Migranti, da hospes a captivus

Con il documento che potete leggere qui sotto, scritto da Stefania Piras, Camilla Ponti, Nicola Cocco, per il collettivo NoCPRSalute (Mai più Lager – No ai CPR) e pubblicato sull’ultimo numero (maggio 2023) della rivista di Medicina democratica, inauguriamo la sezione di rosarossaonline.it dedicata al tema dei migranti. In questa sezione pubblicheremo materiali di riflessione, ma anche di iniziativa e di lotta su questo tema così cruciale in questa fase storica.

Le basi psicopatogene della criminalizzazione delle persone migranti e della detenzione amministrativa

“Ma vi sono altri esseri più sventurati ancora che, senza morire, sono divenuti cose per tutta la loro vita. Nelle loro giornate non vi ha alcuno spazio, alcun vuoto, alcun campo libero per qualcosa che proceda da loro; non si tratta di uomini che vivono più duramente di altri, posti socialmente più in basso di altri; si tratta di un’altra specie umana, un compromesso tra l’uomo e il cadavere. Che un essere umano possa essere una cosa è da un punto di vista logico una contraddizione; ma, quando l’impossibile è divenuto realtà, la contraddizione diventa strazio nell’anima. Questa cosa aspira in ogni momento ad essere un uomo, una donna, e in nessun momento ci riesce. È una morte che si allunga per tutto il corso di una vita; una vita che la morte ha raggelato molto prima di averla soppressa”
Simone Weil., Divide et impera, 1941

Dalle origini, abbiamo lasciato a pochi – imperatori, re, istituzioni – il potere di decidere arbitrariamente chi potesse avere il privilegio e chi no di appartenere alla categoria di essere umano. L’idea stessa di società – antica e moderna – si è generata grazie alla suddivisione degli esseri umani in gerarchie; la base di questa piramide è sempre stata costituita da tutte quelle persone identificate come “non umane” e dunque schiacciabili, sfruttabili ed eliminabili.

Basti pensare alla figura dell* schiavo, corpo/oggetto privato di qualsiasi tipo di libertà e autodeterminazione, che ha origine nella genesi stessa delle prime civiltà. Lo svuotare una persona degli attributi attinenti alla categoria essere umano permette la messa in atto contro di lei di azioni che, altrimenti, non sarebbe possibile compiere.

Questo processo di esclusione di alcune persone dalla categoria dell’umano viene chiamato deumanizzazione.

Deumanizzare significa “negare l’umanità dell’altro – individuo o gruppo – introducendo un’asimmetria tra chi gode delle qualità prototipiche dell’umano e chi ne è considerato privo o carente” (Volpato 2011, 4). La deumanizza zione contiene una componente psichica/cognitiva – privare l’altro degli attributi fondamentali caratteristici dell’essere umano – e una emotiva – assenza di empatia verso chi si ritiene esserne privo -;

da un punto di vista psicologico e sociologico, può essere messa in atto come:

  • un processo psicologico individuale portato avanti da un singolo;
  • un fenomeno sociale di massa.

Le scienze comportamentali, psicologiche e sociologiche hanno iniziato a studiare il processo di deumanizzazione in seguito alle terrificanti azioni dell’esercito nazista. Lo studio della cosiddetta soluzione finale, e delle condizioni che l’hanno resa possibile, è nato al fine di evitare che una tale deumanizzazione di massa potesse avvenire di nuovo. Eppure, al giorno d’oggi, alcune persone continuano ad essere private del diritto di essere considerate umane.

Concentrandoci sulle società occidentali, autonominatesi patrie dei diritti umani, il processo di deumanizzazione prosegue indisturbato, colpendo soprattutto la figura della persona straniera/non-cittadina e della persona migrante. È interessante notare come, nel corso dei secoli, i concetti di ospitalità e di straniero si siano profondamente modificati.

Il termine “ospite”, che in italiano ha un doppio significato (colui che è ospitato, ma anche colui che ospita), deriva dal termine latino “hospes”, che significa sia straniero sia amico di casa.

Il doppio contenuto semantico della parola hosps ci fa comprendere come, nell’antichità, l’idea della persona straniera fosse assimilata a quella di una persona cara, da accogliere e far sentire al sicuro. Il termine greco xenìa – da cui oggi deriva, al contrario, la parola xenofobia – stava proprio a simboleggiare uno specifico tipo di amore: quello tra l’oste e la persona ospitata.

Tuttavia, anche la parola latina hostis ha una doppia accezione: sta a significare sia nemico che straniero. Dunque, la persona straniera, da hospes gradita può trasformarsi in colei che ci è ostile. Quindi, passando per il termine hostis, la persona straniera può diventare captivus – prigioniera di guerra – e, in quanto bersaglio morale (“cattiva”), può essere legalmente privata della libertà personale.

Questa degradazione dal sacro concetto del mondo classico di “hospes” all’“hostis” minaccioso e da combattere, fino ad arrivare al “captivus”, può rappresentare un correlato storico-culturale per inquadrare la percezione profondamente negativa della persona straniera nella nostra società attuale.

Infatti, la nostra realtà sociale è attraversata da forti pulsioni xenofobe e razziste, e da una gestione politica dei fenomeni migratori che legalizza la criminalizzazione delle persone migranti, fino all’elaborazione e attuazione del dispositivo della detenzione amministrativa. La deumanizzazione della persona straniera e migrante odierna rappresenta una conseguenza naturale e “burocratica” di tali processi, i cui possibili effetti psicosociali sulle persone coinvolte saranno affrontati più avanti.

I CPR, Centri di permanenza per il rimpatrio

“La città del colonizzato, o almeno la città indigena, il quartiere ne*ro, la medina, la riserva, è un luogo malfamato, popolato di uomini malfamati. Vi si nasce in qualunque posto, in qualunque modo. Vi si muore in qualunque posto, di qualunque cosa. È un mondo senza interstizi, gli uomini ci stanno ammonticchiati, le capanne ammontic- chiate. La città del colonizzato è una città affamata, affamata di pane, di carne, di scarpe, di carbone, di luce. La città del colo- nizzato è una città accovacciata, una città in ginocchio, una città a testa in giù”
Frantz Fanon, 1961

I Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) sono dei luoghi all’interno dei quali vengono recluse persone in detenzione amministrativa (1), un tipo particolare di detenzione utilizzata dall’apparato di sicurezza statale nei confronti di persone straniere/non-cittadine ritenute irregolari per evitare il rischio di fuga durante il processo di identificazione e successiva deportazione (2). Per approfondire il tema della creazione dei CPR e del loro inquadramento giuridico, si rimanda ad altri articoli della Rete “Mai più lager – NO ai CPR” (vedi qui e qui). In queste pagine il focus è quello di evidenziare la patogenicità e la disumanità di questi luoghi e di analizzare gli aspetti di principale sofferenza psicologica causati e/o aggravati dal CPR.

(1) Per quanto venga spesso identificata la specificità della detenzione amministrativa nella “reclusione in assenza di reato”, va rilevato che anche individui con pregressi reati penali, ad esempio provenienti dal carcere, si trovano ad essere detenuti nei CPR: la mancanza di accesso ai diritti propria di questi luoghi nonché i loro effetti patogeni interessano in egual modo tutti i soggetti che vi si trovano reclusi, a prescindere dalla sussistenza di reati nel loro vissuto. La maggiore comprensione del senso di “ingiustizia” vissuta da chi si trova ad essere detenuto in assenza di reato penale rappresenta una semplificazione del senso comune, e questa nostra riflessione vuole essere quanto più analitica delle criticità intrinseche dei CPR quanto più inclusiva nei confronti degli individui che vi si trovano detenuti.

(2) Il termine “deportazione”, che nella lin- gua italiana viene spesso collegato a episodi storici di massa, relativi in particolare ai conflitti mondiali del Novecento, viene qui utilizzato in quanto, come dimostrato dal- l’utilizzo corrente di “deportation” nella let- teratura anglofona che si occupa di questi temi, il termine “rimpatrio” lascia trasparire un substrato di volontarietà e accettazione del provvedimento amministrativo statale da parte dell’individuo deportato (ne è un
riscontro la dicitura specificata “rimpatri
forzati” che anche il linguaggio burocratico
delle direttive ministeriali è costretto ad utilizzare). La semplice etimologia del termine
“deportare”, con la preposizione de- ad
indicare l’allontanamento del soggetto dal
posto in cui ha deciso di stare, chiarisce
come tale atto sia eterodiretto, in questo caso
da un provvedimento forzato legalizzato.

La criminalizzazione della persona straniera/non-cittadina e la sua desoggettivazione all’interno del CPR

Un aspetto fondamentale del processo di deumanizzazione è che esso avviene, da un punto di vista temporale, prima della messa in atto di comportamenti violenti e/o contrari alla dignità umana.

In altre parole, non si deumanizza l’altro perché lo si vede meno umano; al contrario, per poter percepire l’altro meno umano, è necessario prima deumanizzarlo. Dunque, secondo il pensiero di Volpato, la deumanizzazione può essere considerata come “un’arma fondamentale per chiunque intenda compiere azioni di violenza estrema verso altre persone o gruppi” (Volpato 2011, 28).

All’interno di questo concetto è racchiusa l’essenza stessa del processo di deumanizzazione: la legittimazione della violenza. Sorge quindi spontanea una domanda: quale espediente utilizziamo al fine di deumanizzare la persona straniera e migrante?

Come citato in precedenza, trasformandola da hospes a hostis e da hostis a captivus.

Lo psicologo statunitense Philip Zimbardo, teorizzatore dell’“effetto Lucifero” cui faremo riferimento più avanti, analizza lo strumento principale utilizzato da uno stato o da un insieme di persone al fine di giustificare azioni crudeli e violente: la creazione di una propaganda d’odio verso il nemico, tramite l’ideazione di un’immaginazione ostile.

“Che cosa ci vuole perché i cittadini di una società detestino quelli di un’altra società al punto da volerli segregare, torturare, addirittura uccidere? È necessaria un’“immaginazione ostile”, una costruzione psicologica profondamente radicata nella loro mente dalla propaganda, che trasformi gli altri nel “Nemico”.

Tale immagine è la motivazione più potente di un soldato, quella che carica il suo fucile con le munizioni dell’odio e della paura. L’immagine di un nemico temuto che minaccia il benessere individuale di una persona e la sicurezza nazionale della società spinge madri e padri a mandare i loro figli in guerra e autorizza i governi a cambiare l’ordine delle priorità per trasformare i vomeri degli aratri in spade di distruzione” (Zimbardo, 2008, p: 13).

Secondo Zimbardo, questo processo di costruzione dell’odio incomincia tramite la formazione di concezioni stereotipate dell’altro che puntino a privarlo delle caratteristiche proprie di un essere umano. Dunque, si trasmette un’immagine dell’altro come di un mostro, di un criminale immorale, di una qualcosa di demoniaco e inarrestabile, di un virus o di un animale disgustoso e pericoloso.

Riferendosi alla campagna d’odio e di allarmismo portata avanti dalla politica italiana ed europea nei confronti dei fenomeni migratori, si va incontro a quella che viene definita criminalizzazione della persona straniera e migrante.

Quante volte all’interno di articoli di giornale, servizi televisivi o dibattiti e comizi politici abbiamo sentito utilizzare le parole “invasione”, “pericolosità sociale”, “bisogno di sicurezza”, “rubare il lavoro”? Quante volte, a seguito di un reato, viene specificata la nazionalità del reo esclusivamente se non è quella italiana?

Se al grande pubblico viene trasmessa l’idea che l’equazione migrazione = pericolo sia moralmente corretta e veritiera, tramite anche la manipolazione e la distorsione di dati e statistiche, il perpetrare abusi indisturbati diviene molto più semplice. Quindi, ciò che permette la deumanizzazione della persona straniera e migrante è la sua criminalizzazione, e la messa in atto della trasformazione da hospes a hostis.

Dopo la diffusione dell’immagine della persona migrante quale pericolosa e quindi da individuare e rinchiudere, il passaggio da hostis a captivus è molto semplice. La criminalizzazione è il presupposto socioculturale necessario alla giustificazione della detenzione amministrativa e al mantenimento dei CPR.

Le modalità tramite le quali una persona viene portata all’interno dei CPR, l’architettura e il funzionamento dei centri sono tutti aspetti correlati al rafforzare l’idea che, nei confronti della persona straniera e migrante, siano necessarie azioni di violento contenimento.

Inoltre, le caratteristiche detentive e deumanizzanti tipiche del percorso all’interno dei CPR hanno un altro, fondamentale scopo condiviso con tutte le istituzioni totali: quello di assoggettare e sottomettere la persona straniera e migrante tramite una sua desoggettivazione. Desoggettivare significa privare una persona della possibilità di vivere come un individuo unico, irripetibile ed autodeterminato, togliendole tutte le caratteristiche che la rendono chi è.

Significa strappare ad una persona il proprio Sé, spogliandola della complessità insita in ognuno di noi. Significa ridurla ad essere nuda vita. Il concetto di nuda vita venne teorizzato per la prima volta da Giorgio Agamben; il filosofo, ricollegandosi al concetto di biopolitica (3) foucaultiano, riflette su come la politica abbia la facoltà di creare e giustificare situazioni di eccezione giuridica all’interno delle quali i diritti caratterizzanti la tutela dell’essere umano vengono meno, al fine di controllare al massimo le persone assoggettate, riducendole a meri corpi che respirano.

(3) Per Foucault la biopolitica è quell’insieme di pratiche tramite cui la rete di poteri regola e gestisce i corpi – e dunque la vita – delle persone assoggettate.

Questi corpi, privati delle prerogative sociali e individuali della vita umana, diventano oggetti/ostaggi alla mercé di un potere che ne può fare ciò che desidera. Sono vite conosciute e considerate per negazione: ci accorgiamo di loro soltanto nel momento in cui ne eliminiamo la più profonda essenza umana e ne decretiamo la morte simbolica e sociale.

Di seguito, verranno analizzati i principali aspetti della detenzione amministrativa e del funzionamento dei CPR, utili al fine di desoggettivare le persone al loro interno rendendole nuda vita.

Un primo, agghiacciante aspetto riguarda l’accompagnamento e l’entrata all’interno dei CPR. Spesso, le persone vengono costrette verso i CPR con metodi coercitivi e tramite l’utilizzo di manette, fascette di velcro o altri strumenti di contenzione, con scarse se non nulle informative di carattere giuridico e relative alla tutela dei diritti fondamentali. Questo aspetto per la psiche della persona straniera è disgregante, poiché, giustamente, viene destabilizzata e totalmente disorientata dal non riuscire a comprendere il perché di un simile trattamento, non avendo compiuto alcun reato che possa “validare” suddetti metodi.

Inoltre, all’entrata nei CPR, ad ogni persona trattenuta viene affidato un codice numerico per il riconoscimento, codice che spesso viene utilizzato anche dall’operatore al posto del nome della suddetta persona.

Gli operatori che collaborano nella Rete Mai più lager – NO ai CPR riportano come, diverse persone intervistate, da cui sono stati contattati in seguito alla detenzione, si presentano e parlano di sé utilizzando il codice numerico assegnatogli all’entrata, invece del proprio nome.

Questo particolare tipo di deumanizzazione, che conduce ad una desoggettivazione totale e assoluta della persona, viene chiamato oggettificazione, e fa sì che l’individuo sia considerato e trattato come una cosa, una merce, uno strumento.

Il processo di oggettivazione comprende sette dimensioni (Volpato 2011, p: 107):

  1. strumentalità: l’oggetto è uno strumento per gli scopi altrui;
  2. negazione dell’autonomia: l’oggetto è un’entità priva di autonomia e autodeterminazione;
  3. inerzia: l’oggetto è un’entità priva della capacità di agire e di essere attivo;
  4. fungibilità: l’oggetto è interscambiabile con altri oggetti della stessa categoria;
  5. violabilità: l’oggetto è un’entità priva di confini che ne tutelino l’integrità, è quindi possibile farlo a pezzi;
  6. proprietà: l’oggetto appartiene a qualcuno e può quindi essere venduto o prestato;
  7. negazione della soggettività: l’oggetto è un’entità le cui esperienze e i cui sentimenti sono trascurabili.

Naturalmente non tutti gli individui oggettivati lo sono in tutti questi modi contemporaneamente.

Rubare il nome, e dunque l’identità, ad una persona sostituendola con un numero, permette di avere un totale controllo su di lei. La desoggettivazione delle persone detenute, sostenuta da una loro precedente oggettificazione, permette anche di assopire il senso di colpa e la naturale empatia delle persone che lavorano all’interno dei CPR, e favorisce la messa in atto di comportamenti crudeli e violenti, contrari alla dignità umana.

Zimbardo, in seguito al suo esperimento carcerario di Stanford (4), definì questo processo relazionale effetto Lucifero. Il concetto alla base dell’effetto Lucifero è che, se delle persone essenzialmente non violente vengono inserite all’interno di un contesto che favorisce la deumanizzazione e la conseguente desoggettivazione dell’altro, e sono investite di potere da un’autorità superiore, diventino capaci, in un lasso di tempo estremamente breve, di mettere in atto contro altri esseri umani azioni violente e terribili. La vastità della portata dell’effetto Lucifero verrà ripresa in seguito.

(4) Philip G. Zimbardo, L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Raffaello Cortina, Milano 2008.

Un altro aspetto volto a favorire la depersonalizzazione delle persone trattenute è l’aspetto fisico e architettonico dei centri. L’architettura di questi luoghi è indissolubilmente legata alla loro funzione: isolare – dalla comunità all’esterno, ma anche da se stessi – e contenere.

La struttura e la funzione dei CPR rimandano indissolubilmente all’idea di carcere, di cui mancano però l’intento costituzionale di reinserimento sociale nonché di tutele dei diritti – incluso quello alla salute -: le persone vivono letteralmente sulla loro pelle il tragico paradosso della detenzione in assenza di un reato connesso alla detenzione stessa, e in attesa di espulsione.

È bene sottolineare che qualsiasi persona entri all’interno del CPR, viene invasa da un’immediata, diffusa e penetrante sensazione di soffocamento. I CPR sono dei blocchi di cemento con muri infiniti e sbarre alle finestre, all’interno dei quale sono previsti dei moduli abitativi minuscoli (5), che non rispettano neanche le minime norme igieniche e sanitarie, sporchi, e spesso privi di porte, sanitari, arredamento, spazi per attività di culto e/o ricreative e/o lavorative: “sia i tavoli sia le panche della sala mensa di ciascun settore (uno spazio piuttosto contenuto che deve contenere 28 persone) erano insopportabilmente “appiccicosi”, e quando vengono distribuiti i pasti non vengono apparecchiati, neppure con tovagliette di carta. […] In entrambe le sale mensa si trova una gabbia, con riguardo alla presenza della quale anche il Garante Nazionale aveva espresso preoccupazione per le possibilità di utilizzo improprio. Da una di esse pende un cappio, utilizzato più di una volta da trattenuti per tentativi di suicidio, come raccontatoci da A.O.

Ancora più sporchi si presentano i cortili di ciascun settore, sul cui suolo si trovano cartacce e resti di cibo, sui quali si fiondano i piccioni, tra i fili tesi del bucato “fai da te“ […]. Ma il limite della decenza viene oltrepassato nei bagni interni che accedono ai moduli abitativi: la sporcizia impera dappertutto, e le turche (non vi son water), claustrofobiche, sono separate una dall’altra da divisori senza porte, il che impedisce di avere alcuna privacy […] Il lavandino è lungo, unico e continuo, come fosse un abbeveratoio per il bestiame.” (De Falco, 2021, pp: 54 – 56).

(5) 50 m2 bagni compresi, che ospitano fino a 7 persone. Cfr. Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Rapporto Sulle Visite Effettuate Nei Centri Di Permanenza Per I Rimpatri (CPR) (2019-2020) .

La persona detenuta vive in una condizione di abbandono e isolamento totale. In aggiunta, all’ingresso nei CPR, spesso i telefoni cellulari vengono requisiti/danneggiati tramite la rimozione della videocamera, per evitare che le persone detenute possano comunicare con l’esterno e/o testimoniare le disumane condizioni a cui sono sottoposte.

L’isolamento all’interno dei CPR, inoltre, non è solo un aspetto che riguarda la dimensione fisica della persona trattenuta, ma va ad intaccare anche la cerchia sociale e affettiva. Nei casi più eclatanti – ad esempio quando vi è la necessità di assistere un genitore anziano o prendersi cura di figli minori – la direttiva ministeriale che regolamenta la vita nei CPR considera questi bisogni delle vulnerabilità sociali che di fatto rappresentano motivo di non idoneità alla vita ristretta del CPR (6).

(6) Art. 3 della Direttiva del Ministro dell’Interno del 19 maggio 2022 “Criteri per l’organizzazione e la gestione dei centri di permanenza per i rimpatri” (cd “Direttiva Lamorgese”).

Tuttavia, tali situazioni “eccezionali” non prendono in considerazione il bisogno e il diritto di chiunque di avere un accesso alle proprie relazioni affettive, lavorative e familiari indipendentemente da situazioni di urgenza, e di fatto rischiano di rappresentare un ulteriore arbitrio sulla scelta di chi detenere o meno da parte dell’autorità giudiziaria.

Dunque, la depersonalizzazione della persona detenuta avviene anche a livello relazionale, poiché vengono recisi brutalmente tutti i suoi ponti affettive e sociali.

Inoltre, all’interno dei CPR le persone detenute non hanno la possibilità di cucinare da sole, come avviene invece nelle carceri. Spesso, è stato riferito come il cibo fornito da enti gestori fosse scaduto, avariato, insufficiente a sfamarsi o immangiabile.

Capita non di rado che il detenuto sia obbligato, in assenza di uno spazio adibito alla consumazione dei pasti, a mangiare per terra, in piedi o sui materassi, a fianco dei servizi igienici. In aggiunta, nei CPR coabitano persone con storie, esperienze e aspetti culturali; tuttavia, il cibo fornito non tiene conto delle differenze di abitudini alimentari delle persone detenute, le quali sono obbligate a consumare ogni giorno pietanze, come la pasta, che non appartengono alla loro tradizione culinaria.

Questo aspetto, che può in apparenza risultare secondario, è invece fondamentale: il diritto alla scelta è indissolubilmente legato al mantenimento della dignità umana.

A favorire la totale depersonalizzazione delle persone detenute all’interno dei CPR è anche l’assenza di qualsiasi tipo di attività: le giornate all’interno dei CPR sono ogni giorno uguali a se stesse. Il report “Delle pene senza delitti – Istantanea del CPR di Milano“ riporta come, all’interno del CPR di via Corelli a Milano, l’unica attività concessa sia l’utilizzo – parsimonioso – di un mazzo di carte. La persona detenuta, dotata di passioni, capacità, titoli di studio e abilità lavorative, viene completamente privata della possibilità di coltivare qualsiasi tipo di interesse, e di conseguenza della possibilità di immaginare e sognare.

Il tempo non appartiene più alla persona che lo vive, ma è scandito dall’Istituzione. Così, ora dopo ora, la persona perde del tutto il controllo sulla propria vita.

Tutti gli aspetti sopra descritti possono essere racchiusi all’interno dei fattori di deumanizzazione e di conseguente desoggettivazione delle persone detenute nei CPR. Le conseguenze dirette a livello psichico, emotivo e identitario possono essere individuate in tre processi: disgregazione del Sé, alienazione e dissoluzione identitaria.

Disgregazione del Sé

Dal punto di vista psicologico e psicanalitico, il Sé ha varie sfumature di significato, ma può essere definito come il nucleo primario dell’identità di un individuo. Il Sé è il centro di integrazione dell’esperienza psichica, emotiva e fisica di una persona, è la costante interna che, sviluppandosi e consolidandosi, permette di significare se stesso e il mondo all’interno dell’esperienza quotidiana. Lo psicologo e psicanalista ungherese Peter Fonagy teorizzò che il bambino, alla nascita, fosse dotato di un Sé pre-riflessivo, o fisico (10).

(7) Fonagy, P. (1996). Attaccamento, sviluppo del Sé e sua patologia nei disturbi di personalità. Kos, 129, 26-32.

Durante i primi due anni di vita, il bambino sviluppa anche un Sé riflessivo, o psicologico, che con il passare del tempo diviene sempre più strutturato, complesso e integro. Il Sé di una persona riesce a diventare coeso e funzionale grazie alla presenza di relazioni di accudimento positive e alla possibilità continuativa di portare avanti una vita densa di significato affettivo, autodeterminazione e realizzazione personale.

Traumi profondi ed esperienze di deumanizzazione possono portare ad una frammentazione di questa struttura portante della vita psichica umana.

Un Sé disgregato porta la persona a percepire di non avere controllo sulla propria vita e si trascina dietro una costante sensazione di estraneità e di alienazione dalla realtà e da se stesso, fino a renderla un corpo che sente di essere privato di un pensiero e di una psiche soggettivi.

Questa disintegrazione può portare la persona a sperimentare un senso di angoscia ontologica e di puro terrore, oppure una totale apatia nei confronti di qualsiasi aspetto della vita, tramite una sorta di rassegnazione psichica ed esistenziale. Rimane costante però, a seguito di una disgregazione del Sé, l’impossibilità di significare se stesso e la realtà circostante in termini di stati mentali.

Alienazione

L’alienazione fu studiata in particolare da Karl Marx rispetto alla condizione del lavoratore industriale a seguito della diffusione del capitalismo e della catena di montaggio tayloriana. Alienarsi significa estranearsi dalla realtà e isolarsi a livello psichico ed emotivo, tramite la messa in atto di una dissociazione totale da noi stessi e di appiattimento alla realtà che ci circonda. Il processo di alienazione porta la persona a percepire costantemente la realtà psichica interna come un qualcosa di estraneo, intollerabile, da cui, per sopravvivere, è necessario allontanarsi.

L’alienazione comporta una perdita di sensibilità nei confronti di qualsiasi stimolo, interno o esterno che sia, tramite un assuefazione totale. In una condizione di detenzione amministrativa, l’alienazione può essere vista come una forma di tutela del Sé, al fine di sopravvivere alle violenze disumane a cui si è sottoposto.

All’interno di una realtà deumanizzante e terrorizzante, distaccarsi del tutto dalla realtà circostante può essere l’unica soluzione possibile per proteggersi. L’alienazione permette anche alla persona detenuta di allontanarsi dal proprio passato e futuro, aiutandola a tollerare la condizione di abbandono e isolamento totale alla quale è sottoposta.

Dissoluzione identitaria

A seguito del processo di desoggettivazione, che ha come conseguenze dirette sulla psiche la disgregazione del Sé e l’alienazione, non si può che assistere ad una dissoluzione identitaria della persona detenuta. La persona migrante entra all’interno dei CPR come essere dotato di un’identità unica e personale e si ritrova sottoposta a condizioni che le impediscono di portare avanti un processo di consolidamento della percezione di Sé.

La totale assenza di qualsiasi tipo di attività priva la persona detenuta della possibilità di continuare a prendersi cura di esperienze significative per il proprio senso identitario: lavoro, passioni, attitudini, studi. Inoltre, la criminalizzazione e la detenzione in assenza di reato fanno scaturire nella persona migrante una dissonanza nei confronti di se stessa; infatti, l’impossibilità di riconoscersi e ritrovarsi nella figura del “criminale”, le impedisce di poter integrare le esperienze a cui è sottoposta.

Capita quindi che, per sopravvivere e trovare coerenza nella realtà circostante, la persona sia costretta a forgiare dall’alienazione e dalla deprivazione un nuovo senso identitario, correlato a quello della figura detenuta e pericolosa socialmente. L’essere umano ha bisogno di significare e di essere significato, e si aggrappa a qualsiasi indizio che gli permetta di intuire chi sia all’interno della realtà.

All’interno di questo processo di dissoluzione identitaria si inserisce il fallimento del progetto migratorio, per il quale la persona migrante che ha investito denaro, risorse fisiche, psicologiche e lavorative si ritrova a non poter raggiungere i fini che l’hanno portata a spostarsi dal proprio paese. Questo fallimento comporta la creazione di un forte senso di colpa e di impotenza. Oltretutto, per molte persone migranti l’Italia è solo un paese di passaggio per ricongiungersi con familiari e conoscenti in altri stati europei.

Invece, si trovano costrette e detenute in uno stato che le vuole rimpatriare senza nemmeno aver dato loro la possibilità di chiedere asilo o protezione internazionale nel paese desiderato, o senza aver verificato se le donne che arrivano siano vittime di tratta o di sfruttamento sessuale non avendo quindi indagato le condizioni che le hanno portate a doversi spostare.

Altri aspetti rilevanti per la salute mentale delle persone detenute all’interno dei CPR possono essere individuate nelle condizioni di violenza a cui sono sottoposte come soggetti e come spettatrici e nella carenza di personale, correlata all’abuso dell’utilizzo di psicofarmaci.

Violenza subita e assistita

La persona detenuta, anche a seguito delle conseguenze causate dall’effetto Lucifero sopra indicato, rischia di subire torture (8) e/o pestaggi per ‘il mantenimento dell’ordine interno’ senza che nessuno possa intervenire e/o tutelarla.

Infatti, la totale deumanizzazione delle persone trattenute giustifica la messa in atto di violenze fisiche e/o psicologiche al fine di educarle alla realtà detentiva circostante. Dunque, la persona detenuta si trova a sperimentare un senso di impotenza appresa.

(8) Il 2 novembre 2022, nel CPR di via Corelli di Milano, ad un ragazzo detenuto, il quale si era cucito le labbra con un filo di ferro per protesta, è stato strappato brutalmente questo filo di ferro da alcuni Agenti in assenza di un’assistenza medica/di un’anestesia, dopo essere stato braccato ed immobilizzato.

Il concetto di impotenza appresa, teorizzato per la prima volta dallo psicologo Martin Seligman e poi ulteriormente studiato nelle donne soggette a violenza di genere, comporta la creazione di un’assoluta passività nella persona vittima di violenza la quale, non avendo alcun controllo rispetto alla situazione abusante a cui è sottoposta, tende a sopprimere qualsiasi tipo di iniziativa personale, al fine di adattarsi e sopravvivere.

Di contro, può anche causare reazioni di estrema rabbia e violenza, messe in atto come tentativo di reazione alle ingiustizie subite. In ogni caso, l’impotenza appresa comporta una totale cancellazione del senso di speranza nei confronti di un cambiamento della propria condizione.

Un altro aspetto di violenza fisica e psicologica può essere riscontrato nella messa in atto di rimpatri improvvisi. Infatti, diverse persone detenute hanno riferito di essere state svegliate nel mezzo della notte senza alcun preavviso, aggredite e poi portate via con la forza per essere rimpatriate. Questo aspetto di imprevedibilità dei rimpatri accresce nelle persone detenute un senso costante di precarietà della propria condizione; inoltre, spalanca in loro la disarmante consapevolezza che non sia concesso conoscere cosa accadrà in futuro, rendendo così impossibile l’avanzamento di un lavoro integrativo tramite il quale la persona si possa sentire protagonista attiva del proprio percorso e progetto migratorio.

Per evitare i rimpatri improvvisi, accade (oltre che la persona si privi volontariamente del sonno per timore dei prelievi notturni – o delle cure – per timore di “agguati“ in infermeria) che nascano rivolte e atti di autolesionismo estremo, come il rompersi apposta una gamba.

“H.A.K., uomo di 46 anni e padre di tre figli di 9, 5 e 4 anni, si è imbarcato a Zawiya, in Libia. Giunto a Lampedusa, viene isolato sulla nave GNV Allegra, dove manifesta l’intenzione di chiedere la protezione internazionale in Italia: “L’uomo ha paura di essere rimpatriato e chiede aiuto affinché questo non succeda”, è scritto sulla sua scheda della Croce Rossa […] Fatto sbarcare a Messina, a H.A.K. non viene però consentito di chiedere asilo, ma gli viene notificato un decreto di respingimento dall’Italia e un decreto di trattenimento presso il CPR di Torino […] La sera del 5 febbraio 2021, dopo 84 giorni di reclusione, H.A.K. si frattura con violenza la gamba sinistra.” (ASGI, 2021, pp: 14 – 15).

All’interno dei CPR, gli atti di autolesionismo, i tentati suicidi e le aggressioni da parte delle Forze dell’Ordine sono all’ordine del giorno e danno luogo ad un altro tipo di violenza: la violenza assistita.

L’essere testimoni di violazioni dei diritti umani crea un senso di terrore e di annientamento del Sé molto profondo. La violenza assistita è considerata dall’OMS come una forma grave di maltrattamento, una forma di violenza indiretta, dove la vittima è, suo malgrado, spettatrice di isolati o ripetuti maltrattamenti. Questo tipo di violenza è stata studiata soprattutto in ambito intrafamiliare, nei casi di abusi perpetrati nei confronti di un genitore, solitamente la madre, attuati in presenza di soggetti in età minorile.

In ambito psicologico e psichiatrico, essere testimoni di violenza determina sintomi analoghi alle esperienze traumatiche e rende possibile lo sviluppo di disturbi post-traumatici o dell’umore. Inoltre, l’impossibilità di prevedere quando la successiva violenza sarà messa in atto, porta la persona a sperimentare un senso costante di terrore e di allerta, verso di sé e verso l’altro.

Carenza di personale di cura, psicofarmaci

Il paradosso della detenzione all’interno dei CPR è che le Forze dell’Ordine e il personale stanno al di fuori delle strutture abitative in cui sono costrette a vivere le persone detenute, le quali sono lasciate quasi per tutta la durata delle giornate ad un abbandono totale.

Persino l’Istituzione si rifiuta di varcare i cancelli del CPR. Per qualsiasi cosa, dall’accensione di una sigaretta allo spegnimento delle luci (9), sono costrette ad affrancarsi alle sbarre che le separa dalla civiltà e urlare fino a quando qualche operatore non si accorge di loro.

(9) In diversi CPR, le persone detenute non hanno la possibilità di scegliere quando accendere o meno le luci.

Questa totale assenza di indipendenza personale non può che inserire le persone detenute in un processo regressivo di infantilizzazione disumana ed umiliante. In casi emergenza, come tentati suicidi, atti autolesivi e malesseri vari, capita che passino svariate ore, durante le quali l’intero modulo abitativo urla disperatamente e sferra calci alla porta blindata per attirare l’attenzione prima che qualcuno intervenga.

La presenza del personale civile è del tutto inadeguata (10). Di contro, in assenza di prescrizione medico/psichiatrica e di qualsiasi tipo di controllo e monitoraggio, l’utilizzo degli psicofarmaci come metodo contenitivo e lenitivo è sconfinato.

(10) Il report di ASGI del 2021 riporta come nel CPR di Torino ci siano: 1 infermiere per 24 ore, 1 medico per circa 5 ore al giorno, 2 operatori notturni e circa 14 minuti alla set- timana di assistenza psicologica.

L’utilizzo di psicofarmaci all’interno dei CPR assolve ad una duplice funzione; da una parte, è utilizzata come strumento dell’apparato securitario al fine di controllare le persone detenute, tramite l’utilizzo di “camicie di forza farmacologiche“. Dall’altra, serve a bilanciare la carenza quantitativa e qualitativa del personale di cura all’interno dei CPR che, di fronte alle problematiche psicologiche descritte (che derivano dalla somma dei percorsi traumatici del singolo, degli aspetti psicopatogeni della detenzione amministrativa e dei CPR e della reazione psichica alle dinamiche di deumanizzazione e violenza assistita), non è in grado di rispondere con percorsi specialistici e multidisciplinari (come dovrebbe essere garantito alla popolazione generale), se non tramite l’uso sedativo degli psicofarmaci.

Inoltre, capita non di rado che siano le stesse persone detenute a richiedere gli psicofarmaci per tollerare e lenire il dolore a cui sono sottoposte e per sopravvivere alla noia e al degrado quotidiano.

Conclusione

I CPR sono uno fra i tanti strumenti utilizza ti dalla necropolitica (11) europea e italiana per gestire i flussi migratori. E, dunque, diviene non solo normale ma anche giuridicamente possibile deportare (12) e segregare delle persone che hanno chiesto protezione ed aiuto ai nostri stati. E che, di contro, si sono trovate inserite in un inferno che nulla ha da invidiare a quello dantesco.

I Centri di Permanenza per il Rimpatrio sono luoghi patogeni e disumanizzanti, che deteriorano giorno dopo giorno la salute psicofisica delle persone rinchiuse al loro interno. Questo articolo vuole essere una presa di posizione assoluta e ferma contro la detenzione amministrativa e l’esistenza dei CPR sul territorio italiano ed europeo.

Come psicologi abbiamo il dovere, non solo etico, ma anche deontologico (13), di opporci ad azioni istituzionali e politiche contrarie alla dignità umana, che violano apertamente i diritti umani. I CPR sono luoghi patogeni e disumani, che hanno effetti devastanti sulla salute psicofisica delle persone trattenute e che sono lo strascico di politiche violente post coloniali che l’Europa non vuole abbandonare, nonostante i costi umani dei CPR siano inestimabili.

(11) Con il termine necropolitica, coniato da Achille Mbembe, ci si riferisce a tutte quel- le forme di dominio e sottomissione postco- loniali che hanno lo scopo di selezionare, tramite pratiche giuridiche, politiche inter- ne ed esterne e propagande, le persone che devono essere lasciate morire poiché sco- mode o indesiderate. La reclusione all’inter- no dei CPR è una forma di necropolitica.

(12) Con il termine deportazione ci si riferisce ad una totale privazione di diritti civili e politici di una o più persone e il loro trasferimento coatto e forzato verso un luogo di detenzione.

(13) Articolo 4 del Codice Deontologico degli psicologi italiani.

Dal punto di vista psicologico questi non-luoghi del diritto rappresentano dei veri e propri apparati di tortura legalizzati. Lo stato italiano, all’arrivo delle persone migranti, nei fatti le seleziona seguendo il criterio della fantomatica fragilità, per decidere arbitrariamente chi rinchiudere in vista di una futura deportazione e chi invece è meritevole di ricevere asilo e protezione.

“Uno scenario fatto di negligenze e abusi da parte di autorità istituzionali e attori privati che collaborano nella gestione dei centri; nonché di dinamiche di funzionamento selettivo del sistema volte a riprodurre una “gerarchia di merito della detenzione” per cui le persone più “vulnerabili” – o meglio quelle considerate più “inoffensive” o “vittime” – sono degne di essere “salvate” e differenzialmente incluse nelle nostre comunità bianche occidentali, mentre le altre – quelle “pericolose”, quelle “criminali”, quelle “devianti”– sono condannate alla reclusione e espulsione.” (Esposito, Caja, Mattiello, 2022, p: 23).

Ma come si può essere idonei alla tortura? Dunque, la persona migrante si trova squarciata da una dicotomia di pensiero che la vede colpevole o vittima, senza mai lasciarle la possibilità di essere semplicemente un essere umano che ha il diritto ad autodeterminarsi. Le persone migranti non sono né criminali né persone prive di agency: sono esseri umani resilienti che hanno deciso – spesso senza avere altre alternative – di spostarsi, con l’indistruttibile speranza di chi sogna una vita migliore per sé e per chi ama.

Le persone all’interno dei CPR non sono fragili di per sé, ma si ammalano e si deteriorano a causa dell’ambiente violento e deumanizzante nel quale sono inserite. I sintomi psicofisici che sviluppano non sono altro che risposte sane e funzionali ad una condizione patogena, alienante, immodificabile e disgregante, alla nuda vita.

In quest’ottica, gli atti di autolesionismo quotidiano, come l’ustionarsi parti del corpo con olio bollente, gli scioperi della fame, le rivolte e i tentati – e a volte riusciti – suicidi possono essere visti come gesti estremi di ribellione e di resistenza attiva, portati avanti tramite l’unico mezzo a disposizione per autodeterminarsi: il corpo.

Tuttavia, se una persona si ritrova a doversi spezzare da sola una gamba o a doversi impiccare con delle lenzuola luride per affermare il proprio diritto ad una vita libera, sicura e dignitosa, è evidente come la situazione a cui è sottoposta sia drammatica e disumana.

Non c’è altra possibile conclusione: i CPR sono lager di stato, e uccidono.

Chiunque scelga di rimanere in silenzio davanti a queste atrocità, è complice della morte, reale, simbolica e sociale, di tutte le persone trattenute al loro interno. Questi aspetti riportati in questo articolo sono la quotidianità per un innumerevole numero di esseri umani, che spesso non hanno lo spazio per raccontarsi e vivere il dolore con la comunità e con le loro famiglie.

Siamo coscienti del fatto che sia stato possibile scrivere queste righe avendo il privilegio di poterlo fare e di poter testimoniare ciò che altri non hanno la possibilità di dire e raccontare.

Il privilegio non è né una colpa né una scelta; decidere di non squarciare questo soffitto di cristallo insanguinato, dopo aver acquisito consapevolezza, è invece una scelta attiva.

“Qual è il valore della testimonianza? Cosa significa che qualcosa è vero? Se un albero cade nella foresta e blocca a terra un tordo dei boschi femmina, e lei grida, grida e nessuno la sente, ha forse fatto un rumore? Ha sofferto? Chi lo dice?”
Carmen Maria Machado, 2019

Bibliografia

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