni successivi la terza ondata (o quarta, se consideriamo come terza il black feminism americano) del femminismo occidentale ha ripreso il concetto di intersezionalità, tuttavia con un significato profondamente diverso, corrispettivo di una visione del mondo mutata, senza più rapporto con la politica di classe. 

    La visione del femminismo mainstream 

    Con la mondializzazione dell’economia e l’affermarsi della politica neoliberale, un’ideologia pervasiva che mette al centro il libero mercato, il profitto, il culto dell’individuo, opera una svolta reazionaria nella lettura della società e del conflitto sociale. Tra crisi economiche e ristrutturazioni del sistema produttivo, il movimento operaio, senza più difese da parte delle rappresentanze politiche e sindacali tradizionali, rallenta la sua dinamica, l’identità di classe comincia ad appannarsi tra gli stessi i lavoratori. La classe è sempre meno un riferimento nell’analisi della realtà sociale.

    In questo quadro nascono numerose mobilitazioni femministe contro l’ondata di violenza dappertutto crescente nel mondo, per la conquista o la difesa del diritto all’aborto gratuito in ospedale, contro le diseguagliane di genere; una grande spinta dal basso proietta sulla scena internazionale lo sciopero sociale delle donne e apre un nuovo capitolo di mobilitazioni in molti paesi. Alcune organizzazioni femministe si definiscono “intersezionali”. Che cosa vuol dire, per loro?  Nulla che faccia pensare ad una eredità teorica dell’idea di convergenza delle lotte di genere con quelle di “razza” e di classe, che si era delineata in precedenza.

    A titolo di esempio, in un testo del 2017 dell’organizzazione italiana Nudm si afferma che le persone nella società sono divise sulla base delle loro caratteristiche di genere, razza, abilità, età ed altre variabili soggettive; ognuna di esse si colloca lungo l’asse di una relazione interpersonale tra dominante e dominata/o  su uno di questi terreni specifici e ogni persona può essere interessata da più di un asse di oppressione e, quindi, la sua posizione individuale nella società si trova nel punto della loro intersezione. 

     “… Per liberarci dall’oppressione allora è fondamentale prima di tutto riappropriarci della nostra identità, partendo dall’idea che il nostro vissuto è valido tanto quanto quello altruiEcco che l’identità smette di essere la nostra natura che ci porta necessariamente alla sottomissione, per diventare uno strumento attivo di lotta politica. Quest’idea moltiplicata per tutti gli assi di oppressione e le loro intersezioni dà origine al femminismo intersezionale: una prospettiva politica che abbraccia molteplici lotte contro tutte le oppressioni possibili, senza imporre una gerarchia fra di esse ma rivendicando le specificità di ciascuna.”

    E’ facile rinvenire, in testi come questo, le teorizzazioni di alcuni filosofi politici post-moderni (Foucault, Derrida), l’idea di un “potere istituzionale reticolare” che attraversa l’intero corpo sociale nelle mille relazioni della vita quotidiana. Le lotte che i singoli conducono lungo il loro asse specifico di oppressione non si incrociano tra loro e, non essendoci gerarchia tra le forme di dominio, non c’è fattore esplicativo o motore dinamico del sistema né visione strategica unitaria. Ma come si può combattere contro la sopraffazione senza ricondurne le cause al sistema che la produce? D’altra parte la classe, pensata in termini liberali, non è l’insieme collettivo unito da un interesse antagonista a quello dei capitalisti, è un gruppo di individui stratificato secondo criteri economico-statistici. Nella lotta contro il potere, non ha centralità teorica e pratica. 

    All’intersezione dei propri assi relazionali, le persone sono centrate su se stesse, piuttosto che nella possibilità di un percorso comune con tutti gli altri soggetti dominati. Lungo l’asse di oppressione del genere, più delle rivendicazioni di ordine materiale (salute, lavoro, abitazione ecc.) diventa centrale il tema dell’identità sessuale. L‘accento è messo sulle persone LGBTQIA+ e il movimento prende la denominazione di “transfemminismo”, facendo spazio ad ogni collocazione rispetto al genere, in un elenco a cui si aggiunge il segno + per indicare la sua potenziale espansione.  

    “Il transfemminismo è un movimento di resistenza e una teoria che considera il genere, arbitrariamente assegnato alla nascita, una costruzione sociale, strumento proprio di un sistema di potere che controlla e limita i corpi per adattarli all’ordine sociale eterosessuale e patriarcale. Il transfemminismo muove dalla materialità delle vite e delle esperienze trans, femministe e queer, dalla complessità e dalla molteplicità delle collocazioni di genere e sessuali e riconosce l’intreccio tra la matrice patriarcale e quella capitalista delle oppressioni che colpiscono tutte le soggettività che non sono maschi bianchi eterosessuali” (Dal Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne”, Nudm).

    Il background teorico è il queer, un insieme di teorizzazioni, non sempre coerenti tra loro, emerse negli anni Novanta in alcuni circoli accademici americani e diffuse nei gender studies di una pletora di cattedre universitarie di molti paesi dell’Occidente. 

    Che il genere sia socialmente costruito per finalità di dominio, è un’idea conosciuta da diversi decenni, a partire dal famoso saggio di Simone De Beauvoir sul “secondo sesso” ed anche il movimento femminista degli anni Settanta, pur senza mettere in discussione il precetto eterosessuale, criticò fortemente il modello tradizionale di “femminilità”, affermando il diritto di controllo sul proprio corpo e sulla propria sessualità. Ma il queer radicale considera il genere indipendente dal sesso biologico e lo stesso sesso biologico “imposto alla nascita”, come afferma Judith Butler, considerata l’iniziatrice di questa posizione, ipotizzando che ciascuno possa liberamente scegliere la propria caratterizzazione sessuale e la propria identità di genere. Questa posizione si è diffusa nel dibattito politico corrente sempre più estesamente, tanto che – anche in molti settori della sinistra politica – sembra impossibile poter nominare il femminismo senza aggiungere anche il “transfemminismo”, come se le donne fossero sfruttate e oppresse per ragioni di identità sessuale e non per il ruolo strutturale che rivestono nella riproduzione della società capitalistica e nella generazione della specie.

    Le istanze LGBTQIA+ e gli obiettivi storici dei movimenti femministi appartengono ad un diverso spettro politico. Certamente il femminismo marxista si schiera dalla parte delle persone che rivendicano la libertà di essere se stessi, fuori del tradizionale modello eterosessuale. Le loro lotte si sono sviluppate a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso; una data significativa è il 1969, i moti di Stonewall, per lo più ricordati come rivolta del movimento omosessuale ma in cui ebbero un ruolo determinante Sylvia Rivera e la comunità trans, che già era stata protagonista di una sollevazione anni prima a San Francisco, mentre il gruppo lesbico Lavender Menace protestava contro l’invisibilità e l’esclusione dell’esperienza lesbica dal movimento femminista maggioritario di quel periodo. Erano tempi in cui all’omosessualità maschile si applicavano “terapie di conversione”  o di “riorientamento sessuale”, oggi al bando nella gran parte dei paesi, mentre l’omosessualità femminile veniva semplicemente ignorata e occultata. Le espressioni di genere e i caratteri sessuali sono ancora oggi causa di discriminazione, esclusione sociale ed economica, perfino di violenza, in moltissimi stati del mondo. Quale azione politica la visione queer prospetta per questo movimento?

    Queer  è un termine di autonominazione, inclusivo, trasversale, che si focalizza sulla identità sessuale non in quanto realtà oggettiva ma come terreno mutevole, transitorio. Insieme di teorie e pratiche che sovvertono le regole delle opposizioni binarie (binarismo di genere, binarismo sessuale, ecc). Le teorie queer intendono la sessualità come un intreccio di sesso, genere e orientamento sessuale che viene costruita socialmente e costantemente riprodotta dai soggetti.” (Ancora dal “Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne”, Nudm)

    Anche queste teorizzazioni hanno radici nel pensiero filosofico post-moderno che – sia pure in una grande varietà di approcci ed elaborazioni – è caratterizzato dal rifiuto delle grandi ideologie otto-novecentesche, mette in discussione il presupposto della conoscenza razionale della realtà, individua nella relatività e nella provvisorietà il carattere proprio della condizione dell’essere. Di conseguenza il queer afferma l’idea che gli uomini e le donne siano il prodotto di costrutti culturali – tanto che alcuni usano mettere questi termini tra virgolette – si è uomini o donne a seconda che ci si comporti da uomini o da donne nella cornice eterosessuale. L’individuo non ha una collocazione definita rispetto al genere, in una transizione anche mutevole nel tempo, da un sesso convenzionale ad un altro. Il sesso e il genere non sono che un punto di vista soggettivo, in un rapporto di pura arbitrarietà nei confronti del reale.

    Si spiega la straordinaria importanza che viene attribuita al linguaggio. “Chi dice che esista una realtà oltre il linguaggio? Il linguaggio è la realtà!” Il linguaggio costituisce la realtà, piuttosto che essere espressione di rapporti sociali costituiti. L’idea è preesistente, la materia è sostanzialmente un effetto derivato da essa.   

    La negazione della realtà al di fuori dell’intelletto non è una novità nella storia del pensiero occidentale: il queer si presenta come una variante dell’idealismo, in vesti più aggiornate, e sarebbe un errore sottovalutarne le potenziali derive reazionarie sul piano politico. Il marxismo è nato a partire dalla critica di Marx alla filosofia idealista, che attribuiva allo Spirito il primato nella creazione del mondo e della realtà; molte volte Engels e Lenin nelle loro opere hanno dichiarato l’inconciliabilità del marxismo con l’idealismo, anche per quello che riguarda il dibattito intorno alle scienze. Il materialismo riconosce che le nostre idee sono espressione dell’interazione sociale e del nostro rapporto con la natura, della quale facciamo parte.

    Ma eliminare le categorie biologiche di donna e uomo, non elimina lo sfruttamento e i divari della realtà sociale. Focalizzarsi su un solo ambito dell’esistenza – la sessualità individuale – non comporterà azioni politiche efficaci per un cambiamento del sistema di relazioni sociali entro cui si vive, che continuerà a riprodurre i suoi meccanismi coercitivi, tutt’al più ci si potrà rifugiare in un’area a parte all’interno dello stesso sistema che si critica. La politica dell’identità pensata all’interno di questa logica ostacola la possibilità di una alleanza costruttiva tra i gruppi oppressi, necessaria alla lotta contro un capitalismo che non solo ha imposto il suo modo di organizzare il lavoro e lo sfruttamento delle risorse naturali, ha reso i corpi mezzi di produzione uniformati ad una precisa disciplina, privilegiando il maschio bianco, cisgender ed eterosessuale.  

    Il femminismo marxista non ha modelli di comportamento sessuale da indicare. Nella società che vogliamo costruire nessuno dovrà essere per forza o bianco o nero, ci sarà spazio per le molteplici espressioni della personalità umana, oggi costretta nella miserabile gabbia degli stereotipi del “maschile” e del “femminile”, come li intende la cultura patriarcalista, per produrre gerarchie sessiste funzionali al capitalismo.  

    Perciò combattiamo ogni forma di discriminazione e stigmatizzazione sociale dei soggetti che non si riconoscono nel modello eterosessuale, e siamo dalla parte di chi vive un’esistenza segnata dall’ esclusione, marginalizzazione, precarietà e dalla violenza anche mortale, come le persone LGBTQIA+ soprattutto se di origine proletaria. Alcune di loro giustamente colgono la connessione tra disuguaglianza di classe e gerarchia di status nella società contemporanea, cominciano a mettere in discussione una politica identitaria limitata all’obiettivo del riconoscimento, perché una politica dell’identità che chieda semplicemente un’estensione della democrazia liberale non può essere sufficiente che per alcune élite privilegiate, a cui già guarda un settore di costose cliniche specializzate e di case farmaceutiche che mirano ad un nuovo settore di mercato.

    Dalla battaglia identitaria a quella di classe

    Il femminismo materialista rappresenta una piccola corrente testarda in un fiume di femminismo liberale e idealista che sembra invalicabile.

    Noi chiamiamo “genere” il complesso delle qualità ideali e dei comportamenti attesi dagli uomini e dalle donne, spacciati per naturali ma instillati dall’educazione e dai modelli sociali.  In questo senso il genere è il prodotto di una relazione sociale che, nella storia, ha assunto forme diverse in seno a società differenti.  La famiglia monogamica ed eterosessuale, con la sua ripartizione di ruoli di genere, si è costituita in un momento del passato in cui la società si è divisa in classi ed è nata la proprietà privata. Questa forma di convivenza si è rivelata utile per il capitalismo, per la sua esigenza di non pagare la rigenerazione quotidiana della forza-lavoro, perché a questo provvedevano le donne, sottoposte ad un imperativo che ne faceva un corollario obbligato del compito (questo sì) naturale di produzione della specie umana. Trattandosi di riproduzione di persone e non di merci, il lavoro di riproduzione sociale comprende la cura delle menti, delle relazioni, degli equilibri psichici dei membri della famiglia, anche questo indispensabile alla conservazione della società. 

    Tuttavia il processo che scarica sulle donne l’enorme peso della riproduzione sociale non è avvenuto nell’identico modo nello spazio e nel tempo, non riguarda allo stesso modo tutte le persone, articolandosi anche secondo le linee della divisione di classe, ma in ogni luogo il principio binario si è affermato, a garanzia della gerarchia familiare e sociale.

    Nei fatti oggi, almeno nell’area occidentale, non sono pochi rispetto al passato i cambiamenti di personalità e comportamento delle donne: una conquista di libertà che spesso pagano con la vita, o con altre forme di violenza subita, quando rifiutano la soffocante dedizione totale che il ruolo tradizionale richiede. Ma il capitalismo mostra la sua flessibilità: è permesso ad una élite essere donna in un modo diverso dalle prescrizioni tradizionali, purché il problema della riproduzione sociale continui a ricadere sulla dimensione privata senza disturbare l’ordinata prosecuzione della produzione. Un alto numero di donne ha avuto accesso a lavori tradizionalmente maschili, in cambio impiegando un crescente numero di proletarie immigrate nel lavoro domestico familiare, e la cooptazione negli ambiti politico-istituzionali dello strato sociale più privilegiato ha aperto la strada all’idea riformista del possibile miglioramento della condizione femminile nell’ambito del capitalismo. Il divario di classe e di ruolo segmenta pesantemente l’omogeneità sociale della condizione di genere.

    Ma il dominio sulla grande massa delle donne è sempre al centro del sistema economico capitalistico, è radicato nella natura del mercato del lavoro salariato, forma storica dello scambio tra lavoro e mezzi di sussistenza. Diverse forme di famiglie si affiancano a quella nucleare tradizionale  – la famiglia di coppia senza figli, monoparentale, arcobaleno, single – accettate o tollerate purché svolgano il lavoro della riproduzione sociale, mentre i continui tagli della spesa pubblica smantellano il welfare e aggravano il peso del lavoro non pagato che grava su di loro. 

    Questa realtà ci spinge a misurarci con la reale condizione di vita di questa massa e con la necessità di unire tutti gli oppressi e gli sfruttati in una lotta contro il governo e il sistema capitalistico nel suo insieme. Nell’acutissima fase di crisi plurali che abbiamo davanti, questo è anche l’unico antidoto alle macellerie sociali, alle guerre, al degrado umano. 

    Ignorare la teoria della riproduzione sociale, per il femminismo significa non avere difese dall’irruzione di ideologie smobilitanti, allontanarsi dalle aspirazioni del movimento storico delle donne il quale, lottando per le sue rivendicazioni, ha sempre prodotto cambiamenti importanti nella società. 

    Resta da dire che, sul piano internazionale, le donne lottano contro la barbarie del nuovo ciclo politico globale, formalmente non affiliate ad una organizzazione femminista ma ricche di una nuova consapevolezza di sé. In questa nuova “ondata” le abbiamo viste guidare mobilitazioni contro il governo dei loro paesi, come nelle grandi manifestazioni delle indiane contro le leggi agrarie di Modi, delle americane contro il sessismo di Trump, delle afroamericane contro la polizia razzista, delle brasiliane contro il fascista Bolsonaro, delle iraniane contro l’oppressione sessista degli ayatollah. Nel sud-est asiatico le lavoratrici tessili hanno incrociato le braccia nelle fabbriche dal salario di 2 euro al giorno.  In Polonia e in America Latina ci sono state innumerevoli mobilitazioni contro l’attacco al diritto di aborto e in Tunisia, India, Algeria, Bangladesh contro femminicidi e stupri. E vediamo le sollevazioni dei popoli autoctoni del Sud del mondo, di cui sono protagoniste le donne, che si oppongono all’appropriazione delle terre da parte delle grandi imprese occidentali dell’agrobusiness e alla devastazione ambientale dello sfruttamento minerario e delle grandi opere infrastrutturali.  

    Ormai parliamo di “femminismi”, al plurale, distinti e storicamente situati.

    1. Guillaumin, Colette Sesso, razza e pratica del potere. L’idea di natura, Ombre corte 2020. Il volume raccoglie testi scritti da Colette Guillaumin tra il 1977 e il 1992, colma un vuoto esistente in Italia nel dibattito attorno al femminismo e al razzismo da un punto di vista materialista. ↩︎
    2.  La teoria essenzialista interpreta la categoria “donna” come un insieme omogeneo, la cui soggezione è la diretta conseguenza delle differenze intrinseche tra uomini e donne sul piano del modo di essere e di agire. ↩︎
  • Stati Uniti, dagli attori agli operai dell’auto, torna la lotta di classe

    Stati Uniti, dagli attori agli operai dell’auto, torna la lotta di classe

    di Dan La Botz, da internationalviewpoint.org

    L’ultimo anno ha visto un numero notevole di minacce di sciopero, scioperi e accordi di sciopero in diversi settori, dalle caffetterie alle ferrovie, da scrittori e attori a camionisti e lavoratori dell’auto. Al momento, 25.000 lavoratori del settore auto e 150.000 attori sono in sciopero.

    In questa sede ci occupiamo dello sciopero degli attori, ma prima di farlo dovremmo ricordare lo slancio che si sta gradualmente sviluppando nel movimento sindacale. I lavoratori di Starbucks si sono organizzati e hanno scioperato, e ad oggi 354 negozi con quasi 9.000 lavoratori sono sindacalizzati, ma nessuno ha ottenuto un contratto. Nell’aprile del 2022 i lavoratori di Amazon a New York hanno votato per la sindacalizzazione, ma anche loro non hanno ancora un contratto. E hanno perso le elezioni per la rappresentanza sindacale in altre strutture Amazon.

    I lavoratori delle ferrovie avevano intenzione di scioperare alla fine del 2022, ma a dicembre il presidente Joe Biden e il Congresso hanno utilizzato il Railway Labor Act per impedire lo sciopero e imporre un contratto successivamente accettato dai sindacati. Il sindacato Teamsters (dei camionisti e dei corrieri) aveva in programma di scioperare contro UPS, ma a luglio di quest’anno ha raggiunto un accordo con molti vantaggi, anche se, a causa della decisione dei dirigenti di non scioperare, non è riuscito a migliorare le condizioni di molti lavoratori part-time.

    Poi sono arrivati gli scrittori e gli attori, che hanno bloccato un’industria che impiega oltre due milioni di lavoratori di ogni tipo. Gli sceneggiatori hanno scioperato a maggio e gli attori si sono uniti a loro nei picchetti a luglio, il primo blocco dell’industria in oltre 60 anni. Stavano colpendo alcune delle aziende più potenti d’America. I datori di lavoro, l’Alliance of Motion Picture and Television Producers, rappresentano i principali studi cinematografici come Paramount, Sony, Universal, Disney e Warner Brothers, le principali reti televisive (tra cui ABC, CBS, FOX e NBC), i servizi di streaming come Netflix, Apple TV+ e Amazon, nonché alcune società via cavo.

    Entrambi i sindacati rispondono ai cambiamenti del settore con l’aumento dei servizi di streaming, cresciuti in modo fenomenale durante il COVID. Sono anche preoccupati per i rapidi sviluppi dell’intelligenza artificiale (AI) che hanno minacciato sia gli sceneggiatori che gli attori.

    Tutto questo ha portato a una maggiore determinazione. Circa 11.000 scrittori di film, televisione, notiziari, radio e online hanno ottenuto un’importante vittoria dopo 148 giorni di sciopero. Con l’industria alla disperata ricerca di nuovi spettacoli online e nelle sale cinematografiche, i lavoratori hanno ottenuto garanzie di lavoro e retribuzioni più elevate. Hanno anche ottenuto la garanzia di non essere sostituiti da ChatGPT. Ma circa 150.000 attori televisivi e cinematografici, che hanno scioperato a maggio, sono ancora in sciopero.

    Una grande preoccupazione degli attori è quella di essere sostituiti da “sosia digitali”. Lo studio può chiedere a un attore di entrare nella “sfera”, ovvero la cabina di fotogrammetria dove centinaia di telecamere registrano la sua immagine mentre assume diverse espressioni e pose. Una volta scattate le foto, come spiega Scientific American, “gli artisti degli effetti visivi (VFX) portano il modello da bidimensionale a tridimensionale”. L’immagine tridimensionale viene quindi collegata a uno “scheletro” visivo mosso da un attore o da un’animazione e collocato sullo sfondo appropriato. Gli studios potrebbero non aver bisogno di attori, anche se potrebbero comunque volere un bel viso.

    Gli attori in sciopero sono stati incoraggiati dall’accordo con gli sceneggiatori, ma lo sciopero è stato molto lungo. Alcuni sceneggiatori hanno continuato a marciare sui picchetti con loro, così come alcuni lavoratori ospedalieri in sciopero. Sia gli attori che i lavoratori dell’auto hanno fatto picchetti davanti agli uffici della HBO e di Amazon a Manhattan. Per entrambi i sindacati sarà una lotta dura. La lotta di classe è tornata e, anche se finora i risultati sono stati contrastanti, le azioni di questi lavoratori rappresentano un cambiamento epocale nella società americana.

    • Ecosocialismo, una strategia anticapitalista

      Ecosocialismo, una strategia anticapitalista

      Oggi la parola ecosocialismo è abbastanza inflazionata, usata dalla autodefinitasi “sinistra” semplicemente per accostare difesa dell’ambiente e diritti sociali e darsi un aspetto più presentabile e attuale. Viceversa è un compito fondamentale della fase definire cosa intendere e come tradurre in pratica politica l’ecosocialismo. 

      La parola “ecosocialismo” fu introdotta per la prima volta nel 1975 da Joel de Rosnay che ne dette la seguente definizione: “convergenza delle politiche economiche e sociali verso la protezione dell’ambiente“, si sosteneva, cioè, che la protezione dell’ambiente dovesse divenire un’azione collettiva e coordinata; questo perché precedentemente il rapporto individuo ambiente veniva visto dalle teorie più avanzate come il naturismo e dall’ecosofia, come rapporto interiore ed individuale. 

      Successivamente, l’opera dei grandi teorici quali Grosz, O’Connor, Bahro diede all’ecosocialismo una veste politica compiuta ed è prevalsa l’idea che per ecosocialismo dovesse intendersi l’affrontare le questioni ambientali in un’ottica socialista, usando cioè gli strumenti teorici del marxismo e le pratiche del movimento di classe. 

      Questa definizione, però, non è più attuale perché i 50 anni trascorsi valgono una intera era geologica. Oggi per ecosocialismo deve, invece, intendersi la strategia del superamento del capitalismo. “Le crisi del nostro tempo possono e devono essere intese come opportunità rivoluzionarie che dobbiamo coltivare veniva detto nel Manifesto dell’ecosocialismo di Kovel e Lowy.

      Negli ultimi decenni la scienza ha descritto quello che sta succedendo in termini globali a causa dell’aumento della concentrazione dei gas serra nell’atmosfera, dallo scioglimento delle calotte polari, alla desertificazione di aree agricole importanti, all’aumento della frequenza e dell’intensità di eventi metereologici catastrofici, all’innalzamento del livello del mare, alle modifiche della circolazione termoalinica degli oceani, alle ondate di calore anomale, alla scomparsa di un numero elevatissimo di specie biologiche che ha fatto introdurre il termine di sesta estinzione di massa. Nel contempo, l’inquinamento dell’aria, dell’acqua e della terra  ha invaso ogni angolo del pianeta.

      L’allarme dato dalla comunità scientifica per far ridurre il consumi dei carburanti fossili è rimasto inascoltato dalle istituzioni politiche nazionali ed internazionali che non hanno voluto né potuto mettere un freno agli interessi della crescita produttiva del sistema mondo. Il movimento ecologista da Seattle in poi ha incontrato quello anticapitalista nei forum sociali mondiali ed in grandi mobilitazioni transnazionali. D’altro canto, nell’Occidente più avanzato, la critica al produttivismo, alla rincorsa del PIL, la critica a stili di vita incompatibili con l’ambiente ha portato alla formulazione di progetti decrescisti, necessariamente anticapitalisti.

      Oggi, dopo i risultati nulli delle COP, dopo il fallimento dei programmi di greenwashing, l’ecosocialismo diventa l’unica soluzione per un futuro vivibile. Il fallimento del capitalismo, responsabile dei quotidiani disastri ecologici è sotto gli occhi di tutti, e la prospettiva di cambiamento globale del sistema mondo non è più frutto di approfondite analisi sociologiche di studiosi, ma è diventato buon senso della gente comune. L’anticapitalismo potrebbe, anzi dovrebbe, diventare il tema organizzativo centrale di un nuovo buonsenso, scrive Nancy Fraser.

      Mentre nel secolo scorso il socialismo era visto come una prospettiva di riscatto delle classi oppresse, oggi il socialismo diventa l’unica alternativa di sopravvivenza della società umana.

      Mentre fino a prima di Parigi 2015, l’ecosocialismo poteva intendersi come coniugare diritti sociali, lavoro ed ambiente, affrontare i problemi ambientali in un’ottica di sinistra, oggi per ecosocialismo deve intendersi trovare una strategia di rivoluzione anticapitalista e progettare un’alternativa compatibile con i limiti dell’ambiente. Oggi ecosocialismo deve intendersi, contemporaneamente come modo di produzione postcapitalistico, come prospettiva culturale di un diverso rapporto tra gli individui e la biosfera, come idea politica di democrazia dal basso che superi la democrazia rappresentativa. 

      Infine ecosocialismo deve essere inteso come visione geopolitica per un rapporto tra i popoli gestito globalmente in modo paritario. Oggi il 10% più ricco del mondo rappresenta la metà delle emissioni globali di carbonio (IEA). Infatti, nel 2021 il 10% più ricco ha prodotto in media 22 tonnellate di CO2 pro capite, oltre 200 volte il 10% più povero: la giustizia climatica inizia dalla correzione di questa scandalosa disuguaglianza socioeconomica e i lavoratori e le lavoratrici, i salariati sfruttati del mondo sono ancora il motore sociale di questa necessaria trasformazione. 

      Oggi rispetto a solo qualche decennio fa, la situazione dei cambiamenti globali è peggiorata moltissimo; non è più possibile parlare di baratro che si avvicina, perché nel baratro ci siamo già, ma gli incendi, le inondazioni, le ondate di calore, l’estinzione di specie, la siccità, gli eventi estremi che stiamo vivendo saranno poca cosa rispetto a quello che si prospetta se non si cambia sistema. 

      Già oggi i danni prodotti dai cambiamenti climatici difficilmente trovano risorse finanziarie pubbliche per essere riparati. Come sempre, il capitale tenta di adattarsi alla nuova situazione e crescono gli interessi della finanza assicurativa per coprire i danni prodotti dalle catastrofi, della sanità privata per porre rimedi ai danni alla salute prodotti dagli inquinanti, dei gestori dei Canadair usati per bloccare gli incendi, delle multinazionali dell’acqua che, meno disponibile, diventa più cara. Il capitale guarda all’immediato, non si pone il problema di quando non sarà più possibile trovare risorse finanziarie per affrontare tali problemi.

      Naturalmente gli anticapitalisti non devono limitarsi a gridare a lupo, al lupo, ma devono elaborare una strategia di superamento del capitalismo che faccia i conti con i tempi residui della crisi planetaria: la cosa è tutt’altro che semplice, ma deve essere questo il senso dell’anticapitalismo oggi. Le difficoltà sono enormi e il compito al limite del possibile. 

      In questa strategia un posto fondamentale spetta alla classe dei lavoratori. I movimenti sindacali e i movimenti per il clima devono convergere contro i governi neoliberisti e i regimi autocratici. Il sindacalismo deve finalmente fare i conti con i vincoli ecologici. Un nuovo sindacalismo verde deve prendere il posto delle vecchie burocrazie socialdemocratiche e imprenditoriali e aprire una nuova stagione conflittuale dove siano i lavoratori e le lavoratrici a pretendere non solo la bonifica ecologica dei loro luoghi di lavoro, ma anche la radicale messa in discussione di ciò che producono, di quanto e come lo fanno.

      Pretendere la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, il reddito minimo garantito, la nazionalizzazione delle compagnie energetiche ed il controllo pubblico delle risorse strategiche: il nuovo sindacalismo deve promuovere un’agenda occupazionale basata sulla conversione dell’industria fossile e la massimizzazione dei lavori verdi: il risanamento ambientale, educativo e sanitario è destinato a richiedere grandi quantità di lavoro sociale, immense opportunità occupazionali nella prospettiva della difesa delle popolazioni dagli effetti dei cambiamenti climatici.

      In questo contesto, ogni vertenza ecologista locale, ogni battaglia che può sembrare minore, deve inserirsi nel contesto generale di progetto anticapitalista. Le battaglie nazionali in difesa dell’acqua pubblica, del mare pulito, del rifiuto del fossile devono collegarsi a livello planetario. La strategia complessiva può essere quella di tenere insieme le diverse contraddizioni, prospettando da subito l’alternativa complessiva.

      Il tema della rivolta deve essere centrale: rivolta significa mobilitazione che chiede gli stessi diritti per tutti, uomini e donne, superando contemporaneamente patriarcato e capitalismo; che chiede una riscrittura costituzionale dove al valore di scambio si sostituisca il valore d’uso, dove si favoriscano i beni comuni contro l’accaparramento del profitto, dove venga incentivata la democrazia dal basso, dove non ci siano sperequazioni in base all’orientamento sessuale, alla religione, all’etnia, dove vengano tassati i patrimoni, dove vengano cancellate le spese militari.

      Come mettere in moto questo movimento? Purtroppo si deve iniziare da zero o da sottozero per i guasti prodotti dalla sedicente sinistra, ma l’occasione dell’insostenibilità dei cambiamenti climatici può essere, se viene centrato come tema unificante, il grimaldello per aprire la strada al cambiamento di sistema.

      Bisogna tener presente che questa è una battaglia che si combatte contro i capitalisti, ma non solo. Non è certamente facile convincere le masse alla necessità di cambiare stile di vita, limitando i consumi, la mobilità, l’energia.

      È già ampio e si va ingrandendo il fronte dei negazionisti. Le destre, soprattutto le estreme, usano l’ignoranza e l’irrazionalità diffusa per accreditarsi ad essere chi vuole salvaguardare l’attuale normalità dai “sapientini”, uccelli del malaugurio. Si inventeranno complotti, metteranno in campo qualche vecchio scienziato rincitrullito per dire che la scienza è contraddittoria e che c’è chi vuole limitare le libertà individuali.

      Sono dinamiche conosciute che bisogna saper affrontare. Già si vede che il partito degli allevatori intensivi olandese aumenta i consensi, che sovranisti alla Bolsonaro fanno campagne elettorali per espandere la produzione di carburanti fossili. 

      Ma, se si pone l’obiettivo del superamento del capitalismo, bisogna riempire di contenuti concreti la transizione ad un sistema mondo nello stesso tempo socialista ed ecocompatibile. Soggetto che apre una discussione difficile e urgente, ma alla quale, dobbiamo dire la verità, siamo ancora impreparati.

      Questo non è più il tema della città del sole, della futura umanità, del sol dell’avvenire, tema da riempire di giustizia, verità ed eguaglianza; è il tema della compatibilità ambientale, da riempire con giustizia, verità, eguaglianza ma anche con scienza, soluzioni tecnologiche adeguate, consapevolezza e, soprattutto, razionalità adeguata.

    • Tax Justice Network, la fuga nei paradisi fiscali ruba 5.000 miliardi di dollari in 10 anni

      Tax Justice Network, la fuga nei paradisi fiscali ruba 5.000 miliardi di dollari in 10 anni

      di Fabrizio Ortu, da fiscooggi.it, rivista online dell’Agenzia delle Entrate

      Il nuovo report dell’organizzazione promuove un appello per l’approvazione di una Convenzione fiscale delle Nazioni Unite

      Tax havens 2023

      I contribuenti che si servono dei paradisi fiscali per sfuggire al fisco causeranno una perdita complessiva di 5.000 miliardi di dollari Usa di entrate a livello mondiale nei prossimi 10 anni: una perdita di gettito equivalente alla intera spesa sanitaria pubblica nel mondo in un anno.

      Sono queste le conclusioni a cui approda il report di Tax Justice Network pubblicato a luglio. Come invertire la tendenza? L’organizzazione promuove un appello a favore dell’avvio dei negoziati per l’approvazione di una Convenzione Fiscale delle Nazioni Unite presso l’Assemblea generale (vedi l’articolo su Fisco Oggi “Onu: avanza la proposta africana di un Convenzione globale sulla tassazione”).

      Il documento dedica, inoltre, un’attenzione specifica al rapporto fra multinazionali e paradisi fiscali (o Tax Haven), all’asse costituito dal cosiddetto “Secondo Impero” del Regno Unito e all’attuale ruolo rivestito dall’Ocse.

      Il ruolo delle multinazionali

      I Tax Haven consentono di sottrarre alle giurisdizioni nazionali ben 480 miliardi di dollari ogni anno. Secondo il Tax Justice Network di questa cifra complessiva, 301 miliardi di dollari sono attribuiti alle multinazionali che dirottano i profitti verso i paradisi fiscali e 171 miliardi sono riconducibili alle persone abbienti che nascondono la ricchezza offshore.

      La frana della sanità pubblica nei paesi a basso reddito

      Il report si dedica in particolar modo ad esaminare l’impatto potenziale sulla spesa sanitaria della fuga verso i paradisi fiscali. Se le perdite stimate dai paesi ad alto reddito (426 miliardi di dollari all’anno) equivalgono secondo Tax Justice Network al 9,3% dei bilanci sanitari degli stati più floridi, nel caso dei paesi a basso reddito il decremento delle entrate fiscali (47 miliardi di dollari all’anno) corrisponde al 49% dei bilanci sanitari pubblici. La perdita di gettito si concentra in termini quantitativi nei paesi ad alto reddito, ma sono i paesi a basso reddito a subire il danno maggiore. “I paesi a reddito più basso – si legge nelle conclusioni del rapporto – subiscono le perdite più intense, perdendo di gran lunga le maggiori parte delle loro attuali entrate fiscali”.

      Il “Secondo Impero” del Regno Unito

      Il documento non si limita a conclusioni di tipo generale, ma ad esempio pone sul banco degli imputati il Regno Unito e la sua rete di Territori d’oltremare e di dipendenze della Corona, accusati di costituire “l’asse più ampio dell’elusione fiscale”. Un asse che coinvolgerebbe da una parte il cosiddetto “Secondo Impero” del Regno Unito e dell’altra i Paesi Bassi, il Lussemburgo e la Svizzera. “Il Secondo Impero – si può leggere a pagina 39 del documento – è responsabile per quasi la metà delle perdite fiscali, stimate in 171 miliardi a livello globale, dovute all’evasione fiscale offshore. Per una somma che si aggira intorno agli 85 miliardi di dollari statunitensi”.

      Dall’Ocse all’Onu?

      Il report di Tax Justice Network esamina i risultati ottenuti dall’Ocse negli ultimi decenni e auspica un nuovo ruolo nel contrasto all’evasione internazionale offshore per l’Onu. Secondo TJN il processo Beps (Base Erosion and Profit Shifting), dal 2013 al 2015 “non è riuscito a garantire una riduzione significativa dell’abuso globale e ha reso necessario Il secondo processo di riforma BEPS 2.0 […], che finora ha prodotto solo bozze di proposte politiche”. Alla luce di queste valutazioni il Network per la giustizia fiscale esorta gli stati a sostenere il trasferimento della leadership sulla tassazione globale dall’Ocse alle Nazioni Unite e a “votare nel prossimo inverno l’avvio dei negoziati per giungere all’approvazione di una convenzione fiscale Onu per evitare la sottrazione alle amministrazioni finanziarie di cifre astronomiche”

    • Francia, tutte/i in piazza il 23 settembre contro la violenza della polizia, il razzismo e l’islamofobia

      Francia, tutte/i in piazza il 23 settembre contro la violenza della polizia, il razzismo e l’islamofobia

      Comunicato del Nouveau Parti Anticapitaliste (NPA)

      La morte di Nahel Merzouk si aggiunge alla fin troppo lunga lista di crimini commessi dalla polizia. Due settimane dopo la morte di Alhoussein Camara, passata sotto i riflettori dei media, la morte di Nahel è stata filmata in diretta. Quel video ha contribuito a mettere in discussione la versione dei fatti fornita dalla polizia.

      Ma quante morti di Nahel non sono state filmate? Quante sono le morti sospette in carcere? Come quella di Alassane Sangaré, morto il 24 novembre 2022, cinque giorni dopo la sua incarcerazione.

      Quante vite sono state spezzate da un sistema giudiziario rapido per reati minori, o per nessun reato? Come le oltre 1.000 persone condannate al carcere dopo le rivolte seguite alla morte di Nahel.

      Dietro queste morti, quante umiliazioni e violenze quotidiane della polizia subiscono i giovani razzializzati dei quartieri popolari? E se Darmanin soffoca queste semplici parole, di certo non ha ancora il fiato corto. Si tratta di una vera e propria violenza di stato, resa possibile da un razzismo sistemico che deve essere combattuto con urgenza.

      Polizia razzista

      Non ci sono dubbi sulla portata del razzismo nelle forze di polizia di oggi: il 70% degli agenti vota per la Rassemblement National di Mariene Le Pen e la retorica razzista permea le interazioni con il pubblico e le dichiarazioni ufficiali dei sindacati filogovernativi. È il caso del comunicato stampa di Alliance e dell’Unsa Polizia che si congratula con i “colleghi che hanno aperto il fuoco contro un criminale di 17 anni” e descrive i giovani dei quartieri come “parassiti” e “orde selvagge”

      Sia chiaro: un’istituzione che ha il compito di mantenere l’ordine sociale e il cui peso aumenta in tempi di crisi politica, incoraggerà e proteggerà sempre il razzismo e la violenza che perpetua. Ma questa impunità della polizia è resa possibile dal razzismo che permea l’intera società francese e le sue istituzioni, portando al degrado materiale e simbolico di una parte della popolazione e legittimando l’omicidio di un 17enne.

      Disarmare la polizia

      È quindi urgente disarmare la polizia e affrontare di petto il razzismo sistemico. Da questo punto di vista, il fronte sociale e politico sorto in seguito all’omicidio di Nahel è salutare. Sabato 23 settembre saremo di nuovo in piazza contro “la repressione della protesta sociale democratica ed ecologica, per la fine del razzismo sistemico e della violenza della polizia, per la giustizia sociale climatica e femminista e per le libertà civili”.

      Chiederemo inoltre il disarmo della polizia quando entra in contatto con la popolazione, l’amnistia per coloro che sono stati arrestati durante le rivolte e affermeremo la nostra solidarietà con coloro che stanno subendo le misure razziste di questo governo, in primo luogo le donne musulmane che sono discriminate a causa del loro abbigliamento.

      Basta con il razzismo e l’islamofobia!

      Il 3 dicembre 1983, oltre 100.000 persone hanno manifestato a Parigi per accogliere la marcia per l’uguaglianza e contro il razzismo. Le loro richieste comprendevano un permesso di soggiorno e di lavoro valido per dieci anni, una legge contro i crimini razzisti e il diritto di voto degli stranieri alle elezioni locali.

      A 40 anni di distanza, vogliamo ricollegarci a questa storia. Il 23 settembre deve anche vedere la nascita di un ampio movimento politico antirazzista che rifiuti sia il razzismo che l’islamofobia. Il divieto dell’abaya e del qamis fa parte di questa escalation, con la polizia che staziona all’ingresso delle scuole secondarie per discriminare gli alunni razzializzati e musulmani. Il 23 settembre saremo in piazza per mostrare la nostra solidarietà con le persone razzializzate e il nostro sostegno ai musulmani.

    • Francia, costruire l’alternativa, ma come?

      Francia, costruire l’alternativa, ma come?

      Il 2 luglio si è tenuto a Parigi un forum politico nazionale intitolato “Organizzarsi per costruire l’alternativa”, annunciato da un appello firmato da 400 attivisti della sinistra radicale. Avviato da membri di Ensemble!, dell’NPA e di Rejoignons-nous, oltre che da attivisti dei movimenti sociali, l’obiettivo del forum era quello di “costruire, a lungo termine, una nuova forza democratica e pluralista per la giustizia, l’uguaglianza e la democrazia”, e l’incontro del 2 luglio costituiva “una prima tappa che dovrebbe permetterci di discutere insieme i contorni di una nuova organizzazione da costruire”.
      La rivista Contretemps ha parlato con Florence Ciaravola, membro del coordinamento nazionale di Ensemble!, Fabien Marcot, membro del gruppo di coordinamento di Rejoignons-nous, e Pauline Salingue, portavoce dell’NPA, gli attivisti che hanno contribuito a introdurre il forum, oltre a Omar Slaouti, attivista dei quartieri popolari che però non ha potuto partecipare all’intervista collettiva.
      Le domande emerse dalla discussione collettiva della redazione di Contretemps riguardano gli obiettivi, le prospettive e il seguito del forum, la situazione sociale e politica in cui si è svolto – in particolare le recenti rivolte urbane – e le questioni, i dibattiti e le scelte strategiche sollevate dal processo politico avviato da questo incontro. La discussione è stata raccolta dal gruppo di lavoro in un testo unitario. Qui di seguito riproduciamo l’intervista.

      Voi tutti avete partecipato al forum nazionale “Organizzarsi per costruire l’alternativa” del 2 luglio 2023 a Parigi. Potete dirci perché avete partecipato, come singoli e come militanti della vostra organizzazione? E potreste spiegarci gli obiettivi di questo forum, in relazione alla vostra analisi del momento sociale e politico che stiamo vivendo?

      Fabien Marcot: Promettere di riformare le istituzioni, denunciare le “discriminazioni” nei controlli di polizia… nel 2017, Macron ha promesso di essere un presidente “liberale“, in senso economico ma anche democratico e culturale. Che truffa! Sei anni dopo, è il presidente che ha approvato leggi eccezionali contro i musulmani. È il presidente dello scioglimento dei Soulèvements de la Terre, della repressione e della criminalizzazione sempre più violenta delle lotte. È il presidente dell’uso di tutte le disposizioni più autoritarie della Quinta Repubblica e di una crescente privazione delle nostre libertà (legge sul separatismo, legge sulla sicurezza globale, ecc.). È il presidente dell’impoverimento di tutti, tranne dei più ricchi, i cui profitti sono in aumento. Alla fine, tutto ciò che resta del liberalismo è un implacabile liberismo economico. E Macron avrà contribuito più di ogni altro a preparare il terreno per il fascismo in ascesa, che è senza dubbio il pericolo più immediato che corriamo.

      Di fronte a questa politica, milioni di persone sono scese in piazza: gilet gialli, manifestazioni antirazziste, manifestazioni per il clima, contro la riforma delle pensioni, manifestazioni femministe… Soprattutto tra i giovani, il rifiuto di questo sistema capitalista, patriarcale, razzista, imperialista, ecocida, razzista e contro i disabili è estremamente forte. Ma nessuna organizzazione politica sembra riuscire a raccogliere queste idee e a rendere percepibile una vera alternativa, nonostante l’urgenza della situazione.

      Questa è l’analisi che facciamo a Rejoignons-nous da quando è stata fondata tre anni fa, e da allora non abbiamo mai smesso di discutere e organizzare incontri pubblici per porre qualche modesta pietra nella costruzione di questa alternativa. Ci ha fatto quindi molto piacere che l’idea di questo forum sia stata condivisa dall’NPA e da Ensemble! perché è un primo passo, per quanto modesto, per iniziare a lavorare insieme e – soprattutto – al di là delle nostre fila.

      L’obiettivo di questo forum era innanzitutto quello di dare un primo impulso, di verificare che, nonostante le differenze strategiche del passato, attivisti di diversa provenienza (del movimento sociale, dell’NPA, di Ensemble, di Rejoignons-nous, ma anche attivisti di altre organizzazioni, ex membri della France Insoumise, ecc.) volessero lavorare insieme per costruire una nuova forza politica e condividessero la stessa analisi della situazione. E da questo punto di vista, è un primo passo che getta buone basi, anche se ovviamente tutto resta da fare!

      Pauline Salingue: L’NPA e io abbiamo deciso di organizzare questo forum perché siamo convinti che migliaia di attivisti anticapitalisti siano privi di un partito politico deciso a rompere con il capitalismo e con le istituzioni che garantiscono il dominio della grande borghesia, comprendendo al contempo che è necessario riunire e unire gli sfruttati e gli oppressi per affrontare la controparte. Siamo uniti e rivoluzionari e vogliamo, in modo aperto e trasparente, discutere la costruzione di una nuova forza che risponda a questi obiettivi.

      In termini concreti e immediati, possiamo constatare che la situazione manca di uno strumento. Uno strumento militante, basato nei luoghi di lavoro, nei quartieri e nei piccoli centri, che ci permetta di prendere iniziative per cambiare l’equilibrio sociale e politico del potere su base quotidiana. Questo mancava durante la mobilitazione contro la riforma delle pensioni. Manca oggi con la rivolta dei giovani nei quartieri popolari.

      Per raggiungere questo obiettivo, dobbiamo rompere con l’idea dominante a sinistra che la piazza sia affare dei sindacati e che la politica sia essenzialmente una questione di istituzioni. Questa divisione del lavoro ha profondamente frenato la mobilitazione storica a cui abbiamo appena assistito. Di fronte a una borghesia radicalizzata, con un’estrema destra alle porte del potere, gli scontri sociali si moltiplicheranno, anche se in forme diverse, come abbiamo visto negli ultimi anni (Gilets Jaunes, scioperi di massa, rivolte di quartiere…). Avremo bisogno di una forza politica che aiuti i lavoratori e i giovani a irrompere sulla scena politica organizzandosi da e per se stessi, in particolare sviluppando quadri di auto-organizzazione. Non una forza che “diriga” le masse dall’esterno, ma che agisca da facilitatore, da strumento collettivo, da accumulatore di esperienze e che sia in grado di prendere iniziative quando la situazione politica accelera e affronta possibili biforcazioni, in relazione a un progetto strategico rivoluzionario, per la presa del potere da parte degli sfruttati e degli oppressi.

      Florence Ciaravola: Siamo di fronte a una crisi globale e multidimensionale (sociale, ecologica, economica, democratica, geostrategica, ecc.). Il mondo capitalista e le sue modalità di dominio sono sempre più violente, le disuguaglianze aumentano e la minaccia neofascista diventa sempre più chiara. Le lotte e le mobilitazioni sono essenziali, ma abbiamo anche bisogno di uno strumento politico che rifletta le nostre aspirazioni e incarni un progetto alternativo anticapitalista che sia allo stesso tempo ecologico, autogestionario, sociale, femminista, antiglobalizzazione e antirazzista.

      L’Assemblea Generale di Ensemble! del novembre 2022 ha convalidato un orientamento politico che combina un fronte politico-sociale della sinistra e degli ecologisti da un lato (da qui la nostra partecipazione alla costruzione e all’ancoraggio popolare della NUPES), e dall’altro il superamento di Ensemble! in una nuova forza politica della sinistra alternativa. Il processo iniziato con Rejoignons-nous e con il NPA è legato all’obiettivo di questa nuova forza: per questo ne facciamo parte.

      Il gruppo di discussione nato dal forum ha pubblicato un primo testo intitolato “Contro i crimini della polizia e la violenza dello Stato, solidarietà con la rivolta dei giovani e dei quartieri popolari”. Qual è la vostra comprensione di queste rivolte tra i giovani e nei quartieri popolari? Quanto è stato importante questo tema durante il forum e cosa è stato detto al riguardo? E come vedete le reazioni e le posizioni del resto della sinistra sociale e politica negli ultimi giorni?

      Florence Ciaravola: La rivolta dei giovani e dei quartieri popolari è più che legittima e siamo pienamente d’accordo con il testo uscito dal forum del 2 luglio. Questa rivolta era molto presente nelle menti e nei discorsi dei partecipanti al forum. Per quanto riguarda le reazioni a sinistra, sono state varie e spesso diverse dalle nostre. Questo non fa che confermare la specificità del nostro progetto e la necessità di un tale progetto, che non ci impedisce di partecipare a iniziative unitarie, con altri e a partire dalle associazioni presenti nei quartieri popolari che lottano contro la discriminazione e la violenza della polizia.

      La morte di Nahel segue una lunga serie di omicidi di giovani razzializzati nei quartieri popolari e un aumento della violenza della polizia. A ciò si aggiungono l’abbandono dei quartieri popolari, l’arretramento dei diritti e delle libertà, il vero e proprio razzismo assunto da tutti i partiti di destra e talvolta anche oltre, e la contaminazione del campo politico e mediatico con idee fasciste e razziste. Fortunatamente, questo processo di fascistizzazione è ben lungi dall’essersi diffuso in tutta la società: i principi di solidarietà e di uguaglianza rimangono importanti nella popolazione e le disuguaglianze, le ingiustizie e le discriminazioni sono sempre meno tollerate, soprattutto tra i giovani. Questi sono punti di appoggio fondamentali per le campagne antifasciste e antirazziste.

      Fabien Marcot: La morte di Nahel, dopo quelle di Nordine e Meryl, Amine, Ali, Adama, Alhoussein, Maïcol, Wissam, Lamine, Olivio, Sabri, Yanis, Raihane, Zineb, Liu, Rémi, Steve, Cédric, Rayana, Malik Oussekine e tanti altri, ricorda tragicamente, se ce ne fosse bisogno, che la polizia uccide. E uccide soprattutto coloro che percepisce come arabi o neri. È molto positivo che la prima dichiarazione pubblica del forum sia stata questo testo, che ritengo molto corretto.

      In effetti, questo tema è stato onnipresente durante le discussioni. Il fatto che il forum si sia svolto nel bel mezzo di una rivolta nei quartieri dopo l’omicidio di Nahel ha ovviamente influito. Ma a Rejoignons-nous avevamo già potuto constatare da diversi anni, durante i dibattiti pubblici che avevamo organizzato in presenza di attivisti dell’NPA e di Ensemble, che c’era un accordo abbastanza ampio sul fatto che la sinistra radicale si era sbagliata per molto tempo sul ruolo degli attivisti di quartiere. Sulla questione del razzismo e dell’islamofobia. Sul fatto che le organizzazioni di sinistra, anche quelle radicali, spesso riproducono al loro interno gli stessi meccanismi di dominio del resto della società.

      Per quanto riguarda le rivolte nei quartieri, nel complesso la sinistra ha reagito un po’ meglio rispetto al 2005, anche se c’è ancora molta strada da fare. Mélenchon sta dicendo qualcosa di radicalmente diverso. I Verdi dell’EELV e il PS stanno dicendo meno sciocchezze ora che i loro rappresentanti più a destra hanno smorzato i toni, ma non siamo immuni da contraccolpi. Quanto a Fabien Roussel del PCF, probabilmente preferisce il sindacato di polizia fascista Alliance alle rivolte dei quartieri, anche se non è chiaro se questo sia il risultato di un’analisi politica o di una stucchevole competizione elettorale con LFI. In ogni caso, il risultato è lo stesso. Alla fine, è importante che la sinistra abbia una linea chiara di sostegno alle persone che vivono nei quartieri, al disarmo della polizia a contatto con la gente, al controllo democratico che sostituisca l’Ispettorato interno alla polizia… E in generale, al sostegno alle rivolte passate, presenti e future, perché non è ancora finita.

      Pauline Salingue: Il forum si è svolto nel cuore della rivolta e nel mezzo di un’ondata di repressione poliziesca e giudiziaria. Era quindi inevitabile che questo fosse il fulcro delle nostre discussioni. Anche se c’è ancora molta strada da fare, è una buona cosa, una prima prova, essere riusciti a prendere una posizione comune. Anche se il passaggio dal posizionamento all’azione è ancora da fare, questa è una delle maggiori difficoltà che la sinistra radicale deve affrontare oggi.

      In molte città e quartieri, i giovani sono sottoposti quotidianamente alla violenza della polizia e a una forma di razzismo di stato. La storia e il passato coloniale della Francia hanno molto a che fare con questo fenomeno. La polizia francese è un’istituzione che trasmette quotidianamente questo razzismo. Se a questo si aggiunge la svolta autoritaria del potere, in una situazione in cui le classi dominanti cercano di mantenere il loro dominio economico e politico a nostre spese, si ottiene un cocktail estremamente pericoloso. È tutto parte integrante della dinamica fascista che caratterizza l’attuale fase del capitalismo.

      A livello nazionale, nella maggior parte delle città, la sinistra sta lottando per prendere piede nel movimento di protesta contro la violenza della polizia e il razzismo sistemico. Ma ha già fatto meglio che nel 2005. Stanno emergendo quadri unitari, con posizioni che sarebbero state inconcepibili 20 anni fa. Anche se c’è ancora molto da fare, la più ampia comprensione delle forme che assume il razzismo istituzionale, e in particolare il ruolo dell’islamofobia, significa che si possono trovare modi per unire coloro che si oppongono a questo sistema. Ciò è rafforzato anche dalla massiccia repressione del movimento sociale dopo la legge sul lavoro del 2016, la morte di Rémi Fraisse, i feriti e i mutilati dei Gilets Jaunes, Sainte-Soline… I quartieri sono laboratori di violenza poliziesca e di repressione giudiziaria che si stanno estendendo a tutta la società.

      Infine, per dirla in tutta franchezza, c’è un passivo pregresso tra le forze politiche della sinistra radicale (non mi soffermerò sull’eredità ancora più grande con la sinistra di governo, che non è il mio argomento) e i movimenti e le associazioni dei quartieri popolari. Non siamo stati all’altezza di affrontare la natura sistemica e la portata degli attacchi legati al razzismo e alla violenza – in breve, l’intera dimensione coloniale – che gli abitanti dei quartieri popolari hanno dovuto affrontare. E non siamo stati all’altezza del coraggio e della forza degli attivisti di questi quartieri.

      Siamo stati spesso pusillanimi, persino paternalisti, nelle nostre relazioni con questi movimenti. Spesso li abbiamo lasciati in mezzo alla strada. C’è quindi molto da ascoltare e da imparare nelle organizzazioni politiche, con loro, in modo da poter lavorare e fare campagne insieme con fiducia e costruire esperienze condivise nelle campagne.

      Su cos’altro si sono concentrate le discussioni della giornata? Secondo voi, ci sono stati elementi salienti e politicamente importanti di accordo in questi dibattiti? E, al contrario, alcune questioni sono state identificate come causa di dissenso tra i partecipanti, o anche tra le componenti che hanno dato vita al forum?

      Florence Ciaravola: Lo svolgimento del forum prima dei forum locali e in un solo giorno ha limitato fortemente la portata e la profondità delle discussioni. Tuttavia, le discussioni sono state ricche. Le discussioni di gruppo sono state molto apprezzate, perché hanno permesso al maggior numero possibile di persone di esprimersi.

      Alcuni oratori hanno sottolineato la necessità di un dibattito più approfondito: la questione sociale è ancora prioritaria o si intreccia con il femminismo, l’ecologia, l’antirazzismo e la solidarietà internazionale? Siamo davvero all’altezza della sfida della rivoluzione femminista globale e dell’emergenza eco-climatica? La nuova forza politica deve necessariamente assumere la forma di un partito o sono possibili altre forme, come discusso all’interno di Ensemble! (movimento, partito-movimento, ecc.)? La prostituzione costituisce un lavoro sessuale o uno sfruttamento inaccettabile da un punto di vista femminista e alter-globalista? Non è certo che queste domande separino le varie componenti del forum; forse attraversano più ampiamente la sinistra alternativa…

      Pauline Salingue: L’importanza della solidarietà internazionalista, il progetto e le pratiche femministe, l’apporto teorico dell’ecosocialismo, la difesa delle libertà pubbliche, l’urgenza dell’antifascismo e dell’antirazzismo sono tutti elementi sui quali sembriamo concordare. Il rinnovamento delle pratiche politiche basate sui movimenti sociali, l’allargamento e il consolidamento della base sociale necessaria per costruire una nuova organizzazione politica sono stati al centro delle discussioni. Ma al di là di questo accordo teorico, dagli interventi è emerso chiaramente che le consuete carenze delle organizzazioni dominate dagli strati superiori della forza lavoro, bianchi e maschi, sono ben lungi dall’essere superate.

      Ci sono ancora grandi aree di lavoro da fare e dobbiamo verificarle insieme. Per l’NPA, siamo impegnati nella forma partito come strumento per partecipare alla lotta contro il capitalismo. Siamo anche convinti della centralità del ruolo della classe operaia, del proletariato, in tutta la sua diversità, nel processo rivoluzionario, che implica un certo tipo di strutturazione e di intervento. In particolare, non possiamo accontentarci di dibattiti storici e teorici, di grandi analisi della situazione. Ciò che determinerà la possibilità di costruire una nuova organizzazione è la nostra capacità di guardare all’esterno: l’esperienza politica e le organizzazioni preesistenti hanno il compito di aiutare le masse, gli sfruttati e gli oppressi, a organizzarsi. Dobbiamo rivolgerci ai giovani, alle loro preoccupazioni e alle loro lotte, alle imprese e ai quartieri popolari, e partecipare attivamente ai movimenti femministi, LGBTI, ambientalisti, antirazzisti e antifascisti.

      Infine, il rapporto con la NUPES e la preparazione delle prossime elezioni non sono ancora stati discussi. Le tattiche elettorali, secondarie rispetto ai grandi dibattiti strategici, sono comunque un tema caldo quando si tratta di costruire un’organizzazione politica.

      Fabien Marcot: È difficile riassumere i temi discussi al forum perché, in un solo giorno di lavoro, la ricchezza dei contributi è stata enorme. A volte ci siamo sentiti un po’ frustrati per non aver avuto il tempo di andare oltre, ma ci ha anche dato una certa motivazione per continuare il nostro lavoro. Dalla stragrande maggioranza dei contributi non ho avuto l’impressione che ci fossero punti di disaccordo su questioni di fondo.

      Il testo apparso pochi giorni dopo il forum, sulla criminalità della polizia e le rivolte di quartiere, ne è un esempio. La questione è un po’ diversa per i componenti del forum, per i quali certe questioni possono dipendere da equilibri interni da mantenere o da storie particolari, ma non ho avuto l’impressione che queste questioni siano emerse in questo modo durante il forum. Penso in particolare allo spazio dato ai dibattiti sulla NUPES, che probabilmente alcune persone di Ensemble! avrebbero voluto vedere affrontati più a lungo, o alla predominanza delle lotte anticapitaliste per altri attivisti. Ma alla fine siamo riusciti a superare queste differenze di approccio e il testo dell’appello lo riflette.

      Ci sono anche differenze nella pratica su cui dobbiamo lavorare. Al forum, un oratore ha esortato i “vecchi bianchi” a “imparare a tenere la bocca chiusa”. E alla fine questo è stato un momento importante, ampiamente applaudito. Credo che ci sia una crescente consapevolezza di questi temi, anche se ovviamente c’è ancora un po’ di strada da fare. La questione di una cultura politica condivisa è centrale: sufficientemente forte ideologicamente ma anche sufficientemente malleabile da permetterci di costruire con tutti coloro che provengono da contesti politici diversi. Se i membri più giovani si avvicinano a questo nuovo strumento, penso che le cose si possano muovere molto rapidamente, perché questi temi sono molto più evidenti per loro.

      La France insoumise è attualmente la principale forza politica di sinistra e come tale è essenzialmente uno dei tre poli del campo politico (gli altri due sono la destra e l’estrema destra). Tra il 2017 e il 2022 ha chiarito le sue posizioni su alcune questioni, in particolare sul razzismo, e si è spostata più a sinistra. Come vedete il rapporto tra la nuova organizzazione politica prevista e La France Insoumise? Perché siete favorevoli all’ipotesi di una nuova organizzazione separata da LFI piuttosto che a un partito che faccia parte di LFI? Da un punto di vista strategico, perché non pensate che l’urgenza della situazione attuale sia quella di rafforzare e strutturare la forza politica di sinistra più capace di prendere il potere?

      Pauline Salingue: L’NPA ha preso atto positivamente dell’evoluzione di LFI nell’ultima fase. Agiamo più spesso sul terreno delle lotte, vediamo meno bandiere tricolori nei cortei dell’LFI e questo è un bene, anche se continuano a cantare la Marsigliese nelle loro riunioni o nell’Assemblea… Di conseguenza, abbiamo potuto stringere legami più stretti e abbiamo partecipato a diverse elezioni locali, comunali e regionali su liste comuni. Abbiamo discusso fino all’ultimo per raggiungere un accordo per le elezioni legislative, ma LFI ha fatto altre scelte, in particolare integrando il Partito socialista nella NUPES, privilegiando il cartello parlamentare rispetto alla costruzione di un’alternativa che rompesse con il capitalismo.

      Siamo convinti che non si possa cambiare il mondo senza prendere il potere. Ma le recenti esperienze di Syriza e di Podemos hanno dimostrato che non basta vincere le elezioni per rompere con il capitalismo. Questo è ciò che ci insegna la storia delle rivoluzioni. La borghesia non si arrende e ha molte risorse per impedire che un governo progressista attacchi i suoi interessi. Il nostro primo disaccordo con LFI è strategico. La “rivoluzione attraverso le urne” non ci convince. Crediamo che ci sarà una resa dei conti con la borghesia e che la si stia preparando. Questo scontro assumerà sicuramente la forma di un confronto con le istituzioni con cui le masse si stanno già confrontando. Per usare la vecchia formula, non si può costruire un’altra società senza distruggere la vecchia macchina statale legata al capitalismo.

      Questo porta a un secondo disaccordo sul tipo di organizzazione che dobbiamo costruire. La struttura gassosa di LFI ha dimostrato la sua efficacia nei momenti di slancio elettorale, per le campagne elettorali. Ma questo è quanto. La natura delegata, intimamente legata a un funzionamento non democratico, ha fatto sì che nelle grandi prove di lotta sociale che abbiamo appena vissuto contro Macron, dal movimento dei Gilet gialli alle rivolte di quartiere, dagli scioperi contro le riforme pensionistiche alle lotte durante il lockdown, LFI abbia avuto un ruolo istituzionale, certo, ma marginale nella strutturazione dei movimenti. Ad esempio, sarebbe stato utile se le decine di migliaia di attivisti che hanno agito durante le elezioni avessero coordinato i loro sforzi per bloccare il paese dal 7 marzo in poi.

      A ciò si aggiunge il fatto che LFI non è un’organizzazione molto democratica. L’opposizione e il disaccordo non sono strutturati e la leadership non li tollera. Questo è un problema importante perché una leadership forte può ottenere legittimità solo attraverso la convinzione e il dibattito democratico, e perché la gestione del disaccordo e del pluralismo sono condizioni necessarie per l’unità e la costruzione di strumenti di massa. Ciò implica un controllo collettivo da parte degli attivisti, in particolare sui rappresentanti eletti. Con il pretesto dell’efficienza – di solito elettorale o istituzionale – le decisioni vengono prese da un piccolo gruppo. Alla fine, tutto questo ci impedisce di coinvolgere altre correnti e di lavorare per l’autoemancipazione.

      Fabien Marcot: A titolo personale, sono stato un attivista del Parti de Gauche per alcuni anni (prima della France insoumise) e ricordo come l’uso del termine “islamofobia” fosse semplicemente bandito, come la polizia “repubblicana” fosse sistematicamente difesa e le rivolte nei quartieri al massimo guardate da lontano. Poi, il 10 novembre 2019, LFI è stato l’unico partito della sinistra istituzionale a manifestare contro l’islamofobia. Dobbiamo quindi riconoscere che la loro leadership ha fatto molta strada. Questo è un fatto molto positivo ed è soprattutto il frutto di anni di lotta da parte delle persone direttamente interessate. Non possiamo che rallegrarcene. La France insoumise è il partito di sinistra che ha riunito le classi lavoratrici, i giovani e i quartieri su scala più ampia. Ma nei sette anni della sua esistenza, la totale mancanza di democrazia, il comportamento autoritario dei suoi leader e il suo elettoralismo hanno dimostrato che questo strumento è stato concepito come uno strumento elettorale, istituzionale e mediatico, piuttosto che come uno strumento utile per la vita quotidiana, concepito come un quadro di emancipazione e coinvolgimento popolare.

      Si tratta di questioni fondamentali per noi. La questione della democrazia è essenziale, perché è ciò che permette il coinvolgimento e l’emancipazione. Non capisco quindi cosa significhi costruire un’organizzazione all’interno della LFI, che non è né una coalizione di partiti né un’organizzazione democratica. Come possiamo sperare di fare progressi su questioni su cui non siamo d’accordo, se non attraverso lotte di potere informali o addirittura personali? Non c’è niente di sano in questo. D’altra parte, abbiamo visto al momento delle elezioni legislative che l’assenza di un polo radicale coerente ha fatto pendere la bilancia verso la destra di LFI piuttosto che verso la sua sinistra. Data l’attuale posta in gioco, non credo che possiamo accontentarci di questa situazione, e quindi dobbiamo riuscire a creare una forza a sinistra di LFI che possa lavorare su alleanze – nelle azioni o a livello elettorale – ogni volta che sia possibile. Ma che sappia anche essere critica quando necessario e avanzare altre proposte, perché sono necessarie.

      Florence Ciaravola: Se è vero che LFI ha chiarito le sue posizioni sul razzismo e si è spostata più a sinistra, non è così su tutti i temi. È vero sulle questioni sociali, ambientali e antirazziste, il che è importante. Non è così su altre questioni come il femminismo, come dimostra la vicenda Quatennens (Adrien Quatennens, deputato e ex coordinatore nazionale di LFI, condannato per violenza ai danni della moglie nel dicembre scorso, ndt), o – e questo è altrettanto grave – le questioni militari, regionali/regionaliste o di solidarietà internazionale, come dimostra la questione degli uiguri o la gestione della guerra in Ucraina: LFI è assente dalle mobilitazioni e dalle attività a sostegno della resistenza armata e non armata del popolo ucraino. LFI è davvero “la forza politica più a sinistra” della NUPES? Questo non è il caso in tutti i settori ed è quindi molto discutibile (e discusso all’interno di Ensemble!). In ogni caso, il nostro progetto è distinto da quello di LFI.

      E sono d’accordo con la precisazione: vincere le elezioni, che è l’obiettivo di LFI, non è sinonimo di prendere il potere, e per trasformare la società siamo a favore di una rivoluzione democratica e di una strategia di autogestione.

      Durante l’ultima campagna elettorale, LFI ha presentato un programma di rottura con la logica neoliberista, che ha attirato un elettorato ampio e variegato e ha alimentato la speranza che un altro mondo sia possibile e a portata di mano. Ci sono tutte le ragioni per credere che l’attuazione di un simile programma porterebbe a un radicale cambiamento sociale ed ecologico. Quali sarebbero le differenze ideologiche e politiche fondamentali tra la nuova organizzazione politica in costruzione e LFI?

      Florence Ciaravola: L’attuazione del programma di LFI e, più in generale, della NUPES sarebbe un grande passo avanti, in molti settori, ma non in tutti. Avremmo ragione di sostenerne l’attuazione, ma in totale indipendenza, mantenendo il corso di una trasformazione radicale che articola anticapitalismo e autogestione, femminismo ed ecologia, antirazzismo e solidarietà internazionale con i popoli in lotta, dalla Palestina all’Ucraina, e più in generale i diritti delle minoranze e dei popoli all’autodeterminazione. Converrete che questo non è né il progetto LFI né il progetto NUPES.

      Pauline Salingue: Ho già dato alcuni elementi di risposta. Certo, molte delle misure de L’Avenir en Commun (il programma elettorale presentato da Mélenchon e dalla LFI, ndt) erano simili a quelle del programma di Philippe Poutou, il candidato presidenziale del NPA. Tuttavia, il programma di LFI rimane timido riguardo alle necessarie incursioni nella proprietà privata e non fa alcun passo in avanti per quanto riguarda l’essenziale socializzazione dei settori chiave dell’economia (energia, trasporti, banche, prodotti farmaceutici). Come possiamo sperare di cambiare la vita, di organizzare la svolta ecologica, senza riprendere il controllo sulla produzione? Questo è un vero dibattito che vogliamo fare con il resto della sinistra politica.

      Un altro punto di scontro: le questioni internazionaliste. Per molti aspetti, ci siamo distaccati dalla concezione che la dirigenza della LFI aveva del posto della Francia nel mondo. Siamo fermamente impegnati nell’internazionalismo. Per noi questo significa opporsi con forza all’imperialismo francese, aprire le frontiere e rifiutare il campismo mostrando solidarietà con tutti i popoli oppressi, indipendentemente dall’imperialismo che li attacca.

      Tutte queste posizioni sono legate ad altri disaccordi, anche se c’è stata un’evoluzione positiva, in parte dovuta alla pressione dello stato autoritario, sul ruolo della polizia e della giustizia. LFI non mette in discussione l’apparato statale, propone di cambiarlo profondamente, ma senza capire che il confronto con esso è inevitabile.

      Fabien Marcot: A Rejoignons-nous abbiamo redatto un “Manifesto per una nuova organizzazione politica rivoluzionaria, democratica e pluralista” [qui in francese], il cui obiettivo è quello di essere messo nel piatto comune e discusso. Ma, ovviamente, non spetta a Rejoignons-nous, né a nessuno dei componenti del forum, anticipare l’aspetto di un futuro progetto di organizzazione politica, che resta da costruire “dal basso”. Detto questo, è evidente che ci sono diverse differenze di approccio tra LFI e gran parte del movimento sociale e delle aspirazioni popolari. LFI, nonostante quello che sembra dire, promette che “un altro mondo è possibile”, ma non ha intenzione di rompere con il sistema capitalista. Le proposte contenute nel suo programma sarebbero ovviamente grandi progressi sociali, ma sono più o meno ciò che François Mitterrand ha attuato nel 1981, ossia un rilancio keynesiano e la nazionalizzazione di alcuni settori dell’economia. Ma i lavoratori che si alzano ogni mattina per andare a lavorare continuerebbero a lavorare quasi con la stessa intensità, per una retribuzione non molto più alta, senza avere alcuna voce in capitolo sulle loro condizioni di lavoro, sugli scopi della loro attività, sugli stipendi dei loro dirigenti, ecc.

      Anche le posizioni internazionali della LFI presentano gravi problemi, già discussi da Florence e Pauline. Le loro proposte istituzionali si limitano essenzialmente a una costituente i cui contorni rimangono molto vaghi: il RIC (Référendum d’initiative Citoyenne), il referendum abrogativo… assomigliano più a una V Repubblica bis che a una rottura radicale con il sistema attuale.

      Questa questione della democrazia, dell’autogestione, dell’appropriazione da parte di tutti degli strumenti di produzione in tutti i settori economici, nei servizi pubblici, ma anche nei luoghi di potere, è in definitiva una differenza importante con il progetto della LFI, e questo purtroppo non sorprende molto viste le loro pratiche interne… Tra l’affare Quatennens e il posto dato agli attivisti locali nelle elezioni legislative, c’è un divario tra le aspirazioni popolari – che sono state espresse anche dagli attivisti di LFI – e la leadership. E purtroppo non c’è la possibilità interna di discutere democraticamente di questi temi. Questo è un problema quando si aspira a costruire “un altro mondo”, no?

      Nel vostro appello scrivete che la nuova “organizzazione politica potrà essere presente nell’arena elettorale e istituzionale”, ma che “il suo centro di gravità saranno le piazze, i luoghi di lavoro, i quartieri”. Ma potremmo pensare, anche sulla base delle elezioni presidenziali e legislative che si terranno in Francia nel 2027, che le elezioni siano un momento chiave della lotta politica e una leva per costruire una forza di massa. Tuttavia, leggiamo nel vostro appello una sorta di sfiducia: voi “potreste” partecipare alle elezioni, ma non sembra essenziale. Potreste spiegare meglio il vostro rapporto con le elezioni?

      Pauline Salingue: Nelle elezioni, la maggioranza delle persone vota spesso contro i propri interessi. Ci sono calcoli, considerazioni personali, voti “utili”… Senza contare i milioni di persone che non si recano alle urne. Le elezioni sono certamente un momento importante per le lotte politiche, soprattutto tra i diversi partiti. Ma sono relativamente poco un momento di politicizzazione. Siamo convinti che non è durante le elezioni che le cose si muovono, che le coscienze delle persone si evolvono.

      Questo è uno dei grandi contributi della rivoluzionaria Rosa Luxembourg. È stata la prima a teorizzare che è nell’azione, nella lotta extraparlamentare, quando milioni di persone iniziano ad agire, che la comprensione che dobbiamo rompere con questo sistema progredisce a tutta velocità. Per questo crediamo che il baricentro del partito che vogliamo costruire debba essere innanzitutto nelle aziende, nei quartieri e nei luoghi di studio, dove il nostro campo sociale vive e si organizza per lottare.

      Tuttavia, crediamo che sia importante occupare ogni terreno, compreso quello delle elezioni. Inoltre, riteniamo che possa essere molto utile avere rappresentanti anticapitalisti eletti nelle istituzioni. Da questo punto di vista, molti parlamentari della LFI hanno dimostrato che i rappresentanti eletti possono svolgere un ruolo molto efficace nell’agitare il cambiamento e quindi contribuire ad alzare il livello di confronto con chi è al potere.

      Fabien Marcot: È buffo, sto quasi leggendo questo passaggio al contrario! Molti attivisti della sinistra radicale provengono da un contesto in cui la partecipazione alle elezioni o alle istituzioni è… complicata e raramente presa sul serio. A questo proposito, vorrei rimandare a un testo di Laurent Levy che avete pubblicato su Contretemps [qui in francese] e che personalmente ho trovato molto utile. Mi sembra quindi che questo passaggio dell’appello al forum affermi che sì, vogliamo prendere sul serio l’“arena elettorale e istituzionale”, ma questo non significa che possa diventare l’alfa e l’omega della nostra strategia politica, come nel caso dei partiti della NUPES, le cui organizzazioni spesso non sono altro che “macchine elettorali”.

      Le elezioni sono, come tu dici, “un momento chiave della lotta politica” – in ogni caso un momento di intensa politicizzazione in cui si cristallizzano una serie di cose, nel bene e nel male. Quindi sì, dobbiamo essere presenti. A questo proposito, non possiamo permetterci di trascurare la necessità di una riflessione approfondita sul ruolo degli eletti, siano essi all’opposizione o in maggioranza. Ma una forza politica non può concentrarsi solo sulle prossime elezioni, determinando la sua strategia, le sue azioni e i suoi discorsi con l’unico obiettivo di vincerle, anche se questo conta. Le sue azioni quotidiane, ciò che organizza in termini di formazione, dibattiti, sviluppo collettivo, solidarietà concreta, autodifesa e autogestione, battaglie ideologiche e interventi sui media, conducendo lotte a livello locale, nazionale e internazionale, sono altrettanto importanti. La sua presenza a fianco o nelle lotte è centrale, da un lato per sostenerle, ma anche perché è da lì che nasce la consapevolezza della necessità di un’azione collettiva, ed è da lì che vogliamo partire.

      Florence Ciaravola: La vita politica francese è ancora sovradeterminata dal quadro istituzionale della Quinta Repubblica, dal presidenzialismo, dalla personalizzazione e dall’elettoralismo. Nessun altro paese dell’UE ha un esecutivo con un profilo così autoritario. Tutto ciò contribuisce alla crisi della rappresentanza politica, alla quale dobbiamo dare risposte alternative, tra cui altre pratiche politiche basate sui cittadini e sull’autogestione, il rifiuto dell’elettoralismo e la volontà di prendere sul serio i processi elettorali, senza farne il fulcro dell’attività di una nuova forza politica.

      Per quanto riguarda il rapporto con le istituzioni della Quinta Repubblica, LFI, PCF, NPA e altre organizzazioni politiche della sinistra radicale e/o anticapitalista concordano sulla necessità di trasformare le istituzioni statali. Nel vostro appello, sembrate dichiarare la vostra opposizione alle istituzioni e allo stato. Potete spiegarci meglio? Come si concretizzerebbe concretamente questa opposizione? A quale tipo di istituzioni e di stato aspirate? E con quali mezzi concreti?

      Pauline Salingue: La tradizione marxista non esprime l’aspirazione a costruire un nuovo stato, ma a una società senza classi e senza stato, una libera associazione di produttori. Questo è un elemento chiave di un progetto di emancipazione della società: lo stato, in quanto corpo separato dalla società, è completamente legato alle oppressioni estremamente varie che sono esistite nelle diverse società. La sua scomparsa è una condizione per la felicità umana.

      Questo non significa che non ci sarebbero decisioni collettive, né pianificazione, né scelte strategiche, in particolare nei campi dell’ecologia, della ricerca, delle campagne militanti contro l’oppressione e così via. Ma tutti parteciperebbero, grazie a una drastica riduzione dell’orario di lavoro, liberando tempo per l’organizzazione, la distribuzione dei compiti, la discussione su cosa vogliamo produrre e come, l’accesso a culture diverse, senza che i compiti siano assegnati a persone distaccate dalla società.

      Questa visione della società si concretizza nelle lotte attuali. Man mano che la crisi ecologica ed economica si aggrava e il fascismo diventa un possibile ricorso, le mobilitazioni si confrontano sempre più con uno stato sempre più oppressivo e violento e sviluppano pratiche che si oppongono alla logica dello stato: il dibattito contro la delega di potere, la connessione permanente tra riflessione e azione, e così via.

      In un processo rivoluzionario, una mobilitazione su larga scala che affronti questo stato, le strutture di auto-organizzazione, gli inizi dell’autogestione, saranno organizzati nei quartieri e nei luoghi di lavoro, e si coordineranno per costruire un’altra legittimità democratica, opposta a quella dello stato borghese.

      Fabien Marcot: Come è stato sottolineato, è chiaro a molti a sinistra, dall’NPA ai Verdi dell’EELV, alla LFI e al PCF, che le istituzioni della Quinta Repubblica limitano la democrazia, quando non la negano del tutto – in particolare dando poteri esorbitanti al presidente della Repubblica. Ma se andiamo oltre, gli approcci sono molto diversi. Anche all’interno della sinistra radicale e dei movimenti sociali, dove la questione della democrazia è sempre più presente. È chiaramente un tema che deve essere approfondito se vogliamo costruire una forza politica comune.

      Noi di Rejoignons-nous non abbiamo avanzato, in senso stretto, alcuna proposta di nuove istituzioni o di modalità concrete per realizzarle – non è questo il ruolo di questo collettivo. Ma è chiaro che la questione della democrazia – e non solo nelle istituzioni – la questione dell’autogestione, sono al centro del nostro approccio all’organizzazione della città, del lavoro, delle scelte ecologiche, della polizia, ecc.

      Florence Ciaravola: Dobbiamo pensare a una nuova architettura istituzionale, in una prospettiva di autogestione. Ciò significa combinare il mantenimento e l’estensione dei servizi pubblici senza rafforzare i poteri dello stato – siamo favorevoli alla sua scomparsa – con l’estensione dei diritti dei lavoratori e dei cittadini attraverso una democrazia attiva radicata nelle regioni (assemblee dei cittadini). Attingiamo a pratiche alternative come il bilancio partecipativo di Porto Alegre e il municipalismo del Rojava.

      Quali prospettive ritenete che questo forum abbia aperto? Come vedete i prossimi passi? Nel vostro appello avete parlato di incontri locali, e il 2 luglio si è concluso con un appello per realizzare forum locali in tutte le città. Qual è l’obiettivo di questo appello ai forum locali? Quale ne sarà la perimetrazione? E pensate che queste discussioni e questi preparativi possano presto portare alla costruzione di una nuova forza politica?

      Fabien Marcot: Per noi è molto importante che le discussioni inizino a livello locale e che da lì scaturiscano i dibattiti nazionali, e non viceversa. È vero che avevamo già chiesto l’organizzazione di forum locali prima del forum nazionale, ma purtroppo siamo stati un po’ troppo ottimisti sui tempi, e le poche settimane che intercorrevano tra l’appello nazionale e la data del forum erano ovviamente troppo poche per organizzarsi localmente in buone condizioni. E poi, credo che in diversi luoghi ci fosse anche bisogno di questo impulso nazionale per partire. La buona notizia è che i compagni di diverse città hanno già iniziato a preparare i forum locali per l’autunno. In un luogo sono stati organizzati da attivisti dell’NPA, in un altro da Ensemble, in un altro ancora da Rejoignons-nous o da ex-LFI.

      Un nuovo testo che definisce i dettagli di questa seconda fase è attualmente in fase di elaborazione da parte del gruppo del forum, quindi non posso rivelarne il contenuto prima della sua pubblicazione, ma l’idea generale è quella di iniziare a porci una serie di domande sull’organizzazione che vogliamo costruire e su ciò che vogliamo fare insieme. L’obiettivo è poi quello di organizzare un altro forum nazionale verso novembre, in modo che questa volta le discussioni locali possano davvero servire da base per il dibattito.

      Nel suo manifesto, Rejoignons-nous propone di organizzare un grande processo costituente per gettare le basi di una futura organizzazione politica, e stiamo anche mettendo nel piatto comune l’idea che le elezioni europee sarebbero una buona occasione per elaborare collettivamente un progetto, spalancare le porte e le finestre alle candidature dei movimenti sociali e farci conoscere. Naturalmente non siamo ancora a questo punto, ma si tratta di questioni che sorgeranno inevitabilmente a livello locale e nazionale. Come potete vedere, c’è ancora molto lavoro da fare, ma è anche così eccitante e necessario!

      Florence Ciaravola: L’organizzazione di forum locali o dipartimentali è infatti essenziale per un processo dal basso verso l’alto, aperto a tutte le parti interessate e che vada oltre i soli attivisti dell’NPA, di Rejoignons-Nous o di Ensemble!

      Attraverso gli scambi e le pratiche comuni intorno alle campagne decise insieme, potremo verificare le convergenze e individuare le questioni che vengono dibattute e che devono essere oggetto di una riflessione approfondita. Questo ci permetterà di costruire questo processo su basi solide, senza fretta, e di tradurlo nella fondazione di una forza politica comune della sinistra alternativa. Inizialmente, perché non in forma federativa e cooperativa? Il successo del nostro processo non solo darebbe speranza e prospettiva, ma sarebbe anche uno degli elementi della lotta contro la minaccia neofascista.

      Pauline Salingue: Partiamo dalla fine: ci sarà una nuova forza politica a breve termine? Non lo so. In realtà, la domanda a cui vorremmo rispondere non è tanto quando, ma piuttosto come? Come possiamo contribuire a creare lo strumento di cui parlavamo all’inizio della nostra intervista? Un partito militante, unitario e rivoluzionario, che raccolga e accumuli esperienze, che si stabilisca nei luoghi di lavoro e nei quartieri e che cambi quotidianamente i rapporti di forza sociali e politici. Se è questo che vogliamo costruire, allora non può essere una semplice fusione delle tre forze (Rejoignons-nous, Ensemble!, NPA) che hanno lanciato questo appello.

      Innanzitutto perché mancano alcune correnti che si collocano nel campo dell’anticapitalismo non settario, che integrano i contributi dell’ecosocialismo e con le quali lavoriamo quotidianamente nelle mobilitazioni, nei sindacati, nei vari collettivi… Potremmo pensare a organizzazioni che oggi fanno parte di LFI, come la GES (Gauche écosocialiste), o a correnti che derivano dal comunismo libertario. Per non parlare delle migliaia di persone, non ancora organizzate politicamente, che cercano prospettive politiche basate sull’esperienza delle loro lotte.

      Ma al di là di questo, se siamo seri nei nostri obiettivi, sappiamo già che una nuova forza non può emergere da incontri di qualche centinaio di compagni a Parigi o tramite conferenze online. La costruzione di una tale forza politica non può essere solo un processo verticale. Soprattutto, deve essere un processo dal basso, con un continuo andirivieni tra gli incontri locali e la forma nazionale che potrebbe assumere. E dobbiamo costruire passo dopo passo non solo una base politica, ma soprattutto una pratica attivistica comune che ci permetta di proiettarci nell’azione. In questo gioco, la questione del ritmo bilancia l’urgenza di rispondere alla difficile situazione politica in cui ci troviamo e la necessità di non perdere nessuno lungo il cammino.

      Il forum a cui abbiamo partecipato è stato quindi solo il primo passo. In primo luogo, ci ha permesso di verificare che le nostre tre organizzazioni hanno una base sufficientemente comune per continuare questo processo. Ma soprattutto ha dimostrato che c’è un’eco reale nel nostro campo, tra coloro con cui combattiamo quotidianamente. Più di 400 persone hanno firmato l’appello nel giro di pochi giorni, la maggior parte sindacalisti, attivisti di associazioni e collettivi, coinvolti in un’ampia gamma di reti di lotta.

      Complessivamente, quasi 200 persone hanno partecipato al forum del 2 luglio a Parigi, il che è un buon inizio. Il forum è stato l’occasione per esprimere la nostra solidarietà con la rivolta dei giovani nei quartieri popolari attraverso un primo testo scritto nell’urgenza della situazione. Il comitato direttivo del forum sta elaborando un secondo testo che riassume le discussioni che si sono svolte, le domande che hanno preoccupato tutti i partecipanti e le prime risposte che abbiamo iniziato a formulare. Ora dobbiamo lanciare la seconda fase, per avviare il processo dei forum locali, il più vicino possibile a coloro che condividono la necessità di una rottura radicale con il sistema capitalista e la mancanza di una forza capace di riunirci su larga scala.

      Questi forum locali sono quindi di grande importanza, perché dovrebbero permetterci di avviare i primi raggruppamenti militanti e, attraverso le discussioni che li condurranno, di sviluppare una strategia politica che possa avviare una dinamica a livello locale e nazionale. A questo proposito, il testo di sintesi del forum del 2 luglio, il testo generale dell’appello e anche il testo di solidarietà con i quartieri popolari devono servire da guida e da proposta per il dibattito nei forum locali. Possono cogliere questa opportunità per iniziare a formulare una politica unitaria e rivoluzionaria di resistenza e offensiva, attraverso la costruzione di un progetto politico e di campagne d’azione. È un compito enorme, ma non partiamo da zero: abbiamo la ricchezza e la diversità dell’esperienza militante a cui attingere.

      *

      Illustrazione: “Manial”, Hamed Abdalla, 1933. Per gentile concessione di Samir Abdalla.

      Note
      [1] Omar Slaouti, un attivista dei quartieri popolari che ha contribuito a introdurre questo forum e ha accettato la nostra offerta di un controinterrogatorio, alla fine non ha potuto partecipare.

      [2] Vedi online: https://www.forumalternative.org/contre-les-crimes-policiers-les-violences-detat-solidarite-avec-la-revolte-de-la-jeunesse-et-des-quartiers-populaires/

      [3] Vedi online: www.egalité.org.

      [4] Laurent Lévy, “L’électoralisme et ses images spéculaires”, 29 luglio 2020, https://www.contretemps.eu/critique-electoralisme-laurent-levy/.

    • Torino, 21 agosto 1917, per il pane e contro la guerra

      Torino, 21 agosto 1917, per il pane e contro la guerra

      Oltre cento anni fa, il 21 agosto del 1917, donne e uomini proletari/e di Torino insorsero spontaneamente contro la mancanza di pane ma immediatamente la protesta si trasformò in sciopero generale contro la guerra. Per il 23 agosto venne indetto uno sciopero generale che paralizzerà la città. La classe operaia, guidata da cortei di donne, saccheggerà negozi, caserme e la Chiesa della Pace, asportando dalla cantina del parroco, il vino e le provviste contenute che furono poi distribuite alla folla. Il Prefetto richiese al governo di Roma, senza esito, l’applicazione del codice militare di guerra, dichiarando Torino e la sua provincia zona di guerra. Il 24 agosto fu la giornata più sanguinosa, i dimostranti cercarono di rompere l’assedio posto dalle truppe governative in Barriera di Milano e in Borgo San Paolo. Solo il 28 agosto 1917 quando le autorità annunciarono che “l’ordine regna a Torino” tutto ritornò nella normalità, almeno secondo la classe politica ma non secondo gli operai che dopo le giornate di lotta, subirono una vera scia repressiva che portò all’arresto di molti operai e all’invio al fronte di quelli esonerati perché addetti alla produzione bellica.

      La prima guerra mondiale aveva fatto registrare un drastico degrado economico. Se nel 1914, una famiglia composta da cinque persone spendeva per nutrirsi 20 lire e 80 centesimi circa, nel 1917 quella stessa famiglia per acquistare gli stessi prodotti dovrà spendere 39 lire e 50 centesimi. Già dal 1916, i torinesi avevano iniziato singolari proteste operaie contro la classe politica, situazione che precipitò nel 1917, quando si registrò un aumento notevole dei prezzi dei generi alimentari: il 2 agosto il costo del pane aumentò di 10 centesimi al chilo. Alla fine di agosto, quando il pane mancava in quasi tutta la città, scattò una rivolta spontanea nei quartieri operai, che univa motivazioni economiche a rivendicazioni politiche.

      Scriverà Gramsci nel 1920:

      “Invano avevamo sperato nell’appoggio dei soldati; i soldati si lasciarono trarre in inganno che la rivolta fosse stata provocata dai tedeschi… Le donne operaie e gli operai che insorsero nell’agosto a Torino, che presero le armi, combatterono e caddero come eroi, non soltanto erano contro la guerra, ma volevano che la guerra terminasse con la disfatta dell’esercito della borghesia italiana e con una vittoria di classe del proletariato. Con ciò essi proclamavano che la guerra non crea un interesse comune tra la classe borghese dominante e i proletari sfruttati, con ciò essi superavano in modo definitivo le posizioni pseudoclassiste e pseudointransigenti del Partito Socialista”.

      Ecco la testimonianza di Teresa Noce, allora diciassettenne, da “Rivoluzionaria professionale. La storia del PCI nella vita appassionata di una donna”.

      Teresa Noce (Torino, 29 luglio 1900 – Bologna, 22 gennaio 1980), quattro anni dopo sarà tra le fondatrici del Partito comunista d’Italia. Nel 1926 sposò Luigi Longo con cui si recò in Spagna tra i volontari antifranchisti accorsi in difesa della Repubblica. Nome di battaglia Estella. Prese parte alla Resistenza in Francia, arrestata e deportata in vari campi di concentramento fino alla liberazione da parte dell’esercito sovietico. Alla fine della guerra, fu tra le 21 donne elette all’Assemblea costituente italiana, lavorò nel sindacato. Fino al ’53 quando Longo ottenne l’annullamento del matrimonio a San Marino presentando un documento che conteneva una firma contraffatta di Teresa Noce. Nelle sue memorie riporta di avere appreso questo fatto dalle pagine del Corriere della Sera e che per lei rappresentò un evento «grave e doloroso più del carcere, più della deportazione». La sua decisione di rivolgersi alla Commissione Centrale di Controllo del PCI con l’intento di denunciare il comportamento di Longo fu considerata inopportuna da una parte del gruppo dirigente del Partito e questo determinò la sua esclusione dalla Direzione.

      di Teresa Noce

      Noi, a Torino, la guerra non la volevamo più. Volevamo che tornassero i nostri soldati dal fronte e volevamo mangiare. In quel mese d’agosto, se in fabbrica si crepava di caldo, in casa si moriva di fame. Usciti dal lavoro si faceva la coda dal fornaio, ma il più delle volte il pane era finito. Così, sempre più sovente, si rientrava al lavoro gridando: «Sacco vuoto non sta in piedi e tanto meno può lavorare».

      Cominciarono le donne che soffrivano più di qualsiasi altro per la fame e per la guerra. Quasi tutte adesso lavoravano in fabbrica: bisognava dare da mangiare ai bambini mentre i mariti e i figli grandi erano al fronte. Ma cosa dare da mangiare ai bambini se nelle botteghe non c’era pane?

      Il 21 agosto 1917, un martedì, il pane mancò completamente. I lavoratori usciti dalle fabbriche incontrarono davanti alle panetterie sbarrate le donne che, inutilmente, facevano la coda da ore. Si cominciò a gridare: «Pane! Sciopero! Abbasso la guerra!».
      I fornai erano piantonati ma, in un attimo, i carabinieri furono travolti e contro le donne non osarono sparare. Porte e saracinesche furono abbattute dalle donne che presero d’assalto tutti i viveri a portata di mano. Nessuno quel giorno rientrò in fabbrica. Alcune direzioni di stabilimenti, alla Diatto e alla Proiettili (dove lavoravano solo donne) mandarono a prelevare camion di pane ai panifici militari. Ma quando i camion arrivarono, le donne li presero d’assalto, si distribuirono il pane e, invece di rientrare al lavoro, si diressero in città urlando: «Abbasso la guerra!».

      Al pomeriggio tutte le fabbriche erano ferme. Gli operai sapevano cosa rischiavano: poiché erano tutti militarizzati, potevano essere immediatamente spediti al fronte, se non deferiti davanti al Tribunale Militare. Ma le donne, che sapevano tutto questo, si misero davanti a loro. Cortei tumultuanti arrivarono in centro. Le donne gridavano: «Al municipio! Dal prefetto! Nominiamo una commissione!».

      Macché commissione, abbasso la guerra! Così la mossa per il pane cominciò a trasformarsi in rivolta contro la guerra. Sorsero le prime barricate. Furono rovesciati i tranvai e gli autocarri scaricati del pane e della farina. Si udirono i primi colpi di arma da fuoco. Nessuno dormì quella notte. Al mattino del mercoledì la città era paralizzata dallo sciopero generale. Tutto rimase fermo, dalle fabbriche ai laboratori e dai negozi ai trasporti.

      Le barriere si moltiplicarono. Alcune improvvisate, tali da non poter offrire resistenza alle cariche della cavalleria. Ma altre fatte a regola d’arte, soprattutto nei rioni periferici. La barricata costruita all’angolo di corso Vercelli con via Carmagnola, dov’era la Fiat Brevetti, tenne in iscacco forze di polizia e truppa per oltre venticinque ore. Era stata costruita con decine di grossi tronchi d’albero, tagliati sul corso vicino all’altra Fiat (la San Giorgio) e con alcuni pesanti carri ferroviari provenienti dal deposito Dora.

      Un’altra solidissima barricata venne eretta sul corso Principe Oddone, all’altezza di corso Regina Margherita. Costruita anche questa con vetture tranviarie rovesciate, era circondata da filo spinato nel quale gli operai facevano passare la corrente elettrica. Ma, tagliando la città in due, queste barricate finirono per impedire alle forze operaie della Barriera di Milano di congiungersi con quelle di Borgo San Paolo, l’altro centro della rivolta.

      Il fatto che lo sciopero totale continuasse e che un po’ dovunque sorgessero le barricate nonostante le cariche della cavalleria, spaventò le autorità. La reazione si scatenò: allo scopo di disperdere la folla, la forza pubblica cominciò ad arrestare per le strade uomini e donne. Gli arrestati vennero picchiati ferocemente e trascinati sui camion. Poi l’autorità decise di intervenire con la truppa: fece occupare i punti strategici più importanti e arrivarono i carri armati.

      Ma, appena apparvero i soldati, questi furono accolti dalla popolazione come fratelli. Le donne si infiltrarono tra loro offrendo cibo e vino. Era proprio per loro – dicevano le donne – proprio perché i soldati non andassero a morire in guerra, che Torino era insorta. E ogni famiglia operaia abitante nelle strade presidiate dalla truppa si occupò dei “suoi” soldati. Con la pastasciutta li esortò a fraternizzare.

      Questo atteggiamento non tardò a portare certi frutti. Un reparto di alpini ricevette l’ordine di sparare, ma i soldati, dopo aver lungamente esitato, di fronte alle donne, posarono i fucili a terra e voltarono le spalle alla folla.

      Ciò accadde sul corso di Ponte Mosca, alla Barriera di Milano e, subito dopo, il Commissariato di polizia di quello stesso quartiere fu preso d’assalto ed espugnato dalla folla. Poi questa si diresse di corsa, attraverso Porta Palazzo, verso il centro della città per raggiungere Piazza Castello dove c’era la Prefettura, e piazza San Carlo dov’era la Questura, e a via Cernaia dov’erano le caserme principali.

      Ma non fu possibile. Il contrattacco fu tremendo: contro i pochi fucili dei rivoltosi entrarono in azione le mitragliatrici e i carri armati che cominciarono a vomitare fuoco tanto su ci fuggiva quanto su chi resisteva, e contro le finestre delle case, contro i negozi, contro tutto. Caddero uomini, donne e perfino bambini.

      Tuttavia la lotta non cessò. Continuò lo sciopero e continuavano a sorgere barricate. Si cantava ovunque:

      «Prendi il fucile e gettalo per terra.
      Vogliamo la pace, vogliamo la pace,
      mai più vogliam la guerra».

      Giorno e notte rintronavano i colpi di fucile e le raffiche di mitragliatrice. Poi, a poco a poco, la rivolta si esaurì. Senza armi e senza direzione gli insorti non potevano vincere. Ancora una volta Torino era stata lasciata sola: nessun’altra città, nessun’altra fabbrica si unì agli operai torinesi.

      Il sabato di quella che in seguito sarebbe stata chiamata la “settimana rossa”, il Consiglio comunale di riunì con i dirigenti della Camera del lavoro. Gli operai furono invitati a rientrare in fabbrica per il lunedì seguente. Le autorità fecero subito affiggere dappertutto tale invito e, agli operai, non rimase che tornare al lavoro: oramai non potevano fare altro.

      Ma non rientrarono tutti. Non rientrarono le centinaia di arrestati e le migliaia di “militarizzati” subito spediti al fronte. Non rientrarono in fabbrica i caduti di quella settimana arrossata dal sangue di tanti lavoratori. Quanti furono i morti? Ufficiosamente si disse una cinquantina, ma certo furono molti di più, anche se non si seppe mai quanti. E non solo uomini, ma anche donne e bambini.

      Qualche settimana dopo, verso la metà di settembre, mio fratello venne a casa in licenza. A Pisa aveva saputo ben poco degli avvenimenti di Torino. I giornali erano stati censuratissimi. Anch’io, nelle mie lettere, ero stata molto prudente, tanto che lui non aveva capito ciò che era veramente successo nella nostra città e ardeva di saperne di più. Per lunghe ore parlammo degli avvenimenti, della rivolta, degli operai che si erano battuti, del coraggio delle donne che si erano lanciate contro i carri armati e si erano sdraiate a terra per impedire che questi si lanciassero contro i rivoltosi.

      Mi sentivo ormai adulta, certo più matura dei miei diciassette anni. Anche mio fratello se ne era accorto e non mi considerava più come la sorellina minore. Discutendo, convenimmo insieme che quella di Torino non era stata solo un’esplosione di malcontento, ma una rivolta del proletariato che non voleva la guerra, alla quale si era opposto fin dal 1915. L’aveva sopportata per forza, ma non l’aveva mai accettata. Altro che il “non aderire e non sabotare” dei capi socialisti! Il malcontento esploso per la mancanza di pane si era subito trasformato in rivolta contro la guerra.

      Se due anni prima solo la parte più avanzata del proletariato era scesa nelle strade per impedire l’entrata in guerra dell’Italia, questa volta a battersi per imporre la pace era stata la maggioranza della popolazione torinese. Essa era dunque maturata come ero maturata io.

      Mio fratello, riflettendo ad alta voce, diceva: «Il fatto più importante è che alla lotta non hanno preso parte solo alcune centinaia di operai, ma decine di migliaia di persone di tutti i ceti, di tutte le categorie: lo provano le liste dei morti, dei feriti, degli arrestati, dove è rappresentato ogni strato della popolazione lavoratrice. E senza guida, senza direzione. Pensa che cosa avrebbero saputo fare se fossero stati ben diretti!».

      Prima che mio fratello ripartisse per andare a Foggia, a conseguire il brevetto di secondo grado, parlammo anche della situazione internazionale. Entrambi ne sapevamo ben poco, perché i giornali erano scarsi di notizie. Ma qualche cosa trapelava nonostante la censura. La rivoluzione contro lo zar, scoppiata in Russia alcuni mesi prima, non era andata molto avanti, perché i russi continuavano la guerra. Ma si parlava sempre di più di Lenin e dei bolscevichi che lottavano anche laggiù per imporre la pace.

      Neanche mio fratello sapeva molto bene chi fosse Lenin. Gli raccontai allora dei due menscevichi arrivati a Torino e che le autorità avevano lasciato parlare in un comizio. Avevano parlato della guerra, non contro la guerra. Gli operai li avevano accolti al grido di “Viva Lenin! Viva la Rivoluzione russa!”. E i due se ne erano andati borbottando.