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  • Le insidie del  DDL 1660 e la nuova fase politica che ci attende

    Le insidie del  DDL 1660 e la nuova fase politica che ci attende

    di Maria Giuseppina Izzo

    In discussione alla camera in questi giorni,  il DDL 1660  rappresenta una tappa significativa nel salto di qualità  nella repressione del conflitto sociale che questo governo, memore anche di quelli che lo avevano preceduto, sta operando per avviare una nuova stagione e una nuova fase politica nel nostro paese,  dando una spinta significativa alla stretta repressiva, con particolare attenzione  alla repressione del dissenso. 

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  • IostoconSauro#: comincia il processo

    IostoconSauro#: comincia il processo

    Giovedì 19 settembre inizierà il processo intentato dall’allora presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, contro il nostro compagno Sauro (Carlo) Di Giovambattista (e quindi contro il blog Brescia Anticapitalista) per un articolo, non scritto da lui, ma ripubblicato da lui sul blog, poco dopo la fine del lockdown per la pandemia mortifera del Covid19. La denuncia per “diffamazione”, inspiegabilmente rivolta a Sauro e non agli autori dell’articolo originale, scattò alla fine del 2021, e in questi giorni inizia il processo vero e proprio. Il che dimostra che i padroni (e lo stato, che è al loro servizio) hanno “pazienza e memoria lunga” molto più di molti di noi. E che se la legano al dito, per così dire: sono loro che, al di là delle nostre declamazioni roboanti (e spesso inconcludenti) possono dire seriamente che “niente resterà impunito”, come ci ricorda anche il nuovo DDL 1660, che istituisce di fatto uno “stato di polizia” (se non sarà bloccato dalle lotte proletarie e popolari).

    Per chi la memoria l’avesse “corta”, può informarsi su ciò che successe a Sauro leggendo gli articoli sul blog usciti nel gennaio e febbraio 2022. Crediamo sia necessario che tutt* coloro che espressero solidarietà (sindacati, partiti, gruppi, singoli/e) a Sauro quasi tre anni fa si mobilitino in solidarietà con il compagno Sauro (e indirettamente con Brescia Anticapitalista) secondo la storica massima del movimento dei lavoratori: Se colpiscono uno, colpiscono tutti.

  • Fermiamo insieme il DDL 1660

    Fermiamo insieme il DDL 1660

    Rosa Rossa Online aderisce alla Rete Libere/i di lottare

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  • 8 marzo, sciopero dal lavoro produttivo e riproduttivo

    8 marzo, sciopero dal lavoro produttivo e riproduttivo

    del Collettivo femminista di inchiesta sociale “Ipazia”, da Facebook

    Anche quest’anno scendiamo in piazza per la giornata dell’8 marzo per riaffermare la nostra volontà di lotta contro tutte le forme di oppressione, di sfruttamento e di razzismo che riguardano le donne.

    La nostra lotta riguarda l’oppressione sulle donne che si manifesta come oppressione di genere, che produce anche la violenza sulle donne, come oppressione di classe e spesso, nelle diverse parti del mondo, come oppressione di “razza”.

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  • La democrazia che vogliamo

    La democrazia che vogliamo

    di Fabrizio Burattini e Umberto Oreste

    Per la sinistra esiste un’urgente necessità di rimettere all’ordine del giorno della politica il concetto di “democrazia”. Questo tanto più oggi, quando in Italia, una democrazia rappresentativa già logorata ed asfittica è minacciata da proposte di modifica ulteriormente devastanti attraverso la prospettata riforma del “primierato”.   

    Parlare di democrazia oggi

    Il concetto di democrazia (che troppi danno per definito ab aeterno) va al contrario attualizzato storicamente. Quello a cui generalmente ci si riferisce è databile dal secondo dopoguerra, e i suoi “successi” sono dovuti in particolare al fatto che questo “modello” si è in genere associato all’immagine di società mediamente più ricche, meno sconvolte da guerre, generalmente o almeno apparentemente meno corrotte, con cittadine e cittadini che diffusamente potevano sperare in una dinamica di “crescita” e di “miglioramento” delle condizioni di vita per loro stessi e per i loro figli. 

    Sono state società che, in maniera più o meno efficace, riuscivano a cancellare il fatto che il loro relativo benessere si basava anche su secolari esperienze di sfruttamento coloniale o neocoloniale di altri paesi “meno fortunati”. 

    Quando le basi strutturali di quel contesto sono andate esaurendosi, è rimasta formalmente in piedi l’idea di “democrazia occidentale” come espressione di democrazia più compiuta. Al contrario, è un modello che fa acqua da tutte le parti. Ed è per questo che è necessario riprendere una discussione sulla democrazia. 

    Esempi di democrazia negata sono ben visibili in tanti paesi occidentali: in Francia, la riforma pensionistica, contrastata dalla stragrande maggioranza dei francesi e senza una maggioranza parlamentare, è passata per decreto presidenziale; in Germania, si è negata la legittimità della solidarietà alla Palestina, per non parlare di Israele che si continua a presentare come “unica democrazia in Medio Oriente” ma nella cui costituzione è legittimata la discriminazione su base etnica e la cui politica di apartheid suprematista è ormai diffusamente riconosciuta a livello internazionale. 

    Democrazia e scontro di classe

    La parola democrazia è universalmente abusata, e la risposta alla domanda “Che cos’è una democrazia?” è sempre più difficile, a meno di non adottare la risposta semplicistica e fuorviante secondo cui essa sarebbe un sistema di governo in cui a tutti i cittadini è concesso di votare: nella storia sono numerosissimi gli esempi di regimi ultra-autoritari inizialmente “legittimati” dal voto popolare. 

    Al di là del richiamo alla presunta “democrazia” ateniese (in realtà un modo di produzione maschilista e schiavista), la “democrazia” nella storia non è mai stata la forma di governo più diffusa. Gli storici ci dicono che nel 1941 i paesi che più o meno legittimamente potevano definirsi “democratici” erano solo 11: Finlandia, Islanda, Irlanda, Svezia, Svizzera, Regno Unito, Australia, Canada, Nuova Zelanda, Stati Uniti e Cile. 

    Nel corso della seconda metà del XX secolo, la “democrazia”, dopo aver sconfitto la Germania nazista e l’Italia fascista, si è insediata anche in paesi precedentemente autoritari, come la Spagna, il Portogallo, la Grecia, o come  l’India postcoloniale, ha eliminato l’odioso apartheid sudafricano, ha raggiunto molti paesi in Africa e Asia e ha “garantito” nell’Europa occidentale per molti decenni una pace stabile e duratura. 

    Verso la fine del “secolo breve”, poi, ha riportato il successo per lei storicamente più significativo, con la caduta dell’URSS e degli altri regimi “comunisti” dell’Europa dell’Est.

    Dopo la Seconda guerra mondiale, i sistemi democratici dell’Occidente nel governare lo sviluppo capitalista, sotto la spinta delle classi lavoratrici, ne distribuivano parte dei benefici ai ceti popolari, le società sembravano più prospere, più colte e più libere, le disuguaglianze sembravano ridursi lentamente ma apparentemente in modo irreversibile e si assisteva ad una mobilità sociale dal basso verso l’alto certamente limitata, ma senza precedenti nella storia.

    La straordinaria stagione delle lotte operaie e di massa degli anni Sessanta e Settanta è coincisa con il periodo dell’avanzamento della “democrazia liberale”. Dunque, quel “trionfo storico” del modello “democratico” si è affermato in un periodo di protagonismo delle masse popolari sia in Occidente che nei paesi coloniali e l’affermazione di quel modello è uno dei risultati della lotta di classe e non un evento storico indipendente, dovuto alla presunta “forza intrinseca” della “democrazia”. 

    Sono state proprio la progressiva sconfitta delle lotte operaie dagli anni Ottanta in poi e la ripresa di controllo da parte delle forze capitalistiche che hanno determinato la crisi e il declino di quel modello. E la ricerca da parte del capitalismo della ricostituzione di margini di profitto a scapito dei lavoratori sta determinando un ulteriore e grave regresso del “modello democratico”. 

    In Italia, il discredito della classe politica ha trascinato con sé il discredito della politica stessa, senza essere contrastato dai partiti “di sinistra”: è a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta (proprio quando sul campo venivano travolti alcuni fondamentali bastioni della lotta delle classi popolari (la scala mobile dei salari, l’organizzazione operaia nelle grandi fabbriche, ecc.) che prende piede l’idea di una “riforma istituzionale” e costituzionale in senso efficientistico. Certo, il “sogno” di “un uomo solo al comando” che riesca a dominare la dialettica politica aveva già conquistato il “socialismo” craxiano con il suo “decisionismo”, ma ha fatto breccia in primo luogo nella destra (Berlusconi, Fini, ecc.), che rispolverò, “modernizzandolo”, il progetto presidenzialista funzionale ai poteri forti custodito per lungo tempo dal solo Movimento sociale di Almirante. 

    Il presidenzialismo diventò allora il cavallo di battaglia di Forza Italia, ma i “postcomunisti” non si tirarono indietro e, soprattutto con D’Alema, mostrarono tutta la loro disponibilità a discuterne. Il modello gollista francese (pur con tutte le correzioni italiche possibili) cominciò a fare proseliti, assieme ad argomenti come la necessità di dare “maggiori poteri al primo ministro”, la “sfiducia costruttiva”, il superamento del “bicameralismo perfetto”, ecc.

    E’ così che si è arrivati in Italia alla diminuzione del numero dei parlamentari, al “pareggio di bilancio” in Costituzione, a leggi elettorali sempre più truffaldine, ai progetti presidenzialisti, alla voglia di monocameralismo, al disegno della “autonomia differenziata”, in un’unica e contestuale sequenza di attacchi ai diritti dei lavoratori e alla democrazia. Attacchi alla democrazia che disgregano la società nel suo complesso, contrapponendo i vari settori produttivi, finanza e produzione, territorio e territorio, nonché individuo e individuo e creando individualismi violenti, alienazione, irrazionalismo. 

    È in questo clima che emerge la proposta di “premierato” lanciata dal governo Meloni e che a breve andrà in discussione in parlamento. E’ un governo che al di là del mantenimento o meno delle sue promesse elettorali sta cercando di concretizzare il suo progetto reazionario di cui il premierato e la violenza che comporta nella riscrittura della lettera e della sostanza della costituzione costituiscono tasselli fondamentali.

    Non a caso sono emerse negli anni ipotesi autoritarie “a fini democratici”. Prendendo atto del fatto che le masse non sarebbero più in grado di esercitare la democrazia, sono in tanti a chiedersi se sia “giusto” far dipendere il “prezioso e delicato” governo del paese da un elettorato in larga parte volubile, distratto, demotivato e disincantato. Con il risultato di introdurre argomenti che negano alla base la stessa idea del suffragio universale

    Paradossalmente, anche il sostenitori più lucidi del capitalismo si rendono conto che in questo contesto il sistema rischia di conoscere una patologia distruttiva. Oggi, dunque, la famosa frase di Woody Allen (“Dio è morto, Marx è morto… E anch’io oggi non mi sento molto bene”) può essere non abusivamente riscritta: “il socialismo è morto, ma anche il liberalismo non si sente tanto bene”.

    La democrazia nel XXI secolo

    All’inizio dell’attuale secolo, in tutto il mondo, “paese dopo paese” (lo scriveva l’Economist in un noto articolo del 2014“la gente si riuniva a protestare nelle piazze. I regimi dittatoriali o comunque non pienamente democratici reagivano con violenza, ma perdevano il controllo di fronte alla fermezza popolare e alle proteste”. Ci si riferiva alle “primavere arabe” (in Tunisia, in Egitto, in Libia, in Siria e, in qualche modo anche in Yemen, nel Sudan, in Libano, ecc.) e a quelle “colorate” in vari paesi delI’ex blocco sovietico (Georgia, Kirghizistan, Azerbaigian, Bielorussia e perfino in Mongolia, oltre che, quella “arancione”, la più nota, in Ucraina).

    Sono state tutte vicende, naturalmente con storie e protagonisti diversissimi, condotte nel nome della “democrazia”. E, in modo brutalmente diretto (l’esempio più sanguinoso è quello siriano) o in maniera più subdola, sono state tutte sconfitte, con economie ancor più disastrate delle precedenti, disuguaglianze peggiori, governi ancor più autoritari, speranze crudelmente frustrate. Con il risultato che molti di coloro che si erano battuti contro le dittature per creare nuove “democrazie” hanno legittimamente raggiunto la conclusione di aver sbagliato strada.

    Questo bilancio negativo viene avvalorato dal fatto che, anche in quei paesi in cui la “democrazia” è più solida e longeva, il “modello democratico” più che fondatamente non è più identificato con un benessere e una giustizia sociale diffusa e in crescita, ma viene associato a crisi e fallimenti economici, a sistemi politici disfunzionali e inefficienti, a corruzione e a prepotenze. 

    Di fronte alla devastante crisi economica e finanziaria del 2007-2008, i sistemi politici dell’Occidente hanno ovunque platealmente dimostrato tutta la loro incapacità e perfino la loro non volontà di affrontare la situazione, hanno appoggiato e aiutato il sistema economico e bancario responsabile della crisi, minando agli occhi dei propri cittadini e del resto del mondo l’immagine di forza e di efficacia del “modello democratico”.

    E questo, peraltro, non si è prodotto nel vuoto, perché contemporaneamente (sempre in quegli anni) il “modello” cinese (e per certi versi anche quello indiano) ha dimostrato l’inconsistenza dell’associazione tra crescita economica e democrazia, accumulando tassi di sviluppo molto superiori a quelli degli stati occidentali dei tempi migliori, rafforzando l’idea che il “modello autoritario” (rigido controllo dall’alto sull’economia e su tutta la società) sia meno impotente e più efficiente della democrazia. 

    E non dobbiamo nasconderci che, nonostante le limitazioni delle libertà personali, il controllo sul diritto di opinione, la censura, la repressione del dissenso, e nonostante i poco conosciuti episodi di lotte sindacali, e i ricorrenti episodi di ribellione che spuntano ogni tanto qua e là nella sconfinata società cinese, il consenso di quel popolo verso il sistema politico che lo governa non sembra affatto scemare, anzi.

    Da tener presente che già Marx in “Forme economiche precapitaliste” parlava di un modello di produzione asiatico (storicamente molto diffuso in Asia e nell’America precolombiana, parzialmente presente negli imperi ottomano e russo. Una forma di produzione basata su una formale comunità dei mezzi di produzione, ma sul trasferimento delle ricchezze prodotte ad una centrale estremamente autoritaria, che, in qualche modo, ricambiava le masse produttrici espropriate gestendo un sistema amministrativo centralizzato e estremamente efficiente, che assicurava la circolazione dei beni e il sostegno in caso bisogno. 

    Quel modello è oggi rintracciabile nelle moderne autocrazie che poggiano i loro “successi” e comunque la loro esistenza su di un consenso, o quanto meno sull’indifferenza delle masse popolari fintanto che non intervengano elementi sconvolgenti come ad esempio una guerra (come avvenne in Russia con conflitto con il Giappone nel 1905 e poi con la Prima guerra mondiale nel 1917).

    L’Economist, nell’articolo citato, arriva a dire che “la democrazia sta distruggendo l’Occidente, perché istituzionalizza l’impasse decisionale, impoverisce i processi di decisione e promuove leader mediocri come George W. Bush … la democrazia complica cose semplici e permette ai politici di ingannare la gente”

    Il modello cinese, al contrario, fa proseliti in giro per il mondo, soprattutto in quello che un tempo veniva definito “terzo mondo”, ben sapendo che quel modello può funzionare anche se lo strumento politico di potere non si richiama (d’altra parte ormai del tutto abusivamente) al “comunismo”. La vicenda della crescita dell’alleanza dei BRICS sta a dimostrarlo.

    I clamorosi fallimenti delle guerre statunitensi in Afghanistan e in Iraq, guerre che vennero motivate con lo slogan della “esportazione della democrazia”, hanno convinto il mondo di quanto quella “democrazia” fosse solo un alibi per le ambizioni imperialiste a stelle e strisce. E il caos in cui sono ancor più precipitati l’Afghanistan e l’Iraq spingono a pensare che la democrazia in fin dei conti genera instabilità, che essa non sia affatto quella “aspirazione universale” a cui tutto il mondo tenderebbe come predicavano Bush, Blair, Clinton e Obama. O perlomeno che la democrazia sia un “lusso” riservato ai popoli “benestanti” e che non possa funzionare che in “determinati contesti”.

    Ma anche in quei “determinati contesti”, le cose non vanno per niente bene. Negli Stati Uniti, la democrazia è diventata sinonimo di inefficienza politica e economica. La crescita del trumpismo si basa anche su questo. E, anche ignorando la crescita della destra negli ambienti dei “ceti medi” statunitensi, la disillusione verso la “democrazia” cresce anche e soprattutto negli strati sociali più disagiati, alimentando anche lì l’impressione che la democrazia sia una cosa in vendita per chi ha i soldi per comprarla. Il discredito della “democrazia americana” è enormemente diffuso all’interno della società statunitense, come dimostrano da un lato gli avvenimenti di Capitol Hill del 6 gennaio del 2021 e dall’altro lo straordinario movimento di Black Lives Matter.

    Né le cose vanno meglio nell’Unione Europea. L’euro è precipitato sui bilanci economici delle famiglie sulla base di decisioni prese da tecnocrati, mentre, in tutte le occasioni nelle quali i cittadini sono stati consultati, in maniera varia e con quesiti formulati in modo molto diverso (in Danimarca, in Svezia, in Francia, in Irlanda), hanno sempre prevalso i contrari. A tutto ciò va aggiunto l’esito del referendum britannico sulla “Brexit”. Né va trascurato come la UE abbia del tutto trascurato il “suo” modello democratico quando ha costretto l’Italia (con l’imposizione del governo Monti e il diktat di Draghi e di Trichet del 2011) e la Grecia (nel 2015) a contraddire scelte democraticamente assunte.

    Democrazia e globalizzazione

    Il modello un tempo trionfante della “democrazia occidentale” (“La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”) è entrato in lampante contraddizione con la globalizzazione che ha colpito e reso più deboli e meno indipendenti le politiche nazionali, il tutto a favore di istituzioni “sopranazionali” senza alcuna legittimazione democratica, o, peggio ancora, dei “mercati”

    Il declino dello stato-nazione (sul quale la democrazia moderna era stata edificata a partire dal XVIII secolo, che prevedeva un’etnia dominante e minoranze etniche marginalizzate) ne ha accelerato e reso sempre più profonda la crisi. La gente capisce benissimo che i programmi che i partiti presentano per le elezioni sono un collage di promesse fatte su temi che ormai non dipendono più da loro.

    E le cittadine e i cittadini sanno che, per quel poco che contano, gli strumenti per esercitare una qualche influenza sulle decisioni politiche sono molto più le lobby, le associazioni di interessi, i gruppi di pressione, perfino le petizioni online, piuttosto che la partecipazione ogni cinque anni alle elezioni. Il processo elettorale parlamentare, con le sue scadenze e i suoi riti, appare sempre più anacronistico e rigido. L’Economist (in un altro più recente articolo) afferma che “la democrazia rischia di fare la fine dei negozi di dischi ai tempi di Spotify e iTunes”.

    Ma i colpi maggiori che minano la credibilità della “democrazia” sono strutturali, legati al “modello economico” capitalista e al suo carattere intrinsecamente non democratico, tanto meno democratico quanto meno tenuto sotto pressione dalle lotte dal basso. Il “modello” si è separato dall’idea di una società che fondatamente promette ai suoi cittadini, a tutti i suoi cittadini, un futuro migliore del presente. Si assiste ad una “democrazia” che si associa a povertà e disuguaglianze violentemente crescenti, ad una politica priva di fondi per rispondere ai bisogni della gente perché le risorse sono sempre più destinate al privato (banche, imprese, gruppi di interesse) piuttosto che al “bene pubblico”.

    E’ stata persino criminalizzata l’acquisizione del consenso attraverso la proposta di politiche economiche particolari. E’ emblematica la grottesca accusa di “voto di scambio” avanzata nel corso della campagna elettorale italiana del 2022 nei confronti del Movimento 5 Stelle a causa della sua volontà di “difendere a tutti i costi” il reddito di cittadinanza.

    La questione democratica e la sinistra comunista

    La sinistra, e in particolare quella che si è autodefinita “comunista”, nel corso della sua storia ha avuto sempre un rapporto difficile con la questione democratica. Ha condotto lotte fondamentali e sanguinose (a volte vittoriose a volte perdenti) contro regimi autoritari e dittatoriali. Basti pensare (per limitarsi al Novecento) alla guerra di Spagna o alla resistenza antifascista. Ma ha il più delle volte banalizzato la mortifera soppressione di ogni forma di democrazia nei paesi in cui era giunta al potere.

    Con questo comportamento, stridentemente contraddittorio, ha avallato l’idea di un movimento comunista per il quale la lotta per la democrazia non costituisce un obiettivo in sé, per quanto collegato all’altro fondamentale obiettivo della giustizia sociale, ma è solo uno strumento per una più agevole lotta per la conquista del potere. D’altra parte, in quella sinistra ha cominciato ad essere usato il termine “democraticismo” per sottolineare il carattere “accessorio” e “illusorio” delle aspirazioni democratiche delle masse e per evidenziarne la subalternità alla propaganda e alla ideologia “democratica” delle classi dominanti.

    Naturalmente non vogliamo qui trascurare la critica della democrazia che hanno fatto Marx e tanti altri marxisti. Marx in particolare non sviluppò mai in maniera esauriente la sua concezione della democrazia. Nella Critica del Programma di Gotha, il regime politico tedesco viene caratterizzato così: “uno stato che non è altro se non un dispotismo militare, mascherato con forme parlamentari, mescolato con appendici feudali, influenzato già dalla borghesia, tenuto assieme da una burocrazia, difeso con metodi polizieschi”. Nei suoi scritti sulla Rivoluzione francese del 1848, Marx segnalò che la democrazia era la forma migliore di dominazione della borghesia. Ma nel Manifesto scrive: “Il primo passo nella rivoluzione operaia è l’elevarsi del proletariato a classe dominante, la conquista della democrazia”, indicando dunque quest’ultima come una delle finalità centrali del socialismo marxista.

    Lenin stesso, nel suo Stato e rivoluzione, che è il suo scritto più completo contro le forme di dominazione politica sulle masse popolari, dice testualmente: “In regime capitalistico, la democrazia è ristretta, compressa, monca, mutilata, da tutto l’ambiente creato dalla schiavitù del salario, dal bisogno e dalla miseria delle masse”.

    Ancora più chiara e polemica perfino nei confronti dei compagni rivoluzionari russi vittoriosi fu Rosa Luxemburg, che nel suo “La rivoluzione russa” scrisse: “Sicuramente ogni istituzione democratica ha i suoi limiti e i suoi difetti, come tutte le istituzioni umane. Ma il rimedio trovato da Lenin e Trotsky – sopprimere la democrazia in generale – è ancora peggiore del male che si deve curare, perché ostruisce proprio la fonte viva dalla quale possono venire le correzioni alle imperfezioni congenite delle istituzioni sociali”.

    Ancora più chiaramente, Rosa, nel suo “Riforma o rivoluzione?” del 1898 descrive tutti i limiti e le falsità delle “forme democratiche” che la classe borghese ha adottato nel dominare numerosi paesi, e al fatto che tali forme democratiche “universalistiche” non contraddicono la natura di classe del potere e dello stato.

    Resta che il nodo dell’approccio alla questione democratica non è stato chiarito in modo esauriente dai “classici” e dunque, nel 1985, non casualmente mentre il “socialismo reale” si apprestava a soccombere, la Quarta Internazionale, su impulso soprattutto di Ernest Mandel e di Daniel Bensaid, aprì un approfondito dibattito sulla questione, che portò all’approvazione nel 12° congresso mondiale di un complesso documento (“Dittatura del proletariato e democrazia socialista” – qui il testo completo in francese, qui in inglese), nel quale si recita così:

    La conclusione del documento è il rigetto di qualunque concezione della società postcapitalista come una società nella quale le libertà democratiche siano soffocate, appaiano anche solo messe in discussione o comunque più ristrette di quelle che le masse sono riuscite a conquistarsi nell’ambito del capitalismo, quindi: no al partito unico, no ai sindacati di stato, no alla restrizione della libertà di autorganizzazione, di stampa, di riunione, ecc.

    L’argomento è importantissimo in questa fase e deve essere affrontato nell’approfondimento teorico e nella pratica di lotta. Il vecchio rifiuto del “democraticismo” va profondamente riconsiderato, va evitata ogni idea di difesa della democrazia astratta, ma vanno denunciate puntualmente tutte le azioni che il capitale, di fronte alla sua crescente difficoltà di “gestione democratica”, assesta a tutte le conquiste democratiche delle lotte dei secoli e dei decenni scorsi.

    La parola “democrazia”, l’abbiamo già detto, è abusata, in sé non significa niente, non a caso persino la destra ha cercato di recuperarla stravolgendola in senso “sovranista” nella fase attuale di crisi della globalizzazione. Occorre specificarne i contenuti, rispetto ai rapporti di produzione, nella dinamica dello scontro di classe e nella prospettiva di un’alternativa complessiva. 

    Democrazia come partecipazione

    A conclusione è da ricordare che il concetto di democrazia va al di là dello specifico della rappresentanza istituzionale, ma va esteso e avvalorato da altri ambiti dove viene prodotta la partecipazione alle scelte collettive. Ci riferiamo essenzialmente alla democrazia sul lavoro, dove deve essere ripreso il concetto di rappresentanza dei lavoratori nelle scelte produttive e nei modi per attuarle.  

    I soggetti politici, compresi quelli che si autodefiniscono “antagonisti” sono gestiti in modo sempre meno democratico; prevale spesso un verticismo che esclude ogni protagonismo degli iscritti fino a cancellarne l’esistenza organizzata o a ridurla ad una scelta si/no in rete; il dibattito politico viene esercitato in ambiti sempre più ristretti e viene portato alla base solo in occasione dei congressi nazionali, momento di verifica tra componenti precostituite. 

    Deficit crescenti di democrazia sono rintracciabili anche nei sindacati, dove spesso non si confrontano concrete strategie di lotta ma solo riferimenti astratti di “componenti” interessate a dividersi le rappresentanze negli organismi dirigenti. La banalizzazione della democrazia investe anche il sindacalismo conflittuale dove il protagonismo della base viene valorizzato solo a patto che non metta in discussione i gruppi dirigenti e i loro progetti.

    Altro tema da aprire è quello della democrazia nei “movimenti” dove non dovrebbe cristallizzarsi un gruppo dirigente, neanche esclusivamente organizzativo, ma le scelte operative dovrebbero essere sempre riverificate a livello il più ampio possibile. D’altronde dovrebbero essere studiate e attualizzate nella pratica politica tutte le esperienze di democrazia partecipata maturate  storicamente, dai soviet, ai consigli di fabbrica, alle assemblee popolari, al bilancio partecipato, alle pratiche zapatista o del Rojava. 

    Non si può lottare per la democrazia nelle istituzioni se non la si promuove e la si pratica nel profondo del corpo sociale.

  • Basta ai femminicidi, proposta di discussione

    Basta ai femminicidi, proposta di discussione

    riceviamo e pubblichiamo, del Collettivo Ipazia di Napoli, da Facebook

    Astraendo dal singolo caso e dalle ipocrite affermazioni delle forze politiche e mediatiche dominanti, proviamo ad elencare qualche spunto tematico su cui è necessario sviluppare la nostra discussione:

    I rapporti di potere, come carattere fondante della società capitalista, che permeano anche le relazioni affettive, vale a dire quelle che riguardano la sfera più intima e forse più fragile nella vita delle persone, facendone un terreno di esercizio di dominio padronale.

    Il senso del possesso, inseparabile dall’esercizio di questo potere, e dall’ideologia che attribuisce valore agli individui solo se possiedono.

    Il patriarcato, inteso come sistema di relazioni di dominazione ed oppressione delle donne, che il capitalismo ha assunto da società arcaiche ma che, dato il percorso di emancipazione e liberazione intrapreso dalle donne soprattutto a partire dall’ondata femminista degli anni Settanta, oggi è messo in crisi. Ne deriva uno smarrimento e una evidente fragilità di molti uomini, giovani e meno giovani, di fronte alla loro sensazione di perdita di potere e la loro strenue e vigliacca resistenza per non perderlo e mantenere il controllo proprietario sulle loro compagne, mogli, figlie.

    La crisi del rapporto tradizionale uomo- donna, da quando le donne avanzano su tutti i fronti, mostrando di essere più forti, più attrezzate, più solide, anche forse a causa delle durezze dell’esperienza e dell’educazione storicamente diseguale, mentre molti maschi appaiono deboli, fragili, incapaci di tenere il passo, rispondono alla frustrazione con la violenza fisica che spesso sfocia in gesti estremi come l’omicidio di Giulia e di tante altre ma che, in maniera più frequente e meno appariscente, si manifesta come violenza verbale, psicologica, altrettanto dannosa e pericolosa, soprattutto perché spesso non viene percepita come tale.

    L’idea che le relazioni tra gli individui debbano passare solo attraverso lo stereotipo eterosessuale, cioè l’idea di coppia maschio-femmina, spesso vissuta come relazione fortemente accentrata sulla coppia stessa e che rappresenta l’estensione a due di quello che è l’accentramento individualistico e isolazionistico in cui siamo spinti dall’atomismo della società in cui viviamo.

    Il modo di riproduzione sociale del sistema capitalista, la base materiale su cui tutto questo si erge. Il capitalismo si serve del ruolo subalterno delle donne per conservare gli equilibri sociali, a partire dall’opera di quotidiana cura psico-fisica dei membri della famiglia, che struttura l’identità di uomini e donne facendo leva su una dedizione femminile spacciata per naturale ma in realtà instillata nelle donne fin dalla nascita. Questo meccanismo serve, inoltre, per risparmiare i costi di servizi gratuitamente forniti da un lavoro non riconosciuto come tale, e per la conseguente svalutazione della capacità di lavoro femminile anche sul mercato formale, dove tassi di occupazione e salari meno elevati per le donne sono una costante.

    Tutti gli elementi citati costituiscono un mix capace di generare l’oppressione di genere, le diseguaglianze tra uomini e donne, i comportamenti violenti. La domanda che è logico porsi è : che fare?

    La paradossale e inefficace risposta del governo in questi giorni, tra altri provvedimenti facciata, è stata quella di rinviare alla scuola il compito di svolgere una artificiosa “educazione ai sentimenti”, in un breve modulo didattico annuale che dovrebbe essere risolutivo per le problematiche di questo tipo! Ma una vera educazione a vivere le proprie relazioni con responsabilità e rispetto dell’altra o dell’altro passa attraverso una coscienza acquisita durante un lungo processo di formazione, in cui sicuramente la scuola è protagonista ma attraverso i mezzi, gli strumenti e i contenuti che le sono propri. Se si svilisce il compito della scuola, come si é fatto con le ultime controriforme, se la si fa oggetto di una trasformazione aziendalistica e autoritaria, come pretendere che metta una toppa su una lacerazione culturale e morale così profonda, che fa esplodere le potenzialità distruttive del sistema del patriarcato capitalista?

    Per noi la risposta risiede nella lotta che le donne sono in grado di fare per un cambiamento sociale radicale. Ma per questo bisogna guardare oltre il velo delle ipocrisie e degli stereotipi: lo ha fatto la sorella di Giulia, lo hanno fatto le donne che sono scese in piazza per manifestare a Roma il 25 novembre e in molte altre città nei giorni precedenti e seguenti, dando vita a cortei, flash mob, iniziative diverse.

    Un movimento che, tra l’altro, ha saputo cogliere il nesso tra la violenza contro le donne, inarrestabile qui da noi, e la violenza del genocidio in atto contro la popolazione palestinese, scatenata dal governo sionista. Le decine di bandiere per la Palestina chiedevano di smantellare le strutture che dappertutto nel mondo ingabbiano le donne e porre fine ai rapporti di dominio patriarcali e di classe, razzisti e imperialisti.

  • Politica dell’identità o politica di classe?

    Politica dell’identità o politica di classe?

    Diversi movimenti si organizzano contro le forme di oppressione legate al genere, all’orientamento e all’identità sessuale. Al contrario di una diffusa visione soggettivista e individualista, noi pensiamo che alle discriminazioni e alle oppressioni fondate sulle caratteristiche personali sia necessario dare risposta con una lotta sociale intersezionale che coniughi genere, “razza” e classe.

    Il difficile binomio classe/identità

    Il femminismo marxista ha un assunto teorico fondamentale: esiste un rapporto strutturale tra il capitalismo e l’oppressione delle donne, perciò la contraddizione uomo-donna potrà essere superata realmente solo nel quadro di una rivoluzione sociale anticapitalista; ad essa dovranno partecipare, insieme alla classe operaia, tutti i soggetti sfruttati e diseredati che combattono per la loro liberazione. 

    Quest’idea ha condotto ad affermare l’importanza strategica della convergenza tra le lotte delle donne, dei lavoratori e delle minoranze razzializzate che, in condizioni e modalità diverse, contribuiscono alla produzione e alla riproduzione del sistema capitalistico: ma questo è un obiettivo che appare tuttora lontano e difficile da realizzare. Il capitale differenzia e gerarchizza categorie di individui – la classe operaia ”bianca”, le donne, le persone di colore – non solo come espediente divisorio tra gli sfruttati – l’antico motto divide et impera fa sempre scuola – ma anche per poterli assegnare a sfere di ruolo distinte della divisione sociale del lavoro su presunte basi naturali.

    Per quanto riguarda il femminismo contemporaneo, mentre è poco conosciuta in Italia la riflessione materialista sulla contraddizione di genere, dilaga invece una politica identitaria delle minoranze sessuali smaterializzata e subalterna all’egemonia neoliberista sulla base di correnti di pensiero radicate nelle filosofie post-moderne. 

    C’è, dunque, una contrapposizione tra una “politica di classe”, che punta a ribaltare il sistema di tutte le oppressioni nella lotta contro il capitale, e una “politica dell’identità” che elude la lotta anticapitalista e preclude la possibilità di alleanza su larga scala tra diversi soggetti oppressi. 

    In questa nota ricapitoliamo le riflessioni prodotte nella storia del femminismo sull’integrazione delle lotte delle donne, degli immigrati e dei lavoratori, mettendole a confronto con teorie identitarie di segno diverso.

    L’intersezione di sesso, razza e classe

    Una teorizzazione femminista e anticapitalista sul rapporto tra diverse categorie di oppressioni emerse negli Stati Uniti alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, nell’ambito del femminismo afroamericano. Di fronte al sessismo dilagante nel movimento per i diritti civili dei neri – gli uomini pensavano che la loro battaglia avesse bisogno di una riaffermazione di “virilità” –  si formarono nuclei organizzati (Black Women’s Alliance, Third World Women’s Alliance) che adottavano una visione insieme anti-razzista e femminista e, infine, l’espressione più chiara e completa di questa tendenza, il Combahee River Collective, un collettivo di femministe lesbiche nere, che mosse i primi passi a Boston nel 1974 per iniziativa di Barbara Smith. Nel suo Manifesto, pubblicato nel 1977, questa organizzazione sosteneva che la visione dell’oppressione delle donne di colore, sia nei movimenti antirazzisti, sia nel movimento femminista nordamericano e nella sinistra bianca degli anni Sessanta e Settanta, fosse insufficiente e dichiarava di sentirsi impegnata nella lotta contro l’oppressione razziale ma anche in quella anti-sessista e di classe, considerato che queste tre forme di oppressione erano presenti nella loro esistenza quotidiana e costituivano determinanti significative nella loro vita lavorativa.  

    La sintesi di queste oppressioni crea le condizioni della nostra vita. […] Crediamo che la politica contro il sessismo sotto il patriarcato sia tanto pervasiva nella vita delle donne nere quanto la politica della classe e della razza. Troviamo anche spesso difficile separare la razza dalla classe e dall’oppressione sessista, perché nella nostra vita sono spesso vissute simultaneamente”.

    Il principale nemico da combattere, affermava il collettivo, era il capitalismo ma finché il movimento di liberazione dei neri non si fosse accorto che sessismo, razzismo e classismo erano tre facce dello stesso dominio, la lotta non sarebbe stata completa e sarebbe risultata inefficace. Questo, però, richiedeva anche che la lotta di classe superasse il suo economicismo teorico tradizionale.

    “Ci rendiamo conto che la liberazione di tutti i popoli oppressi richiede la distruzione dei sistemi politico-economici del capitalismo e dell’imperialismo così come del patriarcato ma il socialismo non basta, l’analisi di Marx deve essere ulteriormente estesa […]. Se le donne nere fossero libere, significherebbe che tutti gli altri dovrebbero essere liberi, poiché la nostra libertà richiederebbe la distruzione di tutti i sistemi di oppressione” (sempre dal Manifesto del Combahee River Collective).

    Il Black Feminism degli anni Ottanta ha proseguito lo sviluppo di queste prime formulazioni del concetto di integrazione della lotta di classe, di genere e di “razza”. La maggior parte delle sue rappresentanti, Angela Davis, Audre Lorde, Patricia Hill Collins, bell hooks e molte altre, ha una chiara prospettiva rivoluzionaria. Il saggio di Davis Donne, razza e classe , considerato uno dei testi seminali del femminismo nero americano, analizza l’interconnessione dei rapporti di classe, razza e genere non solo nella loro dimensione soggettiva, ma anche sul piano del loro sviluppo all’interno dei rapporti di produzione capitalistici.

    A Colette Guillaumin, una figura importante nel femminismo materialista francese, si deve un’analisi della “razza” e del genere come due diverse forme di naturalizzazioni di un dominio di origine sociale: è l’oppressione a creare categorie sulla base di semplici attributi personali che non dovrebbero avere alcun riflesso sociale; è l’ideologia della classe dominante che fabbrica un’idea di “natura” immodificabile che nasconde l’origine sociale dell’asimmetria di rapporti tra i gruppi1. Allo stesso tempo Guillaumin critica la tendenza della classe bianca occidentale a considerare il resto del mondo una propria periferia e quella del femminismo bianco a ritenere universali i propri modelli di emancipazione. Questo spiega perché il suo pensiero non trova quasi spazio nell’istruzione universitaria e nei centri di ricerca accademica italiani (e non solo), negli studi di genere in cui, invece, la teoria essenzialista della differenza occupa posizioni predominanti2 .  

    Sul finire degli anni Ottanta Kimberlé Crenshaw, giurista nera americana, ha usato il termine “intersezionalità” in un articolo scritto per il Forum legale dell’Università di Chicago per mostrare l’insufficienza della politica del governo americano a favore della minoranza nera, invitandolo a non guardare al genere e alla razza come aggregato informe ed omogeneo se voleva fare giustizia alle donne proletarie di colore, che sperimentano forme di discriminazione sovrapposte. Il saggio ha avuto un grandissimo successo, non solo negli Usa, e nei decenni successivi la terza ondata (o quarta, se consideriamo come terza il black feminism americano) del femminismo occidentale ha ripreso il concetto di intersezionalità, tuttavia con un significato profondamente diverso, corrispettivo di una visione del mondo mutata, senza più rapporto con la politica di classe. 

    La visione del femminismo mainstream 

    Con la mondializzazione dell’economia e l’affermarsi della politica neoliberale, un’ideologia pervasiva che mette al centro il libero mercato, il profitto, il culto dell’individuo, opera una svolta reazionaria nella lettura della società e del conflitto sociale. Tra crisi economiche e ristrutturazioni del sistema produttivo, il movimento operaio, senza più difese da parte delle rappresentanze politiche e sindacali tradizionali, rallenta la sua dinamica, l’identità di classe comincia ad appannarsi tra gli stessi i lavoratori. La classe è sempre meno un riferimento nell’analisi della realtà sociale.

    In questo quadro nascono numerose mobilitazioni femministe contro l’ondata di violenza dappertutto crescente nel mondo, per la conquista o la difesa del diritto all’aborto gratuito in ospedale, contro le diseguagliane di genere; una grande spinta dal basso proietta sulla scena internazionale lo sciopero sociale delle donne e apre un nuovo capitolo di mobilitazioni in molti paesi. Alcune organizzazioni femministe si definiscono “intersezionali”. Che cosa vuol dire, per loro?  Nulla che faccia pensare ad una eredità teorica dell’idea di convergenza delle lotte di genere con quelle di “razza” e di classe, che si era delineata in precedenza.

    A titolo di esempio, in un testo del 2017 dell’organizzazione italiana Nudm si afferma che le persone nella società sono divise sulla base delle loro caratteristiche di genere, razza, abilità, età ed altre variabili soggettive; ognuna di esse si colloca lungo l’asse di una relazione interpersonale tra dominante e dominata/o  su uno di questi terreni specifici e ogni persona può essere interessata da più di un asse di oppressione e, quindi, la sua posizione individuale nella società si trova nel punto della loro intersezione. 

     “… Per liberarci dall’oppressione allora è fondamentale prima di tutto riappropriarci della nostra identità, partendo dall’idea che il nostro vissuto è valido tanto quanto quello altruiEcco che l’identità smette di essere la nostra natura che ci porta necessariamente alla sottomissione, per diventare uno strumento attivo di lotta politica. Quest’idea moltiplicata per tutti gli assi di oppressione e le loro intersezioni dà origine al femminismo intersezionale: una prospettiva politica che abbraccia molteplici lotte contro tutte le oppressioni possibili, senza imporre una gerarchia fra di esse ma rivendicando le specificità di ciascuna.”

    E’ facile rinvenire, in testi come questo, le teorizzazioni di alcuni filosofi politici post-moderni (Foucault, Derrida), l’idea di un “potere istituzionale reticolare” che attraversa l’intero corpo sociale nelle mille relazioni della vita quotidiana. Le lotte che i singoli conducono lungo il loro asse specifico di oppressione non si incrociano tra loro e, non essendoci gerarchia tra le forme di dominio, non c’è fattore esplicativo o motore dinamico del sistema né visione strategica unitaria. Ma come si può combattere contro la sopraffazione senza ricondurne le cause al sistema che la produce? D’altra parte la classe, pensata in termini liberali, non è l’insieme collettivo unito da un interesse antagonista a quello dei capitalisti, è un gruppo di individui stratificato secondo criteri economico-statistici. Nella lotta contro il potere, non ha centralità teorica e pratica. 

    All’intersezione dei propri assi relazionali, le persone sono centrate su se stesse, piuttosto che nella possibilità di un percorso comune con tutti gli altri soggetti dominati. Lungo l’asse di oppressione del genere, più delle rivendicazioni di ordine materiale (salute, lavoro, abitazione ecc.) diventa centrale il tema dell’identità sessuale. L‘accento è messo sulle persone LGBTQIA+ e il movimento prende la denominazione di “transfemminismo”, facendo spazio ad ogni collocazione rispetto al genere, in un elenco a cui si aggiunge il segno + per indicare la sua potenziale espansione.  

    “Il transfemminismo è un movimento di resistenza e una teoria che considera il genere, arbitrariamente assegnato alla nascita, una costruzione sociale, strumento proprio di un sistema di potere che controlla e limita i corpi per adattarli all’ordine sociale eterosessuale e patriarcale. Il transfemminismo muove dalla materialità delle vite e delle esperienze trans, femministe e queer, dalla complessità e dalla molteplicità delle collocazioni di genere e sessuali e riconosce l’intreccio tra la matrice patriarcale e quella capitalista delle oppressioni che colpiscono tutte le soggettività che non sono maschi bianchi eterosessuali” (Dal Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne”, Nudm).

    Il background teorico è il queer, un insieme di teorizzazioni, non sempre coerenti tra loro, emerse negli anni Novanta in alcuni circoli accademici americani e diffuse nei gender studies di una pletora di cattedre universitarie di molti paesi dell’Occidente. 

    Che il genere sia socialmente costruito per finalità di dominio, è un’idea conosciuta da diversi decenni, a partire dal famoso saggio di Simone De Beauvoir sul “secondo sesso” ed anche il movimento femminista degli anni Settanta, pur senza mettere in discussione il precetto eterosessuale, criticò fortemente il modello tradizionale di “femminilità”, affermando il diritto di controllo sul proprio corpo e sulla propria sessualità. Ma il queer radicale considera il genere indipendente dal sesso biologico e lo stesso sesso biologico “imposto alla nascita”, come afferma Judith Butler, considerata l’iniziatrice di questa posizione, ipotizzando che ciascuno possa liberamente scegliere la propria caratterizzazione sessuale e la propria identità di genere. Questa posizione si è diffusa nel dibattito politico corrente sempre più estesamente, tanto che – anche in molti settori della sinistra politica – sembra impossibile poter nominare il femminismo senza aggiungere anche il “transfemminismo”, come se le donne fossero sfruttate e oppresse per ragioni di identità sessuale e non per il ruolo strutturale che rivestono nella riproduzione della società capitalistica e nella generazione della specie.

    Le istanze LGBTQIA+ e gli obiettivi storici dei movimenti femministi appartengono ad un diverso spettro politico. Certamente il femminismo marxista si schiera dalla parte delle persone che rivendicano la libertà di essere se stessi, fuori del tradizionale modello eterosessuale. Le loro lotte si sono sviluppate a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso; una data significativa è il 1969, i moti di Stonewall, per lo più ricordati come rivolta del movimento omosessuale ma in cui ebbero un ruolo determinante Sylvia Rivera e la comunità trans, che già era stata protagonista di una sollevazione anni prima a San Francisco, mentre il gruppo lesbico Lavender Menace protestava contro l’invisibilità e l’esclusione dell’esperienza lesbica dal movimento femminista maggioritario di quel periodo. Erano tempi in cui all’omosessualità maschile si applicavano “terapie di conversione”  o di “riorientamento sessuale”, oggi al bando nella gran parte dei paesi, mentre l’omosessualità femminile veniva semplicemente ignorata e occultata. Le espressioni di genere e i caratteri sessuali sono ancora oggi causa di discriminazione, esclusione sociale ed economica, perfino di violenza, in moltissimi stati del mondo. Quale azione politica la visione queer prospetta per questo movimento?

    Queer  è un termine di autonominazione, inclusivo, trasversale, che si focalizza sulla identità sessuale non in quanto realtà oggettiva ma come terreno mutevole, transitorio. Insieme di teorie e pratiche che sovvertono le regole delle opposizioni binarie (binarismo di genere, binarismo sessuale, ecc). Le teorie queer intendono la sessualità come un intreccio di sesso, genere e orientamento sessuale che viene costruita socialmente e costantemente riprodotta dai soggetti.” (Ancora dal “Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne”, Nudm)

    Anche queste teorizzazioni hanno radici nel pensiero filosofico post-moderno che – sia pure in una grande varietà di approcci ed elaborazioni – è caratterizzato dal rifiuto delle grandi ideologie otto-novecentesche, mette in discussione il presupposto della conoscenza razionale della realtà, individua nella relatività e nella provvisorietà il carattere proprio della condizione dell’essere. Di conseguenza il queer afferma l’idea che gli uomini e le donne siano il prodotto di costrutti culturali – tanto che alcuni usano mettere questi termini tra virgolette – si è uomini o donne a seconda che ci si comporti da uomini o da donne nella cornice eterosessuale. L’individuo non ha una collocazione definita rispetto al genere, in una transizione anche mutevole nel tempo, da un sesso convenzionale ad un altro. Il sesso e il genere non sono che un punto di vista soggettivo, in un rapporto di pura arbitrarietà nei confronti del reale.

    Si spiega la straordinaria importanza che viene attribuita al linguaggio. “Chi dice che esista una realtà oltre il linguaggio? Il linguaggio è la realtà!” Il linguaggio costituisce la realtà, piuttosto che essere espressione di rapporti sociali costituiti. L’idea è preesistente, la materia è sostanzialmente un effetto derivato da essa.   

    La negazione della realtà al di fuori dell’intelletto non è una novità nella storia del pensiero occidentale: il queer si presenta come una variante dell’idealismo, in vesti più aggiornate, e sarebbe un errore sottovalutarne le potenziali derive reazionarie sul piano politico. Il marxismo è nato a partire dalla critica di Marx alla filosofia idealista, che attribuiva allo Spirito il primato nella creazione del mondo e della realtà; molte volte Engels e Lenin nelle loro opere hanno dichiarato l’inconciliabilità del marxismo con l’idealismo, anche per quello che riguarda il dibattito intorno alle scienze. Il materialismo riconosce che le nostre idee sono espressione dell’interazione sociale e del nostro rapporto con la natura, della quale facciamo parte.

    Ma eliminare le categorie biologiche di donna e uomo, non elimina lo sfruttamento e i divari della realtà sociale. Focalizzarsi su un solo ambito dell’esistenza – la sessualità individuale – non comporterà azioni politiche efficaci per un cambiamento del sistema di relazioni sociali entro cui si vive, che continuerà a riprodurre i suoi meccanismi coercitivi, tutt’al più ci si potrà rifugiare in un’area a parte all’interno dello stesso sistema che si critica. La politica dell’identità pensata all’interno di questa logica ostacola la possibilità di una alleanza costruttiva tra i gruppi oppressi, necessaria alla lotta contro un capitalismo che non solo ha imposto il suo modo di organizzare il lavoro e lo sfruttamento delle risorse naturali, ha reso i corpi mezzi di produzione uniformati ad una precisa disciplina, privilegiando il maschio bianco, cisgender ed eterosessuale.  

    Il femminismo marxista non ha modelli di comportamento sessuale da indicare. Nella società che vogliamo costruire nessuno dovrà essere per forza o bianco o nero, ci sarà spazio per le molteplici espressioni della personalità umana, oggi costretta nella miserabile gabbia degli stereotipi del “maschile” e del “femminile”, come li intende la cultura patriarcalista, per produrre gerarchie sessiste funzionali al capitalismo.  

    Perciò combattiamo ogni forma di discriminazione e stigmatizzazione sociale dei soggetti che non si riconoscono nel modello eterosessuale, e siamo dalla parte di chi vive un’esistenza segnata dall’ esclusione, marginalizzazione, precarietà e dalla violenza anche mortale, come le persone LGBTQIA+ soprattutto se di origine proletaria. Alcune di loro giustamente colgono la connessione tra disuguaglianza di classe e gerarchia di status nella società contemporanea, cominciano a mettere in discussione una politica identitaria limitata all’obiettivo del riconoscimento, perché una politica dell’identità che chieda semplicemente un’estensione della democrazia liberale non può essere sufficiente che per alcune élite privilegiate, a cui già guarda un settore di costose cliniche specializzate e di case farmaceutiche che mirano ad un nuovo settore di mercato.

    Dalla battaglia identitaria a quella di classe

    Il femminismo materialista rappresenta una piccola corrente testarda in un fiume di femminismo liberale e idealista che sembra invalicabile.

    Noi chiamiamo “genere” il complesso delle qualità ideali e dei comportamenti attesi dagli uomini e dalle donne, spacciati per naturali ma instillati dall’educazione e dai modelli sociali.  In questo senso il genere è il prodotto di una relazione sociale che, nella storia, ha assunto forme diverse in seno a società differenti.  La famiglia monogamica ed eterosessuale, con la sua ripartizione di ruoli di genere, si è costituita in un momento del passato in cui la società si è divisa in classi ed è nata la proprietà privata. Questa forma di convivenza si è rivelata utile per il capitalismo, per la sua esigenza di non pagare la rigenerazione quotidiana della forza-lavoro, perché a questo provvedevano le donne, sottoposte ad un imperativo che ne faceva un corollario obbligato del compito (questo sì) naturale di produzione della specie umana. Trattandosi di riproduzione di persone e non di merci, il lavoro di riproduzione sociale comprende la cura delle menti, delle relazioni, degli equilibri psichici dei membri della famiglia, anche questo indispensabile alla conservazione della società. 

    Tuttavia il processo che scarica sulle donne l’enorme peso della riproduzione sociale non è avvenuto nell’identico modo nello spazio e nel tempo, non riguarda allo stesso modo tutte le persone, articolandosi anche secondo le linee della divisione di classe, ma in ogni luogo il principio binario si è affermato, a garanzia della gerarchia familiare e sociale.

    Nei fatti oggi, almeno nell’area occidentale, non sono pochi rispetto al passato i cambiamenti di personalità e comportamento delle donne: una conquista di libertà che spesso pagano con la vita, o con altre forme di violenza subita, quando rifiutano la soffocante dedizione totale che il ruolo tradizionale richiede. Ma il capitalismo mostra la sua flessibilità: è permesso ad una élite essere donna in un modo diverso dalle prescrizioni tradizionali, purché il problema della riproduzione sociale continui a ricadere sulla dimensione privata senza disturbare l’ordinata prosecuzione della produzione. Un alto numero di donne ha avuto accesso a lavori tradizionalmente maschili, in cambio impiegando un crescente numero di proletarie immigrate nel lavoro domestico familiare, e la cooptazione negli ambiti politico-istituzionali dello strato sociale più privilegiato ha aperto la strada all’idea riformista del possibile miglioramento della condizione femminile nell’ambito del capitalismo. Il divario di classe e di ruolo segmenta pesantemente l’omogeneità sociale della condizione di genere.

    Ma il dominio sulla grande massa delle donne è sempre al centro del sistema economico capitalistico, è radicato nella natura del mercato del lavoro salariato, forma storica dello scambio tra lavoro e mezzi di sussistenza. Diverse forme di famiglie si affiancano a quella nucleare tradizionale  – la famiglia di coppia senza figli, monoparentale, arcobaleno, single – accettate o tollerate purché svolgano il lavoro della riproduzione sociale, mentre i continui tagli della spesa pubblica smantellano il welfare e aggravano il peso del lavoro non pagato che grava su di loro. 

    Questa realtà ci spinge a misurarci con la reale condizione di vita di questa massa e con la necessità di unire tutti gli oppressi e gli sfruttati in una lotta contro il governo e il sistema capitalistico nel suo insieme. Nell’acutissima fase di crisi plurali che abbiamo davanti, questo è anche l’unico antidoto alle macellerie sociali, alle guerre, al degrado umano. 

    Ignorare la teoria della riproduzione sociale, per il femminismo significa non avere difese dall’irruzione di ideologie smobilitanti, allontanarsi dalle aspirazioni del movimento storico delle donne il quale, lottando per le sue rivendicazioni, ha sempre prodotto cambiamenti importanti nella società. 

    Resta da dire che, sul piano internazionale, le donne lottano contro la barbarie del nuovo ciclo politico globale, formalmente non affiliate ad una organizzazione femminista ma ricche di una nuova consapevolezza di sé. In questa nuova “ondata” le abbiamo viste guidare mobilitazioni contro il governo dei loro paesi, come nelle grandi manifestazioni delle indiane contro le leggi agrarie di Modi, delle americane contro il sessismo di Trump, delle afroamericane contro la polizia razzista, delle brasiliane contro il fascista Bolsonaro, delle iraniane contro l’oppressione sessista degli ayatollah. Nel sud-est asiatico le lavoratrici tessili hanno incrociato le braccia nelle fabbriche dal salario di 2 euro al giorno.  In Polonia e in America Latina ci sono state innumerevoli mobilitazioni contro l’attacco al diritto di aborto e in Tunisia, India, Algeria, Bangladesh contro femminicidi e stupri. E vediamo le sollevazioni dei popoli autoctoni del Sud del mondo, di cui sono protagoniste le donne, che si oppongono all’appropriazione delle terre da parte delle grandi imprese occidentali dell’agrobusiness e alla devastazione ambientale dello sfruttamento minerario e delle grandi opere infrastrutturali.  

    Ormai parliamo di “femminismi”, al plurale, distinti e storicamente situati.

    1. Guillaumin, Colette Sesso, razza e pratica del potere. L’idea di natura, Ombre corte 2020. Il volume raccoglie testi scritti da Colette Guillaumin tra il 1977 e il 1992, colma un vuoto esistente in Italia nel dibattito attorno al femminismo e al razzismo da un punto di vista materialista. ↩︎
    2.  La teoria essenzialista interpreta la categoria “donna” come un insieme omogeneo, la cui soggezione è la diretta conseguenza delle differenze intrinseche tra uomini e donne sul piano del modo di essere e di agire. ↩︎
  • Stati Uniti, dagli attori agli operai dell’auto, torna la lotta di classe

    Stati Uniti, dagli attori agli operai dell’auto, torna la lotta di classe

    di Dan La Botz, da internationalviewpoint.org

    L’ultimo anno ha visto un numero notevole di minacce di sciopero, scioperi e accordi di sciopero in diversi settori, dalle caffetterie alle ferrovie, da scrittori e attori a camionisti e lavoratori dell’auto. Al momento, 25.000 lavoratori del settore auto e 150.000 attori sono in sciopero.

    In questa sede ci occupiamo dello sciopero degli attori, ma prima di farlo dovremmo ricordare lo slancio che si sta gradualmente sviluppando nel movimento sindacale. I lavoratori di Starbucks si sono organizzati e hanno scioperato, e ad oggi 354 negozi con quasi 9.000 lavoratori sono sindacalizzati, ma nessuno ha ottenuto un contratto. Nell’aprile del 2022 i lavoratori di Amazon a New York hanno votato per la sindacalizzazione, ma anche loro non hanno ancora un contratto. E hanno perso le elezioni per la rappresentanza sindacale in altre strutture Amazon.

    I lavoratori delle ferrovie avevano intenzione di scioperare alla fine del 2022, ma a dicembre il presidente Joe Biden e il Congresso hanno utilizzato il Railway Labor Act per impedire lo sciopero e imporre un contratto successivamente accettato dai sindacati. Il sindacato Teamsters (dei camionisti e dei corrieri) aveva in programma di scioperare contro UPS, ma a luglio di quest’anno ha raggiunto un accordo con molti vantaggi, anche se, a causa della decisione dei dirigenti di non scioperare, non è riuscito a migliorare le condizioni di molti lavoratori part-time.

    Poi sono arrivati gli scrittori e gli attori, che hanno bloccato un’industria che impiega oltre due milioni di lavoratori di ogni tipo. Gli sceneggiatori hanno scioperato a maggio e gli attori si sono uniti a loro nei picchetti a luglio, il primo blocco dell’industria in oltre 60 anni. Stavano colpendo alcune delle aziende più potenti d’America. I datori di lavoro, l’Alliance of Motion Picture and Television Producers, rappresentano i principali studi cinematografici come Paramount, Sony, Universal, Disney e Warner Brothers, le principali reti televisive (tra cui ABC, CBS, FOX e NBC), i servizi di streaming come Netflix, Apple TV+ e Amazon, nonché alcune società via cavo.

    Entrambi i sindacati rispondono ai cambiamenti del settore con l’aumento dei servizi di streaming, cresciuti in modo fenomenale durante il COVID. Sono anche preoccupati per i rapidi sviluppi dell’intelligenza artificiale (AI) che hanno minacciato sia gli sceneggiatori che gli attori.

    Tutto questo ha portato a una maggiore determinazione. Circa 11.000 scrittori di film, televisione, notiziari, radio e online hanno ottenuto un’importante vittoria dopo 148 giorni di sciopero. Con l’industria alla disperata ricerca di nuovi spettacoli online e nelle sale cinematografiche, i lavoratori hanno ottenuto garanzie di lavoro e retribuzioni più elevate. Hanno anche ottenuto la garanzia di non essere sostituiti da ChatGPT. Ma circa 150.000 attori televisivi e cinematografici, che hanno scioperato a maggio, sono ancora in sciopero.

    Una grande preoccupazione degli attori è quella di essere sostituiti da “sosia digitali”. Lo studio può chiedere a un attore di entrare nella “sfera”, ovvero la cabina di fotogrammetria dove centinaia di telecamere registrano la sua immagine mentre assume diverse espressioni e pose. Una volta scattate le foto, come spiega Scientific American, “gli artisti degli effetti visivi (VFX) portano il modello da bidimensionale a tridimensionale”. L’immagine tridimensionale viene quindi collegata a uno “scheletro” visivo mosso da un attore o da un’animazione e collocato sullo sfondo appropriato. Gli studios potrebbero non aver bisogno di attori, anche se potrebbero comunque volere un bel viso.

    Gli attori in sciopero sono stati incoraggiati dall’accordo con gli sceneggiatori, ma lo sciopero è stato molto lungo. Alcuni sceneggiatori hanno continuato a marciare sui picchetti con loro, così come alcuni lavoratori ospedalieri in sciopero. Sia gli attori che i lavoratori dell’auto hanno fatto picchetti davanti agli uffici della HBO e di Amazon a Manhattan. Per entrambi i sindacati sarà una lotta dura. La lotta di classe è tornata e, anche se finora i risultati sono stati contrastanti, le azioni di questi lavoratori rappresentano un cambiamento epocale nella società americana.

    • Ecosocialismo, una strategia anticapitalista

      Ecosocialismo, una strategia anticapitalista

      Oggi la parola ecosocialismo è abbastanza inflazionata, usata dalla autodefinitasi “sinistra” semplicemente per accostare difesa dell’ambiente e diritti sociali e darsi un aspetto più presentabile e attuale. Viceversa è un compito fondamentale della fase definire cosa intendere e come tradurre in pratica politica l’ecosocialismo. 

      La parola “ecosocialismo” fu introdotta per la prima volta nel 1975 da Joel de Rosnay che ne dette la seguente definizione: “convergenza delle politiche economiche e sociali verso la protezione dell’ambiente“, si sosteneva, cioè, che la protezione dell’ambiente dovesse divenire un’azione collettiva e coordinata; questo perché precedentemente il rapporto individuo ambiente veniva visto dalle teorie più avanzate come il naturismo e dall’ecosofia, come rapporto interiore ed individuale. 

      Successivamente, l’opera dei grandi teorici quali Grosz, O’Connor, Bahro diede all’ecosocialismo una veste politica compiuta ed è prevalsa l’idea che per ecosocialismo dovesse intendersi l’affrontare le questioni ambientali in un’ottica socialista, usando cioè gli strumenti teorici del marxismo e le pratiche del movimento di classe. 

      Questa definizione, però, non è più attuale perché i 50 anni trascorsi valgono una intera era geologica. Oggi per ecosocialismo deve, invece, intendersi la strategia del superamento del capitalismo. “Le crisi del nostro tempo possono e devono essere intese come opportunità rivoluzionarie che dobbiamo coltivare veniva detto nel Manifesto dell’ecosocialismo di Kovel e Lowy.

      Negli ultimi decenni la scienza ha descritto quello che sta succedendo in termini globali a causa dell’aumento della concentrazione dei gas serra nell’atmosfera, dallo scioglimento delle calotte polari, alla desertificazione di aree agricole importanti, all’aumento della frequenza e dell’intensità di eventi metereologici catastrofici, all’innalzamento del livello del mare, alle modifiche della circolazione termoalinica degli oceani, alle ondate di calore anomale, alla scomparsa di un numero elevatissimo di specie biologiche che ha fatto introdurre il termine di sesta estinzione di massa. Nel contempo, l’inquinamento dell’aria, dell’acqua e della terra  ha invaso ogni angolo del pianeta.

      L’allarme dato dalla comunità scientifica per far ridurre il consumi dei carburanti fossili è rimasto inascoltato dalle istituzioni politiche nazionali ed internazionali che non hanno voluto né potuto mettere un freno agli interessi della crescita produttiva del sistema mondo. Il movimento ecologista da Seattle in poi ha incontrato quello anticapitalista nei forum sociali mondiali ed in grandi mobilitazioni transnazionali. D’altro canto, nell’Occidente più avanzato, la critica al produttivismo, alla rincorsa del PIL, la critica a stili di vita incompatibili con l’ambiente ha portato alla formulazione di progetti decrescisti, necessariamente anticapitalisti.

      Oggi, dopo i risultati nulli delle COP, dopo il fallimento dei programmi di greenwashing, l’ecosocialismo diventa l’unica soluzione per un futuro vivibile. Il fallimento del capitalismo, responsabile dei quotidiani disastri ecologici è sotto gli occhi di tutti, e la prospettiva di cambiamento globale del sistema mondo non è più frutto di approfondite analisi sociologiche di studiosi, ma è diventato buon senso della gente comune. L’anticapitalismo potrebbe, anzi dovrebbe, diventare il tema organizzativo centrale di un nuovo buonsenso, scrive Nancy Fraser.

      Mentre nel secolo scorso il socialismo era visto come una prospettiva di riscatto delle classi oppresse, oggi il socialismo diventa l’unica alternativa di sopravvivenza della società umana.

      Mentre fino a prima di Parigi 2015, l’ecosocialismo poteva intendersi come coniugare diritti sociali, lavoro ed ambiente, affrontare i problemi ambientali in un’ottica di sinistra, oggi per ecosocialismo deve intendersi trovare una strategia di rivoluzione anticapitalista e progettare un’alternativa compatibile con i limiti dell’ambiente. Oggi ecosocialismo deve intendersi, contemporaneamente come modo di produzione postcapitalistico, come prospettiva culturale di un diverso rapporto tra gli individui e la biosfera, come idea politica di democrazia dal basso che superi la democrazia rappresentativa. 

      Infine ecosocialismo deve essere inteso come visione geopolitica per un rapporto tra i popoli gestito globalmente in modo paritario. Oggi il 10% più ricco del mondo rappresenta la metà delle emissioni globali di carbonio (IEA). Infatti, nel 2021 il 10% più ricco ha prodotto in media 22 tonnellate di CO2 pro capite, oltre 200 volte il 10% più povero: la giustizia climatica inizia dalla correzione di questa scandalosa disuguaglianza socioeconomica e i lavoratori e le lavoratrici, i salariati sfruttati del mondo sono ancora il motore sociale di questa necessaria trasformazione. 

      Oggi rispetto a solo qualche decennio fa, la situazione dei cambiamenti globali è peggiorata moltissimo; non è più possibile parlare di baratro che si avvicina, perché nel baratro ci siamo già, ma gli incendi, le inondazioni, le ondate di calore, l’estinzione di specie, la siccità, gli eventi estremi che stiamo vivendo saranno poca cosa rispetto a quello che si prospetta se non si cambia sistema. 

      Già oggi i danni prodotti dai cambiamenti climatici difficilmente trovano risorse finanziarie pubbliche per essere riparati. Come sempre, il capitale tenta di adattarsi alla nuova situazione e crescono gli interessi della finanza assicurativa per coprire i danni prodotti dalle catastrofi, della sanità privata per porre rimedi ai danni alla salute prodotti dagli inquinanti, dei gestori dei Canadair usati per bloccare gli incendi, delle multinazionali dell’acqua che, meno disponibile, diventa più cara. Il capitale guarda all’immediato, non si pone il problema di quando non sarà più possibile trovare risorse finanziarie per affrontare tali problemi.

      Naturalmente gli anticapitalisti non devono limitarsi a gridare a lupo, al lupo, ma devono elaborare una strategia di superamento del capitalismo che faccia i conti con i tempi residui della crisi planetaria: la cosa è tutt’altro che semplice, ma deve essere questo il senso dell’anticapitalismo oggi. Le difficoltà sono enormi e il compito al limite del possibile. 

      In questa strategia un posto fondamentale spetta alla classe dei lavoratori. I movimenti sindacali e i movimenti per il clima devono convergere contro i governi neoliberisti e i regimi autocratici. Il sindacalismo deve finalmente fare i conti con i vincoli ecologici. Un nuovo sindacalismo verde deve prendere il posto delle vecchie burocrazie socialdemocratiche e imprenditoriali e aprire una nuova stagione conflittuale dove siano i lavoratori e le lavoratrici a pretendere non solo la bonifica ecologica dei loro luoghi di lavoro, ma anche la radicale messa in discussione di ciò che producono, di quanto e come lo fanno.

      Pretendere la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, il reddito minimo garantito, la nazionalizzazione delle compagnie energetiche ed il controllo pubblico delle risorse strategiche: il nuovo sindacalismo deve promuovere un’agenda occupazionale basata sulla conversione dell’industria fossile e la massimizzazione dei lavori verdi: il risanamento ambientale, educativo e sanitario è destinato a richiedere grandi quantità di lavoro sociale, immense opportunità occupazionali nella prospettiva della difesa delle popolazioni dagli effetti dei cambiamenti climatici.

      In questo contesto, ogni vertenza ecologista locale, ogni battaglia che può sembrare minore, deve inserirsi nel contesto generale di progetto anticapitalista. Le battaglie nazionali in difesa dell’acqua pubblica, del mare pulito, del rifiuto del fossile devono collegarsi a livello planetario. La strategia complessiva può essere quella di tenere insieme le diverse contraddizioni, prospettando da subito l’alternativa complessiva.

      Il tema della rivolta deve essere centrale: rivolta significa mobilitazione che chiede gli stessi diritti per tutti, uomini e donne, superando contemporaneamente patriarcato e capitalismo; che chiede una riscrittura costituzionale dove al valore di scambio si sostituisca il valore d’uso, dove si favoriscano i beni comuni contro l’accaparramento del profitto, dove venga incentivata la democrazia dal basso, dove non ci siano sperequazioni in base all’orientamento sessuale, alla religione, all’etnia, dove vengano tassati i patrimoni, dove vengano cancellate le spese militari.

      Come mettere in moto questo movimento? Purtroppo si deve iniziare da zero o da sottozero per i guasti prodotti dalla sedicente sinistra, ma l’occasione dell’insostenibilità dei cambiamenti climatici può essere, se viene centrato come tema unificante, il grimaldello per aprire la strada al cambiamento di sistema.

      Bisogna tener presente che questa è una battaglia che si combatte contro i capitalisti, ma non solo. Non è certamente facile convincere le masse alla necessità di cambiare stile di vita, limitando i consumi, la mobilità, l’energia.

      È già ampio e si va ingrandendo il fronte dei negazionisti. Le destre, soprattutto le estreme, usano l’ignoranza e l’irrazionalità diffusa per accreditarsi ad essere chi vuole salvaguardare l’attuale normalità dai “sapientini”, uccelli del malaugurio. Si inventeranno complotti, metteranno in campo qualche vecchio scienziato rincitrullito per dire che la scienza è contraddittoria e che c’è chi vuole limitare le libertà individuali.

      Sono dinamiche conosciute che bisogna saper affrontare. Già si vede che il partito degli allevatori intensivi olandese aumenta i consensi, che sovranisti alla Bolsonaro fanno campagne elettorali per espandere la produzione di carburanti fossili. 

      Ma, se si pone l’obiettivo del superamento del capitalismo, bisogna riempire di contenuti concreti la transizione ad un sistema mondo nello stesso tempo socialista ed ecocompatibile. Soggetto che apre una discussione difficile e urgente, ma alla quale, dobbiamo dire la verità, siamo ancora impreparati.

      Questo non è più il tema della città del sole, della futura umanità, del sol dell’avvenire, tema da riempire di giustizia, verità ed eguaglianza; è il tema della compatibilità ambientale, da riempire con giustizia, verità, eguaglianza ma anche con scienza, soluzioni tecnologiche adeguate, consapevolezza e, soprattutto, razionalità adeguata.

    • Tax Justice Network, la fuga nei paradisi fiscali ruba 5.000 miliardi di dollari in 10 anni

      Tax Justice Network, la fuga nei paradisi fiscali ruba 5.000 miliardi di dollari in 10 anni

      di Fabrizio Ortu, da fiscooggi.it, rivista online dell’Agenzia delle Entrate

      Il nuovo report dell’organizzazione promuove un appello per l’approvazione di una Convenzione fiscale delle Nazioni Unite

      Tax havens 2023

      I contribuenti che si servono dei paradisi fiscali per sfuggire al fisco causeranno una perdita complessiva di 5.000 miliardi di dollari Usa di entrate a livello mondiale nei prossimi 10 anni: una perdita di gettito equivalente alla intera spesa sanitaria pubblica nel mondo in un anno.

      Sono queste le conclusioni a cui approda il report di Tax Justice Network pubblicato a luglio. Come invertire la tendenza? L’organizzazione promuove un appello a favore dell’avvio dei negoziati per l’approvazione di una Convenzione Fiscale delle Nazioni Unite presso l’Assemblea generale (vedi l’articolo su Fisco Oggi “Onu: avanza la proposta africana di un Convenzione globale sulla tassazione”).

      Il documento dedica, inoltre, un’attenzione specifica al rapporto fra multinazionali e paradisi fiscali (o Tax Haven), all’asse costituito dal cosiddetto “Secondo Impero” del Regno Unito e all’attuale ruolo rivestito dall’Ocse.

      Il ruolo delle multinazionali

      I Tax Haven consentono di sottrarre alle giurisdizioni nazionali ben 480 miliardi di dollari ogni anno. Secondo il Tax Justice Network di questa cifra complessiva, 301 miliardi di dollari sono attribuiti alle multinazionali che dirottano i profitti verso i paradisi fiscali e 171 miliardi sono riconducibili alle persone abbienti che nascondono la ricchezza offshore.

      La frana della sanità pubblica nei paesi a basso reddito

      Il report si dedica in particolar modo ad esaminare l’impatto potenziale sulla spesa sanitaria della fuga verso i paradisi fiscali. Se le perdite stimate dai paesi ad alto reddito (426 miliardi di dollari all’anno) equivalgono secondo Tax Justice Network al 9,3% dei bilanci sanitari degli stati più floridi, nel caso dei paesi a basso reddito il decremento delle entrate fiscali (47 miliardi di dollari all’anno) corrisponde al 49% dei bilanci sanitari pubblici. La perdita di gettito si concentra in termini quantitativi nei paesi ad alto reddito, ma sono i paesi a basso reddito a subire il danno maggiore. “I paesi a reddito più basso – si legge nelle conclusioni del rapporto – subiscono le perdite più intense, perdendo di gran lunga le maggiori parte delle loro attuali entrate fiscali”.

      Il “Secondo Impero” del Regno Unito

      Il documento non si limita a conclusioni di tipo generale, ma ad esempio pone sul banco degli imputati il Regno Unito e la sua rete di Territori d’oltremare e di dipendenze della Corona, accusati di costituire “l’asse più ampio dell’elusione fiscale”. Un asse che coinvolgerebbe da una parte il cosiddetto “Secondo Impero” del Regno Unito e dell’altra i Paesi Bassi, il Lussemburgo e la Svizzera. “Il Secondo Impero – si può leggere a pagina 39 del documento – è responsabile per quasi la metà delle perdite fiscali, stimate in 171 miliardi a livello globale, dovute all’evasione fiscale offshore. Per una somma che si aggira intorno agli 85 miliardi di dollari statunitensi”.

      Dall’Ocse all’Onu?

      Il report di Tax Justice Network esamina i risultati ottenuti dall’Ocse negli ultimi decenni e auspica un nuovo ruolo nel contrasto all’evasione internazionale offshore per l’Onu. Secondo TJN il processo Beps (Base Erosion and Profit Shifting), dal 2013 al 2015 “non è riuscito a garantire una riduzione significativa dell’abuso globale e ha reso necessario Il secondo processo di riforma BEPS 2.0 […], che finora ha prodotto solo bozze di proposte politiche”. Alla luce di queste valutazioni il Network per la giustizia fiscale esorta gli stati a sostenere il trasferimento della leadership sulla tassazione globale dall’Ocse alle Nazioni Unite e a “votare nel prossimo inverno l’avvio dei negoziati per giungere all’approvazione di una convenzione fiscale Onu per evitare la sottrazione alle amministrazioni finanziarie di cifre astronomiche”